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Un telefono senza fili: la strana guerra commerciale tra Cina e USA

Da un paio di mesi Cina e USA hanno intrapreso una limitata ma intensa guerra commerciale: si parla di oltre 1300 prodotti colpiti dai rispettivi dazi, per un valore complessivo di centinaia di miliardi di dollari. Nonostante la durezza delle rispettive prese di posizione, sta comunque emergendo la possibilità di una risoluzione pacifica delle controversie commerciali tra i due Paesi.

IL “CASUS BELLI”

Riuscire a risalire a chi, tra Cina e USA, ha iniziato le imposizioni di dazi non è cosa semplice, considerando che le giustificazioni reciproche sono di difesa nei confronti dei dazi e delle azioni “sleali” altrui. Gli esperti indicano come scintilla che ha innescato lo scontro economico tra i due Paesi un presunto uso illecito della proprietà intellettuale americana da parte delle aziende cinese. In particolare secondo uno studio commissionato all’Office of the United States Trade Representative (USTR), il gigante cinese avrebbe causato miliardi di perdite alle società americane operanti sul proprio territorio, a causa del “furto di segreti industriali e di violazioni della proprietà intellettuale nel settore tecnologico americano. Questa accusa, sostenuta anche in numerosi tweet di Trump, è stato un motivo sufficiente a far scattare alcune misure utili a promuovere la famosa politica “America First” del Presidente americano e a imporre su oltre 100 miliardi di dollari di export della Cina dazi quasi al 25%. Pechino non ha di certo accolto positivamente la scelta statunitense, e, pur facendo trapelare l’idea di possibili negoziati per scongiurare uno scontro commerciale più ampio, ha risposto con una dura politica tariffaria bifase: inizialmente i dazi cinesi colpiranno infatti 120 tipologie di beni di importazione americana con un’imposizione del 15%, passando successivamente al 25% e colpendo altre otto categorie di beni provenienti dagli USA. Con il passare dei giorni e con l’ennesimo annuncio di Trump di nuove misure di protezione del mercato americano, Pechino ha comunicato di aver esteso i dazi al 25% a tutte le 128 categorie di merci provenienti dagli Stati Uniti.

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Fig. 1- Il Presidente americano Donald Trump mostra il documento ufficiale che conferma l’imposizione di dazi alle importazioni di alluminio e acciaio provenienti dalla Cina, 8 marzo 2018

SOIA, AEREI E TECNOLOGIA

Se all’inizio erano solo i pannelli fotovoltaici (30%), le lavatrici (20%), l’acciaio (25%), e l’alluminio (10%) provenienti dalla Cina a essere colpiti dai dazi americani, il numero di merci e prodotti colpiti dalle reciproche misure tariffarie è cresciuto esponenzialmente col passare delle settimane, con Pechino che ha preso di mira carne di maiale e vino (25%) provenienti dagli States e Washington che ha risposto con nuove imposizioni su tv, dispositivi medici, prodotti chimici e beni di consumo di origine cinese. Inoltre non si possono dimenticare le immagini che ritraggono un soddisfatto Trump, circondato da operai delle acciaierie americane, presentare trionfalmente i documenti siglati per l’avanzamento della sua politica protezionistica nei confronti delle commodities cinesi, i cui produttori sono accusati di dumping nei confronti dei loro rivali americani. Di fronte all’offensiva di Trump, Xi Jinping non è rimasto di certo a guardare e ha contrattaccato con dazi per un valore di 50 miliardi di dollari, colpendo soprattutto le esportazioni americane di soia, il cui valore è pari a oltre 14 miliardi l’anno. La scelta cinese di colpire la soia non si riduce a mera strategia commerciale. Pechino ha infatti inteso colpire, con un’imposizione fiscale di oltre il 176%, la base elettorale su cui poggia Trump in quanto i maggiori produttori di soia risiedono negli Stati tradizionalmente “rossi” (cioè repubblicani) degli USA. In alternativa alla soia americana, la Cina potrebbe comprare quella prodotta dal Brasile, che, nel 2017, aveva già venduto al Paese asiatico il 57% della propria produzione interna, o in minima parte anche quella coltivata dall’Argentina. La Cina, tuttavia, sta cercando di emergere come un Paese leader del sistema economico globale con cui poter dialogare e contrattare. Se da un lato Pechino pone quindi restrizioni nei confronti dell’import di aerei americani Boeing, dall’altro sta gradualmente aprendo il mercato del suo settore automotive agli investitori stranieri, assicurando che entro la fine dell’anno saranno drasticamente ridotte, se non eliminate, tutte le restrizioni inerenti alla produzione di auto ibride e elettriche.

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Fig. 2 – Richard Yu, CEO del gigante delle telecomunicazioni cinesi Huawei, presenta il nuovissimo microchip con tecnologia 5G prodotto dalla sua azienda al pubblico del Mobile World Congress di Barcellona, marzo 2018

DUELLO SULLE TELECOMUNICAZIONI

Per cercare di comprendere le motivazioni alla base della guerra dei dazi tra Usa e Cina, è utile parlare anche della lotta tra il loro per il controllo del mondo delle telecomunicazioni del futuro. Da questo punto di vista grandi aziende cinesi come Huawei e Zte sono molto conosciute e temute nelle stanze della Casa Bianca. Con Zte, gruppo cinese leader nella produzione di reti mobili e smartphone, che ha chiuso il 2017 con un utile pari a 14 miliardi, e che sta acquisendo sempre maggiore spazio nella scena mondiale grazie a partnership per la costruzione della rete 5G, gli USA erano già entrati in conflitto in passato. Infatti, a seguito di alcune indagini condotte nel 2012 dalla Commissione Intelligence del Congresso, è stato vietato alle aziende americane di utilizzare gli apparecchi prodotti da Zte, ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale americana, in quanto capaci di registrare e trasmettere dati sensibili direttamente al Governo cinese (la Zte è infatti per il 51% di proprietà governativa). Qui la storia si intreccia anche con l’altro colosso cinese, la Huawei, leader nelle telecomunicazioni e che detiene uno dei dieci brevetti per la costruzione delle reti 5G, e con la vicenda Broadcam-Qualcomm. La prima, produttrice di semiconduttori e tecnologie bluetooth con sede ad Hong Kong, a seguito di numerosi negoziati ha cercato di acquisire per 120 miliardi l’americana Qualcomm, leader nella produzione di chispset per la telefonia e che ha condotto numerose e proficue ricerche nello sviluppo delle reti 5G. L’amministrazione Trump, intimorita dalla possibile supremazia da parte delle aziende cinesi nel settore delle comunicazioni e soprattutto delle possibili conseguenze di tale leadership nel comparto della tecnologia 5G, ha posto il veto all’acquisizione, trattenendo così sul suolo americano il prezioso know how sul 5G. Quindi la strenua difesa della proprietà intellettuale americana e i numerosi dazi all’import-export, soprattutto di componenti tecnologiche, dovrebbero, come auspica la Casa Bianca, indebolire la filiera tecnologica cinese, andando così a preservare l’egemonia americana nel settore delle telecomunicazioni, considerata di fondamentale importanza dall’amministrazione Trump. Pechino invece, nonostante il dispiegamento di forze americane sul fronte economico, non perde fiducia nelle proprie potenzialità di sviluppo e di crescita, grazie anche alla presentazione del piano Made in China 2025.

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Fig. 3 – Il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin e quello al Commercio Wilbur Ross guidano la delegazione americana ai recenti negoziati commerciali con la Cina, 4 maggio 2018

A dispetto di attriti e tensioni, il dialogo tra i due giganti economici sembra però continuare. Recentemente Steven Mnuchin, Segretario americano al Tesoro, ha informato la stampa che sta valutando un possibile viaggio in Cina per cercare di risolvere il conflitto commerciale tra i due Paesi. Il viaggio è stata poi confermato pubblicamente dallo stesso Presidente Trump e si è svolto nei primi giorni di maggio, con una folta delegazione statunitense guidata da Mnuchin e dal Segretario al Commercio Ross giunta a Pechino per negoziare un possibile compromesso tra i due Paesi. Ma le trattative non hanno portato a nulla e per ora i due Paesi mantengono i dazi adottati, pur continuando a cercare una soluzione diplomatica alla controversia.

Isabel Pepe

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Made in China 2025 è il piano che Pechino vuole mettere in pratica per raggiungere, entro il 2025 appunto, circa il 70% di autosufficienza in settori strategici quali robotica, intelligenza artificiale e telecomunicazioni. Inoltre Pechino, grazie anche all’acquisto o tentato acquisto di imprese straniere all’avanguardia (vedi Qualcomm), intende evitare che la nazione ristagni nel cosiddetto “reddito medio”, ossia quella situazione in cui non si è più un Paese in via di sviluppo, ma non sì ha ancora raggiunto uno sviluppo tale da poter competere nel settore delle tecnologie e delle merci dall’alto valore aggiunto, come l’high-tech. [/box]

 

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Isabel Pepe
Isabel Pepe

Sono nata in un piccolo paesino della Basilicata. Dopo la maturità scientifica mi sono trasferita a Venezia per studiare lingua cinese alla Ca’ Foscari e specializzarmi in Relazioni Internazionali Comparate. Quest’ultimo percorso di studi e il lavoro di tesi magistrale, “La geostrategia marittima della Repubblica Popolare Cinese: dalla Via della Seta al Filo di Perle”, mi hanno spinta a trasferirmi a Roma per coltivare questi due interessi. Ho frequentato un Master in Geopolitica e Sicurezza Globale, e dopo aver frequentato dei corsi sull’Energia, sono approdata alla Business School del Sole 24 ore per un Master in Management dell’Energia e dell’Ambiente. Quando non mi occupo di questi temi, cerco di coltivare le mie passioni tra cui ci sono libri e vini.

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