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Il difficile futuro dell’Iraq dopo la liberazione di Mosul

Il primo ministro iracheno, Ḥaydar al-ʿAbādī, ha annunciato la liberazione di Mosul dai miliziani dello Stato Islamico a conclusione di una feroce battaglia iniziata lo scorso ottobre per la riconquista della città simbolo del Califfato di al-Baghdādī. Oggi l’Iraq festeggia un’importante vittoria, ma solo vincere le difficili sfide del futuro potrà far parlare di pace

LA LIBERAZIONE DI MOSUL – Dopo 266 giorni di feroce combattimento, la battaglia per la riconquista di Mosul è quasi completamente conclusa. Domenica 9 luglio, il premier iracheno, Ḥaydar al-ʿAbādī, arrivato personalmente in città, ne ha annunciato la liberazione dai jihadisti dell’IS. La coalizione a guida statunitense ha confermato che le forze irachene hanno ripreso il totale controllo di Mosul, nonostante alcune zone della Città Vecchia debbano ancora essere bonificate dagli esplosivi e dagli ultimi miliziani rimasti. La gioia e l’importanza della vittoria non offuscano però la portata catastrofica della battaglia per migliaia di civili uccisi, feriti o sfollati, né liberano definitivamente il Paese dalla minaccia islamista. L’IS mantiene ancora il controllo di una fascia di territori ad Ovest di Mosul e nella zona al confine con la Siria, tra le province di Ninive ed Anbar. Parallelamente, le sconfitte sul campo e la perdita dei maggiori centri urbani hanno spinto i suoi militanti a reagire e adattarsi ad una nuova strategia di guerra in Iraq. Già da qualche tempo si sono registrati sempre più attentati e attacchi rapidi e mirati, mentre quello che prima era un fronte unitario, oggi si va frammentando in cellule locali e clandestine o si va disperdendo nelle campagne irachene. Da lì, sfruttando le divisioni settarie e le difficoltà che la ricostruzione porterà inevitabilmente con sé, l’IS potrà continuare a destabilizzare la regione e ad alimentare le radicalizzazioni e i reclutamenti.

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Fig. 1 – La distruzione di Mosul Ovest, qualche giorno dopo l’annuncio della liberazione della città

LA “QUESTIONE SUNNITA” – Del resto, la stessa nascita dello Stato Islamico e la sua presa in Iraq (la componente irachena ha giocato un ruolo centrale nella formazione del gruppo, fin dai tempi del suo principale ispiratore, Abū Muṣʿab al-Zarqāwī), affondano le radici in quella che può essere definita una vera e propria “questione sunnita”, data dal risentimento di una comunità che dalla caduta del regime di Ṣaddam Ḥusayn nel 2003 si è sentita oppressa e marginalizzata. L’affermazione del blocco curdo e il consolidamento del potere sciita sostenuto dall’Iran hanno progressivamente escluso la minoranza sunnita dalle posizioni chiave di governo, in attuazione di una politica settaria ulteriormente inasprita a partire dal 2011 dall’allora primo ministro al-Mālikī. I movimenti di protesta nati nelle province furono repressi, mentre le istituzioni civili e militari furono epurate in ossequio alla legislazione anti baathista. Perseguitata e oppressa, la comunità sunnita cominciò a reagire, dando vita a gruppi islamisti insurrezionali e poi appoggiando o quanto meno non opponendosi alla nascita e all’espansione dell’IS. Oggi, il rischio è che nelle città e province liberate dal controllo jihadista, le famiglie che hanno appoggiato lo Stato Islamico o un cui familiare aveva scelto di arruolarsi, o ancor più semplicemente famiglie che alla pari di altre minoranze perseguitate hanno dovuto subire la ferocia del califfato, si ritrovino a subire il risentimento e la vendetta dei vincitori, come già è avvenuto dopo le vittorie a Ramadi e Falluja. Così, la storica ostilità di una parte della popolazione arabo sunnita nei confronti delle élites politiche di Baghdad verrebbe ulteriormente alimentata, se non ancora una volta sfruttata per dare vita a nuove ondate insurrezionali o riempire nuovamente le fila di organizzazioni jihadiste come IS o Al-Qāʿida, mai veramente sconfitte senza l’avvio di un sincero processo di riconciliazione nazionale.

LE MILIZIE SCIITE E IL FUTURO DEL KURDISTAN – Quel che è certo è che la riconquista della città simbolo del Califfato di Abū Bakr al-Baghdādī apre una fase di grande incertezza, per il futuro della città di Mosul e dell’intero Iraq. Le forze che fino ad oggi convergevano sul piano militare nella lotta al nemico comune, ora si ritrovano ad essere ciò che sono sempre state, fazioni rivali sul piano politico, con propri interessi e aspirazioni confliggenti. La rapida ascesa ed espansione dell’IS è stata infatti affrontata non tanto dal debole esercito iracheno, quanto dalla massa di volontari chiamati ad agire dalla fatwā del Grande Āyatollāh al-Sīstānī del 13 giugno 2014. Cittadini iracheni, principalmente sciiti, si sono riuniti nelle milizie Hashd al-Sha’abi, Kata’ib Hizbollah, Asa’ib Ahl al-Haq o nei Badr Corps, milizie sciite parti della più vasta coalizione paramilitare delle Forze di Mobilitazione Popolare. Oggi le FMP godono di un esteso sostegno popolare, contano tra i 70 e i 130 mila volontari e, seppur divise tra loro, si preparano a presentarsi nel debole panorama istituzionale iracheno non più soltanto come una solida forza militare che di fatto sfugge al controllo statale, ma anche come un fondamentale interlocutore politico in vista delle prossime elezioni nel 2018. È per questo che il governo al-ʿAbādī, per quanto costretto a riconoscerle istituzionalmente, ha cercato di limitarne il ruolo, ad esempio relegandole alle periferie di Mosul mentre l’esercito si è occupato di liberarne il centro. Nonostante le concessioni, suo obiettivo è infatti quello di rafforzare le forze armate ufficiali e renderle strumento per superare le divisioni settarie. Tale obiettivo, sostenuto dagli Stati Uniti, si scontra però con il disegno di gran parte delle milizie che, sostenute dall’Iran, mirano ad essere allo stesso tempo forza militare e soggetto politico. La lotta all’IS ha finora monopolizzato l’agenda irachena. Gestire ciò che è stato creato per combatterlo è grande sfida del futuro. Similmente, dopo aver significativamente contribuito alla guerra contro i miliziani jihadisti, anche il futuro del popolo curdo sarà  oggetto di decisione nell’Iraq “post-IS”. Il 7 giugno scorso, infatti, un comunicato del Presidente curdo Masʿūd Bārzānī  ha annunciato il 25 settembre prossimo quale data del referendum per l’indipendenza del Kurdistān iracheno. Quali che siano le scuole di pensiero, infatti, l’aspirazione all’indipendenza oggi è più forte che mai e sono in molti a pensare che la vittoria a Mosul rappresenti un’occasione per consolidare il controllo del governo regionale di Erbil su regioni e città chiave come Kirkuk e Sinjar e per ottenere il supporto della comunità internazionale per il riconoscimento dell’indipendenza.

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Fig. 2 – Cartelli delle Forze di Mobilitazione Popolare a Ba’aj, città nord-occidentale dell’Iraq.

UN PAESE DIVISO E CONTESO – La complessità dello scenario finora dipinto non si fonda però solamente sul settarismo o le rivalità inter-partitiche, tra sunniti, sciiti e curdi, ma anche sulla frammentazione interna alle singole fazioni. Sul fronte sciita, di fatto non esiste alcuna alleanza politica, quanto piuttosto divisioni tra fazioni allineate all’Iran e fazioni che preferirebbero seguire una linea più nazionalista. Al Premier al-ʿAbādī si contrappone il revanscista al-Mālikī sostenuto dall’Iran, mentre una temporanea convergenza sul tema delle riforme e della lotta alla corruzione gli ha garantito il supporto del nazionalista Muqtadā al-Ṣadr‎. Anche sul fronte sunnita non esiste un movimento politico unico e persistono le divisioni curde tra i due principali partiti, il Partito Democratico Curdo e l’Unione Patriottica del Kurdistān. A questo quadro conflittuale e frammentato, che complica la già non facile sfida della ricostruzione nazionale ed unitaria del Paese, si sovrappone il gioco delle potenze straniere. Attori regionali come Iran, Turchia e Arabia Saudita hanno cominciato a competere per la costruzione di aree d’influenza nell’arena irachena fin dal 2011 e, a tal fine, con l’ascesa dell’IS hanno finanziato ed equipaggiato ciascuno le proprie milizie. Anche in questo caso, la sfida più importante e faticosa che si presenta è la ricostruzione, fin dalle fondamenta, di un Paese veramente democratico e unito, che sappia riconoscere le sue diverse anime, ma che parli con un’unica voce. La battaglia per Mosul è stata vinta. Quella per l’Iraq?

Maria Di Martino

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

  • Seppur liberata, le immagini dei media mostrano le macerie della città e report di ONG denunciano le terribili sofferenze della popolazione. Una campagna di Amnesty International, dal titolo “A tutti i costi: la catastrofe di civili a Mosul ovest”, prendendo in esame il periodo gennaio-maggio 2017, denuncia quanto gli attacchi condotti dall’IS e dalla coalizione internazionale abbiano colpito centinaia di civili. Save the Children, invece, ha denunciato il danno psicologico subito dai bambini di Mosul sopravvissuti alla guerra.
  • Per ulteriori approfondimenti, consiglio il recentissimo report ISPI “After Mosul: Re-Inventing Iraq”, a cura di Andrea Plebani.

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Foto di copertina di Secretary of Defense Licenza: Attribution License

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Maria Di Martino
Maria Di Martino

Classe 1991, coltivo la passione per il mondo arabo fin dagli studi triennali all’Orientale di Napoli, dove lo studio della lingua, della storia e delle istituzioni musulmane mi ha insegnato ad osservare le dinamiche mediorientali con lo sguardo di un vicino consapevole della loro importanza. Laureata magistrale in Relazioni Internazionali alla Sapienza di Roma, con una tesi in diritto internazionale dell’economia e dello sviluppo, all’interesse per l’analisi geopolitica accompagno una personale sensibilità per i diritti umani, sognando un futuro di ricerca e azione per la loro difesa, poiché ancora idealisticamente convinta che parlare di Stati possa significare, prima di tutto, parlare di persone.

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