Gli eventi recenti a Gerusalemme ci ricordano come i problemi mai risolti non scompaiano solo perchĂ© non li vediamo sui media… ma peggiorino sempre piĂą
 “Quello che una volta era IL conflitto mediorientale per antonomasia, oggi è quasi dimenticato, racchiuso tra frontiere che nessuno sembra più minacciare e, di fatto, lasciato a se stesso. Ma all’interno di quei confini i problemi non sono risolti e anzi, peggiorando senza soluzioni in vista, portano a tensioni sempre più ampie. La cosiddetta “intifada dei coltelli”, i nuovi piani di esproprio di villaggi palestinesi per le colonie, gli incendi vicino ad Haifa salutati con favore da una parte della popolazione palestinese, sono tutti indicatori di tensioni ben peggiori che potrebbero esplodere nel 2017. (…) I problemi non si risolvono solo perché il pubblico li ignora, e nemmeno restano allo stesso livello: tendono invece a peggiorare. Ma non sarà una consolazione quando questo farà tornare l’attenzione di tutti su Gerusalemme e dintorni…”
Fig. 1 – I metal detector agli ingressi della Spianata delle Moschee sono rimossiÂ
Questo era quanto scrivevamo a Gennaio nell’album del Giro del Mondo 2017. Mentre molti continuavano a concentrare l’attenzione solo ad altre crisi, noi provavamo a ricordare a tutti che una crisi mai risolta era ancora accesa e, pur dimenticata, continuava a crescere, finché non sarebbe stato più possibile ignorarla.
In questi ultimi giorni il mondo si è svegliato con notizie tragiche provenienti da Gerusalemme: incidenti in cittĂ e in varie aree della Cisgiordania, morti, tensioni, un attentato all’ambasciata israeliana in Giordania… Come suggerito nella nostra newsletter, il giornalista Giorgio Bernardelli è una delle voci a nostro avviso piĂą acute per seguire la crisi, mentre questo articolo di Paola Caridi riassume in maniera eccellente quanto avvenuto e il suo contesto.
Non è necessario trovare motivazioni particolari per quanto accaduto. E’ ovvio che esistono eventi specifici che hanno scatenato l’ultima ondata (l’attentato a Gerusalemme del 14 luglio, la chiusura, in vari modi, della Spianata delle Moschee della scorsa settimana e in particolare il venerdì, giorno di preghiera per i musulmani…) ma come spesso accade essi costituiscono solo la punta dell’iceberg del problema principale. E il problema principale è che, di quel conflitto, gran parte del mondo si è profondamente disinteressato.
Fig. 2 – Fedeli musulmani pregano davanti a uno degli ingressi alla Spianata delle Moschee
Il conflitto Israelo-Palestinese non è più il conflitto mediorientale per eccellenza come era decenni fa. Le tensioni internazionali, il fenomeno del terrorismo, le grandi discussioni all’ONU e altrove non sono più incentrate su Israeliani e Palestinesi, e sul loro futuro. Sono diventati un sideshow, al peggio una vera e propria “scocciatura” che distrae l’attenzione internazionale dai temi ritenuti più rilevanti: ISIS, immigrazione, rapporti con la Russia, populismo e reazioni allo stesso, ecc…
Nelle nostre conferenze sugli eventi regionali, alla (sempre presente!) domanda del ruolo che il conflitto israelo-palestinese ha nelle vicende mediorientali, ci troviamo a dover ammettere che esso risulta sempre meno rilevante agli occhi dei vari attori. Tanto che quando scoppiò l’ultimo conflitto a Gaza nel 2014, le cancellerie, allora concentrate su un ISIS in ascesa, trattarono l’argomento in maniera di sufficienza, come a dire: “Ma che fate?? Ma proprio ora dovete combattere? Abbiamo cose più importanti da trattare!”.
Per quanto tali parole non sono mai state pronunciate, questa era l’impressione fornita. Per i Paesi Occidentali, la sicurezza di Israele non sembra più essere messa in pericolo dai Paesi del mondo Musulmano (al massimo dall’Iran, con il quale però esiste un rapporto diverso come mostrato dal Nuclear Deal). E per i Paesi Arabi, Israele non è più una minaccia, bensì un possibile alleato proprio contro Teheran. E se una volta infiammare la piazza araba contro Israele era un utile strumento di coesione interna, oggi sono l’Iran e i suoi alleati a ricoprire quel ruolo.
Fig. 3 – Proteste anti israeliane in Cisgiordania
In tutto questo, il presente e il futuro dei rapporti Israelo-Palestinesi rimangono dimenticati. Ed è qui il punto. Senza più serie pressioni internazionali (dopo il fallimento del Segretario di Stato USA Kerry qualche anno fa, per ora non si sono viste altre iniziative di peso), l’amministrazione di Benjamin “Bibi” Netanyahu non si sente obbligata a rivedere le proprie politiche al riguardo. E senza forte interesse arabo, la situazione politica palestinese rimane frammentata, spesso in conflitto con se stessa e considerata inaffidabile (a volte anche dalla sua stessa popolazione) per costruire un partner concreto di dialogo.
E’ ovvio che, per un semplice aspetto diplomatico, è Israele ad avere l’iniziativa. Il governo Netanyahu dipende da elementi che strizzano l’occhio (o sono attivamente a favore) a coloni e movimenti ultrareligiosi, generalmente contrari a qualunque compromesso. Naftali Bennett, alla guida di ben due ministeri (tra cui quello dell’economia) e leader di HaBayit HaYeudi (La Casa Ebraica) è infatti l’uomo chiave per la stabilità del governo e Bibi non sembra pronto – ammesso lo voglia – ad opporsi oltre modo alle sue posizioni estreme sul tema. Del resto l’opposizione risulta anche più divisa e, per ora, incapace di produrre alternative, indicando quindi un vuoto di contenuti e proposte in senso contrario.
Per questo non sembra esserci interesse a modificare la situazione. Per il governo israeliano negoziare significa fare concessioni difficili da sostenere politicamente e socialmente… meglio allora l’alternativa: non fare nulla e cercare di mantenere tutto come è ora, nella speranza rimanga sempre “gestibile”. Il risultato è perciò il continuo tentativo di mantenere uno status quo che, invece… non può restare tale. E’ un’illusione.
Da parte opposta infatti, l’alternativa al dialogo, cioè la continuazione della situazione attuale, di certo non è auspicabile. Essa proroga infatti la mancanza di prospettive di evoluzione positiva della situazione (per i motivi sopra esposti), che a sua volta apre la porta a una progressiva crescita della rabbia e del risentimento, facilmente sfruttabili da chi vuole soffiare sul fuoco. La situazione non solo non si risolve, ma peggiora costantemente – e come in passato, prima o poi esplode. Lo abbiamo appena visto. E forse non abbiamo ancora visto il peggio.
Fig. 4 – Uun altro momento delle proteste in Cisgiordania
Come se ne esce? Come abbiamo già scritto nel 2015 (incredibile quanto certe lezioni continuino a non essere imparate!). Oggi chi spera nella Pace sembra non riuscire più a sognare un cambiamento credibile. E così sono gli estremismi a dominare, in un ambiente dove perfino la narrazione degli eventi non è condivisa ma serve solo a rinforzare il convincimento nella propria “correttezza” e “ragione”, qualunque cosa questo voglia significare. Il rischio è che solo un ciclo di violenza più forte riporti le parti alla ragione del dialogo, come dopo le precedenti intifada. Ma ricordando bene i morti e le sofferenze che quegli eventi portarono a entrambe le parti, non è certo da augurarselo.
Senza pretesa di avere la verità in tasca, vogliamo perciò riflettere su un punto. La contrapposizione tra Israeliani e Palestinesi, e la difficoltà del dialogo, è incentrata su due slogan, che sono quasi le “bandiere” delle loro opposte posizioni.
“Non c’è Pace senza sicurezza!” affermano gli Israeliani
“Non c’è Pace senza giustizia!” affermano i Palestinesi
Se girate sui social, anche in Italia, troverete spesso queste frasi, espresse così o in maniera analoga.
Apparentemente sono entrambe frasi corrette e, teoricamente, puntano alla stessa cosa. Una vera Pace include infatti sicurezza per tutti da ogni tipo di violenza e la certezza di una giustizia che ferma soprusi che possano scatenare risentimenti. E’ una considerazione quasi banale, se non fosse che per le due parti in causa la priorità non è sulla parola “Pace”… ma sull’altra.
Per molti Israeliani la sicurezza è la priorità ad ogni costo, anche quando esso implica la negazione di diritti di altri. Ed è questo che da forza allo slogan Palestinese.
Per molti Palestinesi, la giustizia troppo spesso ha il significato di rivalsa, in varie forme. Ed è questo che da forza allo slogan Israeliano.
Se la mia priorità è la sicurezza, rischio di volerla a costo di fare del male ad altri. Perché la priorità è soddisfare la mia necessità .
Se la mia priorità è la giustizia, il rischio è che per giustizia intenda appunto rivalsa o, in casi estremi, perfino vendetta. Perché la priorità è soddisfare la mia necessità .
In definitiva, tutto questo porta a una spirale negativa: gli Israeliani finiscono per essere essi stessi causa dell’insicurezza che li attanaglia, perché non si accorgono di quanto essa sia causata dalle loro stesse azioni (davvero qualcuno credeva che chiudere la Spianata delle Moschee di venerdì avrebbe portato a meno rischi?). E i Palestinesi ad essere essi stessi vulnerabili a vedere il proprio desiderio di rivalsa sfruttato da chi vuole soffiare sul fuoco – portando a ulteriore desiderio di sicurezza dall’altra parte.
Non siamo ingenui. Da entrambe le parti c’è chi usa questi slogan come scuse. Ma è chi li considera veri che comunque non si oppone con sufficiente energia.
La chiave è dunque spostare la prioritĂ di entrambi gli slogan sulla parola “Pace”. Se si cercano davvero soluzioni per la Pace, verranno automaticamente soluzioni che puntano anche a garantire sicurezza e giustizia. Insieme, e non separate. E per quanto l’iniziativa del governo di Tel Aviv sia fondamentale, deve essere la popolazione Israeliana a spingere in tal senso. La palla è nel loro campo ora. Questo aiuterĂ anche i Palestinesi a fare altrettanto. Insieme. E insieme sarĂ il loro percorso, che non potrĂ prescindere da quanto espresso in una celebre frase di San Giovanni Paolo II, che racchiude la vera chiave per una reale svolta e che indica quale dovrebbe essere il senso vero (e per ora disatteso) dei due slogan: “Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono“.
Tutto questo ci porta alla seconda considerazione classificabile come “non siamo ingenui”. C’è una forte responsabilità internazionale, dovuta proprio al disinteresse descritto all’inizio. La costruzione del dialogo dopo tutti questi anni e tutte queste tragedie è un processo difficile e lungo e non è realistico che possa avvenire spontaneamente. Anzi, è improbabile, se non dopo un bagno di sangue che nessuno desidera. Per questo motivo è fondamentale fin da ora il supporto (e, a volte, la spinta, anche “energica”) della comunità internazionale. Non possiamo più permetterci di ignorare questa situazione salvo poi svegliarci al prossimo scoppio. I conflitti, lasciati a loro stessi, non restano uguali: peggiorano. Lo abbiamo appena visto.
Lorenzo Nannetti
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą
Che ruolo abbiamo noi cittadini in comune in tutto questo?
E’ bene rendersi conto che slogan come quelli sopra riportati in realtà li usiamo anche noi che viviamo fuori dal Medio Oriente. A volte perfino in maniera più accesa e arrabbiata. Lo vediamo sui social e nei dibattiti pubblici sul tema. Se vogliamo davvero aiutare quelle popolazioni a costruire un futuro diverso, forse noi per primi dovremmo cercare di smetterla di soffiare sul fuoco. Noi per primi dovremmo smetterla di considerare priorità la “sicurezza” o la “giustizia”, perché per come le intendiamo spesso non puntano alla Pace. E, di fatto, risultiamo corresponsabili delle tensioni là esistenti. Se noi che siamo qui, al sicuro, non siamo capaci di dialogo, perché dovrebbero esserlo loro? Anche per noi è quindi fondamentale cambiare prospettiva. Perché non c’è né sicurezza né giustizia senza la Pace.
Per approfondire, vi ricordiamo i nostri articoli sull’argomento:
Israele e Palestina: al di lĂ del tifo
Israele e Palestina: l’estremismo come stile di vita
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