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L’ombra di Pechino su Hong Kong: la democrazia è sempre più lontana?

Hong Kong ha da poco celebrato il ventesimo anniversario del ritorno alla Cina, ma i rapporti della città con Pechino sono sempre più tesi. Inoltre fratture generazionali e conflitti politici stanno mettendo a rischio il futuro della democrazia nell’ex colonia britannica

LA PRIMA VISITA DI XI A HONG KONG – Lo scorso primo luglio Hong Kong ha celebrato il primo ventennio del ritorno della Regione amministrativa speciale (RAS) sotto la sovranità cinese. A colpire non è stato solamente il giuramento di insediamento del nuovo Capo dell’esecutivo Carrie Lam, rigorosamente in cinese mandarino e non cantonese, ma anche il discorso di Xi Jinping che ha bollato come incomprensibili le richieste di maggiore libertà avanzate da alcuni attivisti. Secondo Xi, infatti, la Regione gode oggi di privilegi del tutto inimmaginabili in passato e sarebbe invece necessario garantire una più forte presenza dell’autorità di Pechino. La prima visita del leader cinese si è poi conclusa più rapidamente del previsto a causa del montare delle proteste per il trattamento riservato agli esponenti pro-democratici. Più di nove sono stati gli attivisti arrestati o trattenuti dalla polizia, con l’accusa di essere gli organizzatori di un più ampio movimento indipendentista, le cui origini vanno ricercate nel Movimento degli Ombrelli. L’esacerbarsi della conflittualità, a ben vedere, deve ricercarsi nel complesso rapporto tra la Cina ed Hong Kong, in particolare nel corso dell’ultimo mandato di Leung Chun-ying, a capo dell’esecutivo uscente. A seguito delle recenti elezioni del mini-parlamento della Regione, i due esponenti di Youngspiration, il movimento a favore dell’indipendenza di Hong Kong, si sarebbero rifiutati di pronunciare il corretto giuramento di fedeltà verso Pechino, secondo le prescrizioni costituzionali. Leung, forte sostenitore del Governo centrale, in chiara rotta di collisione con le indicazioni della mini-costituzione di Hong Kong, avrebbe chiesto che i due giovani venissero giudicati non dalla corte locale, ma da quella centrale. Il risultato, come prevedibile, è stata la rimozione dall’incarico di deputati dei due attivisti.

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Fig. 1 – Carrie Lam, nuovo Capo dell’esecutivo di Hong Kong, con il Presidente cinese Xi Jinping, 1 luglio 2017

LE RIPERCUSSIONI SU TAIWAN – Così il 2017, salutato dalla maggior parte dell’opinione pubblica come un passo decisivo verso il suffragio universale e l’indipendenza dell’ex colonia britannica, si è trasformato in uno dei momenti più bui della storia di Hong Kong, con forti ripercussioni anche su Taiwan. Non vi è dubbio alcuno che il modello One Country Two Systems sia stato disegnato nell’intento di corteggiare la Repubblica di Cina. L’obiettivo era quello di dimostrare il funzionamento del modello di cooperazione tra il Governo di Pechino e le regioni storicamente abituate ad una diversa concezione della politica, della società e dell’economia. A fallire, dunque, è anche il tentativo di Pechino di attirare a sé Taiwan, ora più che mai propensa a mantenere lo status quo, perché timorosa di un assorbimento irreversibile.

UNA NUOVA GENERAZIONE PER LA DEMOCRAZIA – La storia delle relazioni Pechino-Hong Kong può facilmente essere riassunta secondo un movimento oscillatorio. Dal 1997 si è rapidamente diffusa la convinzione tra gli esponenti pan-democratici che, facendo mostra del buon modello economico e societario della città, la Cina avrebbe accettato le direttrici più liberali che Hong Kong si preparava a percorrere. Gli esponenti di tale visione, tuttavia, in meno di un decennio hanno iniziato a perdere mordente. Quando nel 2009 le autorità di Hong Kong accettarono il progetto di collegare la città alla rete di treni ad alta velocità del Paese, le proteste pan-democratiche furono condotte con ben poca convinzione. L’incapacità dei partiti a favore della democrazia di esprimersi con forza autorizzò il Governo centrale ad introdurre anche ad Hong Kong una riforma dei libri di testo scolastici, particolarmente inneggianti al ruolo del Partito comunista nella vita quotidiana del cittadino. La rivolta capitanata dal giovane studente Joshua Wong nel 2012 ebbe questa volta la meglio: Pechino fu costretta a ritirare l’applicazione della norma a Hong Kong. Tuttavia, una faglia generazionale si apriva nella vita politica locale, tra la vecchia guardia ultraquarantenne, convinta che Hong Kong fosse di fatto oramai una colonia cinese, e i giovani ventenni, nostalgici dei valori liberali dell’ultimo periodo britannico. Una nuova corrente, nota come Localismo, si diffuse trasversalmente nel mondo accademico, portando in strada, nel settembre del 2014, una serie di proteste che hanno bloccato la città per quasi ottanta giorni. A fomentare ulteriormente il dissenso, l’incapacità del partito pan-democratico di realizzare una riforma elettorale in senso più inclusivo e universalistico. Dall’altro canto, tuttavia, nemmeno il Movimento degli Ombrelli fu capace di raggiungere i risultati sperati, favorendo così la rapida disillusione dei manifestanti capitanati da Wong. Nel 2016 un approccio meno pacifista fu tentato dagli esponenti più radicali del movimento democratico. E la risposta di Pechino fu particolarmente dura, con l’arresto di quanti fecero mostra di atteggiamenti violenti.

Giungendo ai nostri giorni, ai leader del movimento di protesta del 2014 – Alex Chow (27 anni), Joshua Wong (21 anni) e Nathan Law (24 anni) – sono stati comminati nell’agosto scorso tra i sei e gli otto mesi di galera per incitamento alla ribellione. Secondo gli esponenti più vicini a Pechino, l’atto sarebbe più che dovuto, come esempio per quanti possano anche solo pensare di condurre Hong Kong verso una via indipendentista. I tre giovani, tuttavia, hanno fatto sapere che il loro arresto sarebbe giunto con il chiaro intento di limitarne le libertà politiche.

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Fig. 2 – Joshua Wong, leader del Movimento degli Ombrelli, parla ai giornalisti dopo la sua espulsione dalla Thailandia nell’ottobre 2016

IL PROSSIMO APPUNTAMENTO ELETTORALE – In effetti, al fine di coprire il posto lasciato vacante da Law da agosto, l’11 marzo 2018 si terrà una nuova elezione. L’appuntamento elettorale del prossimo marzo sarà un importante banco di prova per i partiti indipendentisti: solo unendosi tra loro, le varie istanze indipendentiste potranno assicurarsi la riconquista del seggio sottratto. La notizia della sentenza punitiva per i tre giovanissimi ha favorito la convergenza di vedute tanto agognata, sin dal 20 agosto, quando si sono riuniti migliaia di attivisti per le strade di Hong Kong, vestendo le uniformi carcerarie. Altri tredici giovani sarebbero stati fermati dalla polizia perché inneggianti alla libertà di quanti sono stati definiti “prigionieri politici in lotta contro il totalitarismo”. Secondo gran parte dell’opinione pubblica, in effetti, la mossa di Pechino di rendere incandidabili i tre giovani, avrebbe invece accresciuto la loro fama e reso più coeso il campo pan-democratico. Dall’altro canto, il Governo centrale si sarebbe assicurato un più diretto e penetrante controllo sulla città, per il tramite del nuovo responsabile degli affari di Hong Kong a Pechino, Zhang Xiaoming, recentemente scelto e fautore di una linea di condotta più conservatrice verso l’ex colonia britannica. Benchè il Capo dell’esecutivo Lam abbia sottolineato come nulla cambierà in termini di relazioni tra Pechino e Hong Kong, un certo mondo politico ed accademico ha mostrato grande dispiacere per la sostituzione del precedente responsabile Wang, considerato uno degli esponenti più liberali della politica di Pechino.

Ad oggi appare chiaro che il destino politico di Hong Kong è ancora tutto da scrivere. Un peso notevole sarà quello giocato dai nuovi assetti che il XIX Congresso del Partito Comunista cinese disegnerà. La selezione, in posti chiave, dei più stretti collaboratori di Xi Jinping potrebbe non essere una buona notizia per Hong Kong, che ricomincerà a manifestare un profondo malcontento. Pechino, tuttavia, ha ancora una grande chance: approfittare dei disordini sociali per imporre, magari con l’ausilio delle Forze armate, un ordine che al momento stenta a decollare.

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Fig. 3 – Leung Chun-ying (al centro), ex Capo dell’esecutivo di Hong Kong, insieme ad alcuni rappresentati del Partito Comunista cinese nel 2014

Giovanni Ardito

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Negli ultimi mesi anche Macao ha vissuto proteste simili a quelle di Hong Kong. Tuttavia, la risonanza di tali avvenimenti è stata decisamente minore. Vi sono diverse ragioni alla base di tale discrepanza, principalmente di carattere economico e sociale. Certamente la condizione di maggiore povertà in cui Macao versava al momento del reintegro sotto la sovranità cinese ha contribuito ad accrescere l’accettazione del dominio cinese e a reprimere istanze eccessivamente eversive. Oggi, in effetti, Macao vive una condizione di maggiore stabilità rispetto ai tempi del dominio portoghese, soprattutto sotto il profilo economico.[/box]

Foto di copertina di Abode of Chaos Licenza: Attribution License

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Giovanni Ardito
Giovanni Ardito

Nato a Napoli nel 1995 e attualmente studente di International Affairs presso l’Università di Bologna, sono appassionato di Cina e dell’uso dei droni nei conflitti armati.

Trasferitomi a Roma dopo la maturità classica, mi sono laureato con lode in Scienze politiche e Relazioni internazionali all’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sul modello One Country Two Systems ad Hong Kong. Contemporaneamente, assecondando i miei interessi all’ interdisciplinarietà, ho studiato presso la Scuola Superiore di Studi Avanzati della Sapienza, dove ho avuto la possibilità di scrivere di Siria, salvaguardia del patrimonio culturale internazionale e basi militari. Non propriamente amante dell’attività sportiva, nel tempo libero mi piace leggere e ascoltare musica… nel tempo libero, appunto.

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