Un Caffè americano con Francesco Costa

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Abbiamo avuto l’oppurtunità di intervistare Francesco Costa, Vicedirettore de Il Post e autore della newsletter “Da Costa a Costa”, su alcune questioni riguardanti Trump (ovviamente) e la politica statunitense

Andiamo subito al sodo: Donald Trump internazionale. Il Presidente sembra essere “bifronte”, ossia in alcuni vertici, come il G7 di Taormina o il Forum di Davos ad esempio, si comporta in maniera “presidenziale”, mentre su dossier caldi come la Corea del Nord e l’Iran si lascia andare a commenti che potrebbero compromettere la situazione. Lei cosa ne pensa?

Bisogna, secondo me, avere presente una cosa quando si cerca di capire Trump e le sue azioni: ha un’ossessione, per lui una priorità totale, che è la percezione di sé che dà all’esterno e agli altri. Per questo, quando lui frequenta consessi molto importanti, come il Forum di Davos, o è a confronto con altri Primi Ministri e Presidenti di altri Paesi si comporta in modo piuttosto normale. Ha un desiderio di accettazione da parte di questo mondo che ha sempre visto come molto lontano da sé. È un desiderio di accettazione molto simile a quello che aveva prima di fare politica nei confronti delle elite americane e newyorkesi. Questo spiega anche la furia di tweet su certe altre storie. Lui twitta in quel modo perché non vuole passare davanti all’opinione pubblica americana come il debole nella lotta con la Corea del Nord. Quindi vuole sempre ribadire che anche lui è pronto a fare cose violente se fosse necessario. Non vuole che nemmeno per un secondo qualcuno possa pensare che Kim Jong-un domini questa situazione dal punto di vista mediatico. Poi, c’è la politica estera che è un’altra cosa. Si fa con gesti e atti che spesso nemmeno finiscono sui giornali con il dovuto spazio e che riguardano rapporti diplomatici con i Paesi e qualcosa di nuovo si è visto con Trump che non è particolarmente inedito, ma secondo me è interessante. Per esempio nei rapporti con la Cina o nel Medio Oriente dove gli Stati Uniti si sono riallineati alla loro vecchia alleanza con i sauditi abbandonando l’Iran che invece era stata una delle priorità dell’amministrazione Obama.

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Fig. 1 – Il Presidente Trump, si sa, è molto dedito a Twitter

Andiamo più all’interno della politica statunitense. Il caso scottante è quello “Porter-Kelly”, ovvero le dimissioni dello Staff Secretary Porter e il problema che ora anche il Chief of Staff John Kelly è sulla graticola. Quali sono le prospettive?

È possibile che questo caso vada avanti anche perché è possibile che finisca per riguardare anche altre persone dell’organico della Casa Bianca. Kelly è accusato di aver soprasseduto davanti a queste accuse piuttosto gravi nei confronti di Porter benché ne fosse stato messo a conoscenza da parte dell’FBI. Ma al di là di questo singolo caso, che potrebbe anche risolversi con il semplice passare dei giorni e Kelly restare al suo posto: Kelly è molto forte all’interno della Casa Bianca, quindi non è uno che traballa. Il punto è che queste cose possono capitare ancora e probabilmente capiteranno ancora perché riflettono la difficoltà di questa amministrazione di trovare del personale molto qualificato. Chi ha delle competenze, chi ha dei talenti dentro il Partito repubblicano, e anche fuori, fa fatica a collaborare con questa Casa Bianca perché è impossibile lavorare con Trump e i suoi collaboratori. Chiunque l’abbia frequentato un po’ dice che è praticamente un circo o quasi. Molti temono di macchiarsi e quindi rimane sul mercato o chi ha altri interessi come ex lobbisti, ex banchieri (il Governo Trump è pieno di figure di questo tipo) o chi non ha grandissime qualità e in altre epoche non sarebbe arrivato alla Casa Bianca. Uno come Porter, in qualsiasi altra amministrazione, democratica o repubblicana, con quei precedenti di violenza domestica non sarebbe mai entrato nello staff.

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Fig. 2 – Il Chief of Staff John Kelly (a sinistra) e l’ex Staff Secretary Rob Porter (al centro)

Quest’anno è l’anno delle elezioni di midterm. Al di là della sfida democratici vs repubblicani soprattutto per quanto riguarda il controllo della Camera, si potrebbe creare uno scontro interno nel GOP tra repubblicani “classici” e “bannonisti” (seguaci della linea politica dell’ex Chief Strategist Steve Bannon) come è stato ad esempio quello in Alabama?

Sì, ci sarà di sicuro. Ci sarà nella fase delle primarie che precedono le elezioni di metà mandato vere e proprie. I repubblicani dovranno scegliere dei loro candidati e dove c’è un repubblicano uscente, per esempio un collegio alla camera in cui il deputato in carica è un repubblicano, il parlamentare uscente di solito ha una certa forza ed è raro che perda alle primarie. Tuttavia, molti deputati, prevedendo o temendo che alle midterm i repubblicani perdano anche in collegi considerati una volta sicuri, stanno annunciando l’intenzione di non ricandidarsi. Se si va a vedere, molti Presidenti di commissione alla Camera, quindi repubblicani piuttosto alti in grado e in anzianità, hanno deciso di non ricandidarsi quindi quei seggi sono aperti. In quel caso sì ci sarà davvero uno scontro duro. L’abbiamo già visto un po’ in Alabama di ciò che succederà nel corso del 2018. L’incertezza è non solo su chi vincerà questo scontro, ma se dopo le primarie, quando ci sarà comunque un candidato del partito, quel candidato sarà in grado di abbracciare e di tenere con sé entrambe le anime, che sia un moderato in grado di tenersi i “bannonisti” oppure che sia uno più estremista, ma che sia in grado anche di parlare con l’establishment del partito. Questo cambierà molto di collegio in collegio, ma sarà tutto da vedere.

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Fig. 3 – L’ex Chief Strategist della Casa Bianca e direttore del sito Breitbart, Steve Bannon

Dopo la riforma fiscale e l’accordo per uscire dal secondo shutdown del 2018 è possibile parlare di fine, o quantomeno interruzione, del Partito repubblicano “rigorista”, per usare una terminologia in voga in Italia, in sostanza il partito dello Speaker della Camera Paul Ryan?

È possibile. O meglio, non so se sia la fine perché magari tornerà, ma è la conferma che qualcosa è cambiato nel DNA di questo partito. Probabilmente, questa fine è cominciata con la nomina stessa di Trump perché è un personaggio che al di là delle dichiarazioni, non ha mai avuto grandi attenzioni per il controllo della spesa pubblica, anzi a volte con le dichiarazioni lui ha ribadito di non avere intenzione di tagliare nessun programma sociale che invece era una delle proposte di cui è stato portavoce per anni proprio Paul Ryan presentando ogni anno proposte di budget che tagliavano moltissimo la social security, la previdenza sociale e la sanità. Il Partito repubblicano si è spostato a destra perdendo forse parte dei suoi elettori storici più centristi e anche più preoccupati dalla stabilità dei conti e dalle dimensioni del debito, trovando però un nuovo elettorato, o almeno una parte, nella destra più estrema che è un elettorato che forse qui in Europa definiremmo di destra sociale, ma che comunque è un elettorato che per quanto voglia vedere tasse più basse, non vuole vedere tagli ai servizi pubblici, ai programmi sanitari e vuole anzi vedere un massiccio ruolo dello Stato nell’economia perché pensa che quest’ultima altrimenti finisca in mano a Wall Street, ai ricchi, alle elite e all’establishment. Un tempo il Partito repubblicano era il partito dell’establishment più di tutti gli altri. Oggi, almeno la base, pensa che l’establishment vada combattuto a prescindere, anche in quelle sue parti che prima erano in qualche modo organiche ai conservatori americani.

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Fig. 4 – Lo Speaker della Camera Paul Ryan 

Non possiamo non parlare del Russiagate. Si parla da tempo della richiesta del Procuratore speciale Mueller di sentire Trump in persona, con gli avvocati del Presidente che sono con i capelli dritti al solo pensiero. Qual è la sua opinione?

Sarebbe bello ascoltare le conversazioni tra Trump e i suoi avvocati perché lui, che è un uomo molto sicuro di sé (e a giudicare che è anche il Presidente degli Stati Uniti ne ha anche qualche buona ragione), vorrebbe affrontare Mueller di persona. Vorrebbe non sottrarsi a questa conversazione e pensa che affrontando il Procuratore di persona possa in qualche modo indebolire il suo caso e comunque segnare una vittoria mediatica: non essere quello che scappa. I suoi avvocati, come diceva lei giustamente, sono terrorizzati da questa possibilità anche perché Trump è uno che si contraddice, è uno che mente in continuazione e una testimonianza sotto giuramento al Procuratore potrebbe metterlo nei guai in mille modi diversi. Io credo che alla fine avranno la meglio gli avvocati e che quell’interrogatorio se e quando dovesse avvenire sarebbe l’extrema ratio in qualche modo per Trump e finché non sarà proprio necessario i suoi avvocati lo convinceranno a evitarlo.

Fig. 5 – Il Vicedirettore de Il Post, Francesco Costa

Il Caffè Geopolitico ringrazia Francesco Costa per la sua disponibilità e cortesia nell’averci rilasciato quest’intervista

Emiliano Battisti

[box type=”shadow” align=”” class=”” width=””]Un chicco in più

Francesco Costa è Vicedirettore de Il Post e autore della fortunata newsletter/podcast “Da Costa a Costa” sulla politica statunitense. Laureato in Scienze Politiche, precedentemente ha collaborato con Internazionale e l’Unita, oltre ad aver scritto per Il Foglio, Donna Moderna, l’Ultimo Uomo, Grazia, Studio, Undici, Liberal e Giornalettismo

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Foto di copertina di Jeff Kubina Licenza: Attribution-ShareAlike License