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Balcani, tra integrazione e isolamento (I)

In due puntate, il lento e tormentato processo di integrazione tra l’Unione Europea e gli Stati balcanici. In questa prima parte, una fondamentale ricostruzione storica delle linee generali di questo rapporto e dei vari co-protagonisti, in primis la Nato post guerra-fredda

 

L’ORDIGNO DA DISINNESCARE – Per collocazione geografica e vicende storiche, la penisola balcanica ha sempre interagito con l’Europa occidentale, rappresentandone nell’immaginario collettivo una sorta di periferia sconosciuta, instabile e ingovernabile. L’aggettivo ‘balcanico’ ha finito per assumere un netto significato peggiorativo: l’espressione forte – che sfiora talvolta anche i nostri dibattiti interni – è infatti spesso ‘balcanizzazione’, soprattutto quando non si sa come definire una rapida disgregazione o un fenomeno incontrollato, spesso violento. Di volta in volta in Occidente la responsabilità è stata accollata ai nazionalismi esasperati o ad un odio atavico e ancestrale tra le parti, ma la verità è che quest’area è stata pregiudizialmente ritenuta irriformabile da qualunque evoluzione sociale ed economica volta a farla uscire dalla sua arretratezza. Questa immagine assai poco benevola è ricomparsa puntualmente nella letteratura internazionale appena iniziata la seconda disgregazione jugoslava degli anni Novanta del secolo scorso, ed ha svolto un ruolo anche nelle scelte di chi si apprestava ad intervenire o semplicemente a mediare tra le parti. In altre parole, è diventata una sorta di alibi per l’inazione. Se ciò era comprensibile durante la guerra, perché la necessità del contenimento della crisi era più sentita di quella dell’intervento o della mediazione, a quasi vent’anni dalla pace di Dayton e quindici dall’intervento in Kosovo, affrontare oggi un qualsiasi tema ‘balcanico’ richiede ancora la necessità di essere mentalmente liberi da pregiudizi.

 

L’UE NEI BALCANI – Dopo la disintegrazione della Repubblica Federale di Jugoslavia – e dopo gli inutili tentativi di intervento diplomatico nelle fasi più acute – l’Unione Europea ha espresso più volte l’opportunità e la necessità di ridare stabilità all’area, integrando i nuovi Stati sorti dalla dissoluzione accettandoli come nuovi stati membri. Alcuni osservatori piuttosto critici hanno però fatto notare che, in parallelo alle fasi più acute della crisi, l’UE era impegnata nella discussione dei trattati di Maastricht e nell’unificazione monetaria. Resta comunque il fatto che, dopo la conclusione della guerra in Bosnia e dopo il ritiro serbo dal Kosovo, l’Unione Europea sia stata coinvolta massicciamente in varie forme di cooperazione, da quelle immediate ed emergenziali del dopoguerra a vere e partnership sul piano del nation-building. Oltre a queste attività, nelle varie conferenze internazionali la presenza europea si è sempre confermata come quella di un attore importante e determinato a esprimere la propria opinione. La dichiarazione più netta e significativa risale ormai ad una decina d’anni fa ed è contenuta nelle conclusioni della Presidenza UE formulate alla fine del Consiglio Europeo di Salonicco del giugno 2003. In sostanza, riferendosi ai Balcani occidentali, si stabiliva che essi sarebbero diventati parte integrante dell’Unione non appena avessero «soddisfatto le condizioni» per l’adesione. In altre parole l’ingresso sarebbe avvenuto ‘se e quando’ i nuovi Stati avessero potuto dirsi pronti e i loro standard fossero stati ritenuti idonei, stabilendo un percorso con tappe precise e verifiche degli obiettivi conseguiti.

 

Zoran Milanovic e Alenka Bratusek, premier di Croazia e Slovenia. Il 2 aprile la Slovenia ha ratificato il trattato di adesione della Croazia all’Ue

IL RUOLO DELLA NATO – Dopo la caduta del Muro si erano affacciati tra i partner europei numerosi dubbi sull’opportunità di conservare una struttura politico-militare complessa e articolata (e soprattutto costosa!) come la NATO. Non si trattava della rivincita di chi non era mai stato un atlantista convinto, ma della semplice constatazione, nel clima euforico di quegli anni, che la Guerra fredda fosse finita e pertanto diventasse inutile conservare intatta e immutata una delle sue strutture più peculiari. Non immaginando insomma come trasformarla, perfino lo scioglimento era considerato tra le ipotesi possibili. Fu infatti la dissoluzione jugoslava a ridare vita all’Alleanza Atlantica affidandole nuovi compiti. Anzi, senza sembrare eccessivi, si potrebbe dire che le tappe della dissoluzione jugoslava siano diventate altrettante tappe della conferma della vitalità di questa organizzazione politico-militare. Proprio la necessità del contenimento della crisi portò infatti all’impegno di navi ed aerei in Mediterraneo per attuare le misure previste dall’embargo sulle armi, e la tappa successiva fu il coinvolgimento diretto assieme alle Nazioni Unite nella difesa delle enclave in Bosnia attuato mediante attacchi al suolo mirati e concordati con l’Onu. Dopo la pace di Dayton venne l’avvicendamento con il contingente Onu e la relativa assunzione della responsabilità diretta di preservare i delicati equilibri raggiunti. Seguì infine l’intervento vero e proprio nella campagna aerea per il Kosovo, concluso con l’intervento a terra. Giunti a questo punto era quindi inevitabile che UE e NATO continuassero in altre forme l’impegno iniziato nei Balcani.

 

UE POTENZA CIVILE – Per capire meglio l’approccio europeo anche nelle più recenti vicende è necessario sottolineare il particolare ruolo europeo di ‘potenza civile’ all’interno del sistema internazionale. Da una parte, oltre alle naturali esitazioni e alle divisioni durante la crisi, questo ruolo non può imporsi sul piano militare, ma esercita in ogni caso una notevole influenza politica e diplomatica. All’indomani di Dayton, oltre alle iniziative umanitarie, l’UE lanciò l’iniziativa di un processo di stabilizzazione e buon vicinato nel sud-est europeo: a questa prima fase (denominata di Rayaumomt) aderirono Albania, Bosnia Erzegovina, Croazia e Macedonia. In realtà, poiché gli interventi finanziari previsti erano subordinati al raggiungimento di un minimo livello di buon vicinato tra i Paesi coinvolti e soprattutto a causa dell’esplosione della crisi in Kosovo (che non fu affatto impedita da questa azione), il progetto si fermò, ma rimase una significativa esperienza dalla quale apprendere ulteriori insegnamenti. Infatti, dopo il 1999,  il rinnovato impegno europeo elaborò un Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale che, oltre alla cooperazione per la ricostruzione e lo sviluppo e la consulenza diretta nei processi di nation-building, prevedeva l’integrazione europea come obiettivo finale. Il modello di riferimento era il Patto per l’Europa centrale e orientale, che aveva avuto un apprezzabile successo, e altrettanto positive erano le aspettative dell’UE. Tutti gli Stati balcanici avrebbero ricevuto consulenza e aiuti come preparazione all’adesione: considerando che il progetto riguardava Slovenia, Croazia, Albania, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro e Kosovo (non ancora formalmente indipendente), si trattava indubbiamente di un piano piuttosto ambizioso. La citata dichiarazione di Salonicco del 2003 va dunque collocata in questa fase e in questo clima probabilmente eccessivamente ottimista. D’altra parte è opportuno ricordare che l’UE fu piuttosto generosa con i nuovi Stati senza per questo pretendere particolari garanzie o contropartite. Nel 2006 la Bosnia ricevette 51 milioni di euro, e per la sola missione di polizia dell’UE ne furono stanziati 24. A dispetto delle risorse stanziate con altrettanta larghezza in altri Stati, i risultati si possono definire quanto meno contraddittori, sebbene influisca su di essi in larga misura anche l’azione politica interna dei singoli Stati balcanici coinvolti, spesso preda di opinioni pubbliche tuttora manipolabili con relativa facilità. Lo sforzo compiuto mediante la strategia dell’allargamento combinata al Patto di stabilità resta comunque un progetto grandioso, anche se oggi sta decisamente segnando il passo.   (I. Continua – clicca qui)

 

Giovanni Punzo

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Giovanni Punzo

Giovanni Punzo (Monaco di Baviera, 1957), dopo la laurea in Scienze politiche (ind. internazionale) a Padova, è stato ufficiale degli alpini per tre anni in Alto Adige e si è specializzato in Diritti Umani. Le passioni per la geopolitica e gli alpini si sono curiosamente incrociate quando è stato richiamato in servizio partecipando a due missioni  in Bosnia e Kosovo tra il 2001 e il 2004 occupandosi di popolazione civile e psyops. Oltre a un breve saggio sul ‘decennio balcanico’ (Il paradigma balcanico. Un conflitto determinante, Cleup) ha scritto anche un libro di ricordi e riflessioni sulle due missioni (Dobro. Storie balcaniche, Cierre).

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