Dopo la riforma costituzionale dell’11 marzo, con cui è stato rimosso ogni limite temporale al mandato presidenziale, Xi Jinping si prepara a guidare la Cina oltre il 2023. Le sfide sono ancora tante e incerte: Xi blinderà il Partito per rafforzare la sua idea di socialismo?
LA RIFORMA COSTITUZIONALE
Lo scorso 25 febbraio, a distanza di circa quattro mesi dal diciannovesimo Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese, il Comitato centrale del Partito ha ufficialmente proposto una modifica della Costituzione, nella parte relativa al mandato del Presidente della Repubblica. Ai sensi dell’articolo 79 del testo costituzionale del 1982, infatti, non era possibile per la massima carica dello Stato restare al potere per più di due mandati consecutivi. La ragione di tale scelta, che ebbe luogo sotto la guida di Deng Xiaoping, era l’evitare esperienze accentratrici sul modello di Mao, che ebbero preoccupanti conseguenze dopo la scomparsa del Grande Timoniere. All’indomani del 1976, infatti, in assenza di un erede forte, a contendersi il potere furono la nota Banda dei Quattro, comprendente la vedova di Mao, Hua Guofeng, particolarmente in linea con le direttive sovietiche e erede ideologico del defunto leader, e lo stesso Deng, promotore di una prima apertura economica del Paese. La Cina visse, fino al 1981, un periodo di forte disorientamento che si concretizzò nella breve leadership di Hua, che cedette poi il passo alla più longeva presidenza di Deng Xiaoping. Il Comitato ha, invece, richiesto l’abolizione di questo comma, così da garantire all’attuale Presidente Xi Jinping una prossima rielezione. La volontà di modificare il testo, benchè tardiva rispetto all’apertura della fase congressuale del Partito Comunista, non è stata del tutto inattesa: Xi è infatti riuscito a circondarsi di suoi fedelissimi nelle strutture chiave del potere, tanto a livello partitico quanto statale. Nessun timore, dunque, che l’emendamento potesse incontrare ostacoli nella sua approvazione in Assemblea nazionale.
Fig. 1 – Xi Jinping si appresta a parlare di fronte ai delegati dell’Assemblea nazionale cinese, 19 marzo 2018
L’11 marzo, alla presenza di un disteso Xi Jinping, oramai convinto di poter restare al timone del Paese ben oltre il 2023, la Grande Sala del Popolo si è espressa: ben 2958 sono stati i voti favorevoli, tre gli astenuti e due i contrari. Un risultato, questo, ben al di sopra di ogni aspettativa e certamente migliore di quello del 2004, quando nel riesame della Costituzione 27 furono i “disertori”. Un messaggio molto chiaro, dunque, in termini di fiducia accordata al leader cinese, che è anche riuscito ad ottenere l’inserimento della sua dottrina socialista nella parte introduttiva del testo costituzionale. D’ora in poi, e probabilmente per un altro decennio, la Cina potrà rapidamente muoversi verso l’obiettivo del suo Presidente: raggiungere entro il 2035 un livello di benessere e modernizzazione vicino a quello degli Stati Uniti. A ben vedere, infatti, la riforma costituzionale è stata salutata con grande interesse dalla base del Partito e, soprattutto, da quella classe media a cui da tempo Xi Jinping strizza l’occhio, con l’obiettivo di non arrestare la produttività del Paese e accelerarne la modernizzazione, anche nelle aree più rurali.
Fig. 2 – Discorso di Xi all’Assemblea nazionale, 19 marzo 2018
LA CONSACRAZIONE DI XI JINPING A “CORE LEADER”
Nonostante la direzione di tale riforma appaia piuttosto chiara, l’organo di stampa ufficiale del Partito si è affrettato a smentire che la rimozione del limite possa in alcun modo significare un mandato a vita per l’attuale Presidente. Tale interpretazione, tuttavia, sembra certamente contrastare con il riconoscimento, avvenuto nel 2016, di Xi come “core leader” del Partito Comunista. Ciò implica che difficilmente egli potrà essere sfidato, nell’immediato futuro, da qualsiasi altro dirigente di Partito, tenendo soprattutto in considerazione la quantità di potere che, nel tempo, è riuscito ad accentrare nelle sue mani: un primato secondo solo a quello di Mao Zedong. A ben vedere, infatti, la svolta che è stata impressa già circa un quinquennio fa da Xi è di larga portata: sotto la direzione di Hu Jintao, gli organi di Partito sembravano più ampiamente disposti ad un dialogo e a un confronto, anche nelle sedi a più ristretta composizione, come il Comitato permanente del Politburo. La sensazione era che qualsiasi decisione dovesse essere presa tenendo in conto le diverse anime del Partito e che il compito del leader fosse quello di accomodare le divergenti istanze, mantenendo comunque saldo il controllo della barra. D’improvviso, e certamente da ora in poi, il decision-making process si è capovolto e Xi si è reso sempre più indispensabile per il Governo del Paese.
Fig. 3 – Xi Jinping e il Premier Li Keqiang (a destra) durante una fase dei lavori dell’Assemblea nazionale, 19 marzo 2018
LA NASCITA DI UN NUOVO IMPERATORE?
Certamente lo scenario che si prospetta nella Cina dei prossimi anni è in evidente rotta di collisione con il concetto occidentale di democrazia, ma non è del tutto nuovo per la Cina, se comparato alla sua storia più e meno recente. Il Governo dell’uomo solo al potere, infatti, è stata la norma sin dal Shi Haungdì (259-210 a.C.) della dinastia Qin. Quando, poi, l’Impero cinese giunse al termine, anche la Repubblica di Cina si configurò come dispotica. Nel 1913, ad esempio, quando il Presidente Yuan Shikai decise di sciogliere il Parlamento e iniziò un processo di accentramento del potere che, nella seconda metà del 1916, lo rese brevemente un nuovo imperatore. Xi Jinping non è, quindi, tanto diverso dagli altri uomini che hanno caratterizzato la storia del Paese. In tempi recenti, inoltre, la proposta collettivizzazione della leadership è stata osteggiata: lo stesso Deng Xiaoping, che la ipotizzò per far fronte alle caotiche vicende all’indomani della morte di Mao, la rinnegò nei fatti dopo Tienanmen. Considerato che il concetto di leadership assoluta è riconducibile al più ampio spettro di valori che il confucianesimo porta con sé, la probabile durata a vita della carica presidenziale di Xi non dovrebbe né stupire, né preoccupare gli osservatori e i policymakers nel mondo. Del resto, val la pena sottolineare come tale indirizzo si sia palesato già dal 2016. Tanto la richiesta di riflettere sulla modifica della Costituzione, quanto l’incapacità di far emergere un nuovo personaggio da presentare come futuro leader del Partito hanno fatto ipotizzare la volontà di Xi Jinping di mantenersi saldamente ancorato al potere.
Fig. 4 – Deng Xiaoping, leader indiscusso della Cina dal 1982 al 1997
LE SFIDE DI XI NEL PROSSIMO DECENNIO
L’agenda cinese, che sicuramente avrà, d’ora in poi, un orizzonte temporale più certo, è densa di impegni. Innanzitutto, Xi Jinping dovrà portare avanti quel pacchetto di misure, noto sotto il nome di Made in China 2025, consistente tanto nella liberalizzazione del mercato quanto nella lotta alla povertà, per il progressivo affermarsi della classe media. Segue, poi, l’estensione dell’influenza cinese per il tramite della Nuova Via della Seta, che deve essere perseguita con tempistiche certe e senza ritardi. Inoltre, questo particolare frangente politico, e in virtù degli esistenti attriti tra la Cina e gli Stati Uniti di Trump, l’abilità politica di Xi si rende indispensabile per una eventuale e assai probabile guerra commerciale con Washington. In risposta alle preoccupazioni popolari più grandi, invece, l’ammodernamento e l’aumento dei poteri alla Commissione per la Supervisione Nazionale è un altro passo certamente obbligato. Al momento, la campagna anticorruzione posta in essere dal Presidente non ha dato i frutti sperati, ma l’introduzione della carcerazione preventiva è uno dei temi di dibattito più ampio e sul quale sembrerebbe esserci maggiore convergenza. Xi avrà poi da garantirsi il sostegno incondizionato e duraturo del suo stesso Partito: ciò potrà avvenire per il tramite di una ricentralizzazione, l’oscuramento delle cariche statali oramai considerate subalterne, come quella del Premier, nonché una maggiore incidenza del controllo presidenziale sulle Forze armate, che Xi ha già cercato di ingraziarsi con un aumento considerevole del budget militare.
La rimozione dell’ostacolo formale rappresentato dall’ultimo comma dell’articolo 79 della Costituzione è, dunque, solo un ulteriore passo verso la realizzazione di un ideale di Cina che da tempo si è profilato. A porre interrogativi più preoccupanti, e a cui ora non è possibile dare una risposta certa, è piuttosto il contributo in tale processo dello strapotere acquisito da Xi Jinping.
Giovanni Ardito
[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più
Il grande successo di Xi Jinping si deve alla sua innata capacità di agire in maniera rapida e risoluta nel rafforzamento del suo ruolo nel Partito già dal primo mandato. Ciò è prevalentemente avvenuto per il tramite dell’esclusione di coloro che ha considerato contrari al suo operato e alla sua idea di socialismo per la Cina. Molti dei suoi oppositori sono, infatti, stati colpiti dalla campagna anticorruzione, che talora ha avuto il sapore di una resa dei conti politica. A giocare a suo vantaggio, sicuramente l’oscuramento consensuale del ruolo di Primo Ministro, fondamentale sotto la presidenza Hu, e la formale introduzione della dottrina Xi nei principali documenti di programmazione economica. [/box]