Il vertice UE-UA di Abidjan è l’occasione per esaminare i rapporti Europa-Africa. Le opportunità economiche sono buone, ma il fulcro dei rapporti tra i due continenti per ora è rappresentato da immigrazione e terrorismo. L’evoluzione dell’Italia e il peso della storia
IL VERTICE
Mercoledì 29 e giovedì 30 novembre si è tenuto ad Abidjan (Costa d’Avorio) il quinto vertice tra l’Unione Europea e l’Unione Africana. L’UE comprende 27 Stati membri (il Regno Unito ha attivato la procedura per uscire dall’Unione), mentre fanno parte dell’UA tutti i 55 Stati africani. Il vertice tra Unione Europea e Unione Africana potrebbe forse aiutare a spianare la strada a un cambiamento del punto di vista europeo. In Europa è infatti aumentata la consapevolezza che l’Africa è un continente denso di sfide, nel senso di pericoli e opportunità .
Fig.1 – Un momento del summit UA-UE
IL COLONIALISMO
L’Europa moderna iniziò a interessarsi fortemente all’Africa nel corso del XIX secolo. In quei decenni il vecchio continente venne infatti investito da una vera e propria febbre coloniale. La Gran Bretagna e la Francia furono certamente in prima fila, ma è assolutamente degno di nota il fatto che, nel contesto della “zuffa per l’Africa” (scramble for Africa), anche i Paesi europei di secondo piano abbiano voluto avere la propria parte: Italia, Portogallo, Belgio. Non è un caso che la Germania guglielmina abbia puntato (anche) sulle ambizioni coloniali africane nella sua rincorsa al primato europeo. Il controllo esercitato dagli Stati del vecchio continente, oltre a una certa modernizzazione, portò con sé oppressione, umiliazioni e un governo coloniale che spesso puntava a dividere gli africani per meglio gestirli. Il risultato è che ancora oggi le scorie del colonialismo contribuiscono ad avvelenare ancora oggi i rapporti tra Europa e Africa.
LA DECOLONIZZAZIONE E IL NEOCOLONIALISMO
Le guerre mondiali aprirono la strada al crollo degli imperi coloniali europei e alla decolonizzazione. Entro gli anni ’60 la maggior parte degli Stati africani ottenne l’indipendenza. I Paesi africani, tuttavia, rimasero spesso dipendenti dalle ex potenze coloniali dal punto di vista economico e politico. Emblematico è il caso della Francia, che da decenni esercita una sorta di protettorato informale sulle ex colonie subsahariane, non esitando ad usare la forza per mantenere equilibri politici a lei favorevoli nella Françafrique. La CEE (Comunità Economica Europea) ha cercato di aprire la strada a un nuovo genere di rapporti tra Europa e Africa, ma ha dovuto fare i conti con la mancanza di interlocutori affidabili nel continente nero e con la diffidenza delle ex potenze coloniali verso qualsiasi tentativo di impostare una politica africana genuinamente europea e sovranazionale.
L’IMMIGRAZIONE
Risulta inutile negarlo: gran parte dell’attenzione dell’Europa all’Africa è oggi motivata dai fenomeni migratori che originano (e origineranno) dal continente nero. Le previsioni di crescita della popolazione africana provocano timori nelle classi dirigenti e nelle opinioni pubbliche europee circa la capacitĂ di assorbire una crescente immigrazione. La crisi dei rifugiati del 2015 poi, sebbene scaturita principalmente dalla rotta balcanica, ha definitivamente sdoganato l’immigrazione come una delle questioni cruciali per il futuro dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Non è di poco conto, ad esempio, che numerosi analisti attribuiscano soprattutto al dossier migratorio e identitario il brusco arretramento elettorale della cancelliera tedesca Angela Merkel. E non è un caso che proprio la Germania abbia conosciuto una significativa evoluzione, passando da una generale indifferenza verso il continente nero (lasciato tradizionalmente alle mire politico-economiche francesi) alla recente e interessata assertivitĂ . Per gli elettori europei il dossier immigrazione (strettamente connesso alla questione identitaria) sta quindi diventando uno dei fattori principali nella scelta al momento del voto e la classe politica del vecchio continente ne sta prendendo atto. Se l’UE metterĂ mai in campo una sorta di “Piano Marshall per l’Africa” (vedi il chicco in piĂą), è probabile che in questa iniziativa la paura dell’immigrazione giocherĂ un ruolo simile a quello rivestito nel modello originale dal timore dell’espansione del comunismo sovietico.
IL TERRORISMO
Un altro dei fattori che influenza pesantemente la visione europea del continente nero è la lotta al terrorismo. Anche qui la Francia, soprattutto in virtù dell’influenza derivante dal suo passato coloniale, è in prima fila. Parigi, ad esempio, è impegnata direttamente dal gennaio del 2013 per contrastare il terrorismo islamista in Mali. La Francia ha indubbiamente aumentato la propria attenzione sul tema in seguito agli attentati che l’hanno colpita nel novembre 2015, anche se la priorità assegnata al teatro siro-iracheno ha spinto l’allora Presidente della Repubblica François Hollande a richiedere l’aiuto degli alleati europei, in primis la Germania, per sgravare Parigi da una parte degli oneri militari derivanti dall’impegno anti-terrorismo nel Sahel. Più limitato è invece il ruolo diretto degli altri Paesi europei, che tradizionalmente hanno spesso appaltato alla Francia i compiti militari.
IL DOSSIER ECONOMICO
Sebbene immigrazione e terrorismo siano i principali prismi attraverso cui l’Europa guarda all’Africa, le prospettive economiche e commerciali sono divenute sempre più allettanti agli occhi dei Governi e delle imprese del vecchio continente. In questo campo gli europei scontano un ritardo rispetto alla Cina, che si è mossa prima e meglio di tutti. Inoltre, Pechino gode di un altro significativo vantaggio. Infatti, mentre i Paesi dell’UE (e quelli occidentali in generale) sono almeno in teoria attenti agli sviluppi politici dei Paesi africani, i cinesi, in virtù della loro indifferenza al regime politico dei Paesi con i quali fanno affari, sono spesso apprezzati dai leader del continente nero meno rispettosi della democrazia e dei diritti umani. Gli europei invece spesso si trovano penalizzati dalla propria ambiguità : da una parte sono ingolositi dagli affari, ma dall’altra spesso si sentono costretti a premere su Governi autoritari.
IL CASO ITALIANO
L’Italia è forse il Paese europeo che è stato (insieme alla Germania) protagonista del cambiamento più vistoso nella propria politica africana. Tradizionalmente Roma tendeva a interessarsi al continente nero solo in relazione al teatro mediterraneo, mentre vi era una certa timidezza nell’avventurarsi nell’Africa subsahariana (anche per timore di indispettire Parigi). Il fatto che l’Italia avesse perso bruscamente le proprie colonie come conseguenza della sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale ha impedito poi che seguissimo le orme di altri Paesi europei nello stabilire relazioni speciali e particolarmente strette con i nostri ex domini. L’approccio italiano ha iniziato a modificarsi con l’esplosione dei flussi migratori lungo la rotta libica a partire dal 2013. Nel Paese ha cominciato infatti a diffondersi la consapevolezza dell’insostenibilità dell’attuale (non) politica verso l’Africa. Nel 2014, ad esempio, l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha visitato Angola, Mozambico e Congo-Brazzaville, nel 2015 Kenya ed Etiopia e nel 2016 Nigeria, Ghana e Senegal. Nel 2017 invece il suo successore Paolo Gentiloni ha visitato Tunisia, Angola, Ghana e Costa d’Avorio. A prima vista sembrerebbe routine, ma bisogna pensare che, prima del tour africano di Renzi del 2014, era praticamente da 70 anni che un Presidente del Consiglio italiano non scendeva sotto il Sahara (l’unica eccezione era rappresentata da una visita lampo di Romano Prodi in occasione del vertice dell’Unione Africana del 2007).
Davide Lorenzini
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in piĂą
Il Piano Marshall (ufficialmente European Recovery Program) fu un’iniziativa dell’Amministrazione Truman, che, per contrastare la potenziale espansione del comunismo in Europa occidentale e stabilizzare quell’area geografica, decise di coordinare un sistema per fornire aiuti (economici e non) a numerosi Paesi europei fino al 1951. Il nome del piano deriva dall’allora Segretario USA George Marshall, che lo annunciò al mondo in un discorso tenuto ad Harvard il 5 giugno 1947. [/box]
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