Mentre il Governo Netanyahu ha implementato il blocco temporaneo alle costruzioni negli insediamenti in Cisgiordania, gli oppositori manifestano la preoccupazione che Israele si ritrovi presto a dover gestire una seconda Gaza
UNO STOP DAL POPOLO – Negli ultimi mesi ha fatto notizia tanto in Israele quanto all’estero l’incremento di popolarità registrato a favore del premier Binyamin Netanyahu e del suo Governo dopo che, a seguito della vittoria alle elezioni meno di un anno fa, il destino del nuovo esecutivo appariva quanto mai incerto e fragile. Tuttavia, quando recentemente si è deciso di implementare il piano di contenimento delle costruzioni negli insediamenti israeliani in Cisgiordania, tale slancio di popolarità ha subìto un’improvvisa battuta d’arresto a causa della decisa opposizione espressa da diversi segmenti della popolazione israeliana al piano: il nucleo dei critici di tale decisione sono ovviamente gli stessi abitanti degli insediamenti, ma la loro protesta sta attirando l’attenzione e soprattutto la solidarietà da parte anche di chi non è toccato in prima persona dal blocco. Ecco il perché.
UNA SECONDA GAZA? – Le motivazioni di tanta opposizione ad una decisione che potrebbe riportare israeliani e palestinesi ad un tavolo di pace, sono radicate nella paura che tale blocco delle costruzioni sia soltanto il preludio a qualcosa di peggiore, come un possibile ritiro dall’intera Cisgiordania. Nella memoria a breve termine degli israeliani è infatti ancora fresco il ricordo negativo del disimpegno unilaterale dagli insediamenti di Gaza avvenuto nel 2005: famiglie intere sradicate dalle proprie vite, obbligate a lasciarsi per sempre alle spalle la terra dove in molti erano nati, per ritrovarsi all'improvviso a dover ricominciare tutto da zero. Anche all’epoca si diceva che tutta questa sofferenza era giustificata da un motivo nobile, ovvero la speranza di compiere passi significativi verso una pace duratura: ma dopo il rapimento di Gilad Shalit nel 2006, la presa di potere di Hamas nel corso del 2007, la pioggia di missili Quassam sui territori adiacenti alla Striscia di Gaza fino al gennaio 2009 ed arrestata solo con l’offensiva militare Piombo Fuso, l’opinione pubblica israeliana è quanto mai disillusa e non crede più che concessioni unilaterali siano la soluzione per raggiungere un accordo definitivo con i palestinesi.
NON C’E’ DUE SENZA TRE? – È per questo motivo che, per quanto le manifestazioni di opposizione al blocco degli insediamenti in Cisgiordania (nella foto) siano state finora per lo più pacifiche, il Governo israeliano non ha cambiato rotta e ha continuato con decisione ad implementare il proprio piano. Se la pressione internazionale, proveniente soprattutto dall’Amministrazione Obama, ha posto il blocco delle costruzioni come condizione necessaria al fine di riavviare le trattative di pace, evidentemente il premier Netanyahu ha valutato che, nonostante le proteste interne, questo è un rischio che vale la pena correre. Ma deve fare molta attenzione, lo avvertono i cittadini degli insediamenti, perché la Cisgiordania non è Gaza, e lo sradicamento di circa 8000 persone nel 2005 da Gaza non è neanche lontanamente paragonabile alla possibilità di sradicare i quasi 300000 residenti nella Cisgiordania del 2010. È per questo che, se si dovesse tornare ad un tavolo di pace con i palestinesi, l’opinione pubblica israeliana è decisamente coesa nella propensione a trattare su un possibile scambio di territori piuttosto che su ritiri unilaterali. L’idea, tra l’altro alla base del piano di pace proposto dall’ex-premier Ehud Olmert, è che le zone e le città dove ormai la presenza israeliana è maggioritaria e radicata resteranno ad Israele; in compenso lo Stato Ebraico si priverà di alcuni dei suoi attuali territori, al fine di annetterli ad un futuro Stato palestinese. Ma, nonostante questo, la paura di un ritiro unilaterale resta ancora forte per un motivo forse paradossale: le altre due volte in cui Israele si ritirò da territori precedentemente conquistati (dal Sinai nel 1982 e da Gaza nel 2005), ciò avvenne per mano di Governi guidati dal Likud, il partito di centro-destra le cui posizioni sono solitamente considerate meno flessibili e meno propense a fare concessioni, e lo stesso Likud è proprio il partito maggiore nell’attuale Governo Netanyahu. Che il blocco sia quindi soltanto il primo passo per uno smantellamento definitivo? Per ora tutti lo negano, e l’ipotesi appare ancora assai remota: ma di certo gli abitanti degli insediamenti, appoggiati da buona parte della popolazione israeliana, sperano che almeno questa volta la regola del ‘non c’è due senza tre’ non si realizzi.
David Braha [email protected]