Analisi – Il giorno della liberazione è arrivato: Donald Trump ha annunciato l’introduzione di tariffe del 25% su tutte le auto importate negli Stati Uniti. Presentata come una misura a difesa della produzione nazionale e della sicurezza economica statunitense, questa politica tariffaria rischia di avere conseguenze devastanti per l’industria automobilistica globale, con rincari sui prezzi, contrazione della domanda e una ridefinizione delle catene di approvvigionamento.
IL MOTIVO DIETRO AI DAZI: LA STRATEGIA DI TRUMP
Fin dal suo primo mandato, Donald Trump ha adottato una politica commerciale fortemente protezionistica, basata sull’idea che gli Stati Uniti siano stati svantaggiati nel commercio mondiale fondato sul multilateralismo e sul libero mercato. La sua Amministrazione ha più volte sottolineato la necessità di ridurre il deficit commerciale e di riportare la produzione industriale sul suolo statunitense. Per raggiungere questi obiettivi, il Presidente ha adottato una serie di misure drastiche, tra cui i dazi sulle importazioni di automobili straniere, in particolare quelle provenienti dall’Europa.
L’ultima mossa della Casa Bianca conferma questa linea dura: a partire dal 2 aprile sono entrati in vigore nuovi dazi sulle automobili importate con un’aliquota del 25%, mentre le tariffe sui componenti entreranno in vigore a maggio o in un periodo successivo. Il provvedimento colpisce anche Canada e Messico, nonostante l’esistenza del trattato commerciale nordamericano USMCA. L’unica eccezione riguarda i componenti prodotti negli Stati Uniti e successivamente assemblati in veicoli finiti in Canada o Messico, che resteranno esenti. Il fine è chiaro: rendere le auto straniere meno competitive e incentivare le aziende automobilistiche a trasferire la produzione negli States.
La caratteristica di questi dazi è che saranno permanenti e che, a detta di Trump, condurranno a “una crescita straordinaria” nel settore automobilistico, con una ricaduta economica stimata tra 600 miliardi e 1.000 miliardi di dollari nei prossimi due anni. Secondo il Presidente, i nuovi introiti serviranno a ridurre il debito nazionale, agendo di fatto come una compensazione fiscale a favore dell’economia americana.
Tuttavia, questa visione sembra non tener conto di un aspetto fondamentale del settore automobilistico moderno: l’interconnessione delle catene di approvvigionamento globali. Le automobili vendute negli Stati Uniti, comprese quelle prodotte localmente, contengono una grande quantità di componenti importate, provenienti principalmente da Canada, Messico, Giappone e Germania. L’imposizione di dazi su questi componenti avrà quindi un effetto boomerang sulle stesse case automobilistiche americane, aumentando i costi di produzione e facendo lievitare i prezzi finali per i consumatori.
La misura, dunque, non si limita a penalizzare le automobili come prodotti finiti, ma compromette l’intera filiera produttiva, minacciando la stabilità di un settore la cui prosperità si fonda sull’efficienza delle catene di approvvigionamento e della logistica globali. Insomma, se l’idea è quella di spezzare le catene della globalizzazione per ricostruire un’America industrialmente autosufficiente, la via trumpiana sembra lunga, impervia e incerta.
Creazione di posti di lavoro, contrasto alla delocalizzazione e riduzione della dipendenza economica dalla Cina sono gli obiettivi dichiarati di questa nuova mossa. Tuttavia, la realtà è ben più complessa: anche ammesso che la produzione americana aumenti per compensare il calo delle importazioni, emergerebbero problemi strutturali non secondari. La carenza di manodopera qualificata, aggravata dalle restrizioni migratorie volute dallo stesso Trump, infatti, renderebbe impossibile sostenere un’espansione su larga scala dell’industria manifatturiera. Inoltre, la riconfigurazione delle catene produttive richiederebbe molti anni e investimenti colossali, con il rischio di ripercussioni inflazionistiche significative.
Ma c’è un altro nodo cruciale: l’economia statunitense non può permettersi di tagliare i ponti con il resto del mondo, almeno non dal punto di vista finanziario. Nel 2025, il Tesoro degli Stati Uniti dovrà emettere nuovi titoli di Stato per almeno 2mila miliardi di dollari, oltre a rinnovare obbligazioni in scadenza per altri 3mila miliardi. Senza la fiducia degli investitori stranieri, i tassi d’interesse rischierebbero di impennarsi, innescando una reazione a catena su tutta l’economia.
Fig. 1 – Automobili USA appena prodotte
TENSIONI E REAZIONI INTERNAZIONALI
“Per anni siamo stati derubati da quasi tutti i Paesi del mondo. MA QUEI GIORNI SONO FINITI”, ha scritto Donald Trump sul suo social media Truth. Il tycoon ha poi rivolto un avvertimento esplicito all’Unione Europea e al Canada: “Se collaborano per danneggiare economicamente gli Stati Uniti, risponderemo con dazi su larga scala, ben più severi di quelli attuali. Dobbiamo proteggere il miglior amico che abbiano mai avuto!”.
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Il Primo Ministro canadese Mark Carney ha parlato di una svolta epocale nei rapporti tra Ottawa e Washington, avvertendo che il Canada dovrà “ridurre drasticamente” la dipendenza economica dagli Stati Uniti. Secondo Carney, l’intesa economica di lungo corso tra i due Paesi è ormai “finita” e il suo Governo sta valutando la possibilità di un’azione legale per violazione dell’accordo USMCA, negoziato proprio sotto la presidenza Trump.
Dall’altra parte dell’Atlantico, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha risposto con prontezza. “Valuteremo attentamente questo annuncio insieme ad altre misure che gli Stati Uniti stanno considerando nei prossimi giorni”, ha dichiarato, aggiungendo che l’Unione Europea continuerà a cercare soluzioni negoziate, pur difendendo i propri interessi economici.
Von der Leyen ha riconosciuto, infatti, che “L’industria automobilistica è un motore d’innovazione e competitività , con catene di fornitura profondamente integrate su entrambe le sponde dell’Atlantico. I dazi sono tasse: dannose per le imprese, disastrose per i consumatori, sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea”.
D’altronde, i dati parlano chiaro: nel 2024 le case automobilistiche europee hanno esportato negli Stati Uniti 749mila veicoli, per un valore di 38,5 miliardi di euro, secondo l’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili (ACEA). Un eventuale incremento dei dazi metterebbe a rischio una fetta significativa del commercio transatlantico, esacerbando le tensioni economiche e spingendo l’Europa a cercare nuove strategie per proteggere la propria industria.
Anche i Governi di Germania e Francia hanno manifestato preoccupazione. Il Ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck, ha affermato che l’Europa “non può permettersi di cedere a questa pressione” e che una risposta unitaria sarà necessaria per difendere gli interessi economici del blocco. Hildegard Müller, Presidente dell’Associazione dell’Industria Automobilistica Tedesca, ha lanciato un allarme sulle gravi ripercussioni che queste tariffe provocheranno non solo sulle catene di approvvigionamento globali, ma anche su un commercio libero e basato su regole.
Dalla Francia, il ministro delle Finanze Eric Lombard ha denunciato il comportamento “aggressivo” degli Stati Uniti, anticipando una possibile reazione europea: “L’unica soluzione per l’Unione Europea sarà imporre tariffe sui prodotti americani in risposta”.
I mercati azionari hanno ugualmente reagito male alla notizia: General Motors, Ford e Stellantis (Chrysler e Jeep) hanno perso, rispettivamente, il 7,2%, il 3,8% e l’1,1%.
La risposta più drastica è arrivata da Ferrari, che ha comunicato l’introduzione dei dazi rivedendo la propria politica commerciale: i prezzi delle sue vetture destinate al mercato americano aumenteranno fino al 10%. Anche Volkswagen ha reagito introducendo una “tassa d’importazione” ai prezzi di listino delle proprie auto colpite dalla misura restrittiva.
A differenza dei rivali, Tesla potrebbe essere il vincitore nella guerra delle tariffe scatenata da Trump, o quanto meno soffrire meno di altri. Il titolo della casa di Musk ha infatti guadagnato lo 0,4% grazie agli impianti in California e in Texas e al fatto che il 60-75% dei componenti che utilizza sono prodotti negli Stati Uniti.
Fig. 2 – Ursula von der Leyen ha detto che l’UE reagirà ai dazi statunitensi
CONCLUSIONE
L’idea di ricreare un’America impermeabile all’economia mondiale è il filo conduttore della politica trumpiana, condita di toni aggressivi e contraddizioni: da un lato, la Casa Bianca spinge per un’economia chiusa, libera dalle logiche del libero mercato; dall’altro, gli Stati Uniti dipendono dai capitali esteri per finanziare il loro imponente debito pubblico.
Nel mondo delle interdipendenze e del libero mercato, la vera sfida sarĂ capire fino a che punto sia possibile che la piĂą grande economia possa sganciarsi senza pagarne il piĂą alto prezzo.
Filomena Ratto
Photo by pgottschalk is licensed under CC BY-NC-SA