Una spaventosa tratta di uomini percorre da Sud a Nord l’intero territorio nazionale egiziano, partendo dai campi rifugiati del Sudan orientale e diretta verso le nude lande della Penisola del Sinai. Da anni le organizzazioni per la protezione dei rifugiati e gli attivisti per la difesa dei diritti umani cercano di attirare l’attenzione sul traffico di rifugiati eritrei rapiti dai campi vicino Kassala – agglomerato urbano di 400 mila abitanti al confine tra Sudan ed Eritrea- e trasportati per migliaia e migliaia di chilometri in condizioni disumane verso i territori di confine tra Israele ed Egitto, da dove partono ingenti richieste di riscatto. Una terribile fine attenderà coloro le cui famiglie non riusciranno a soddisfare le richieste dei rapitori.
IL CAMPO DI SHAGARAB – Il campo rifugiati di Shagarab, situato una cinquantina di chilometri a Nord-Ovest dell’intersezione tra i confini di Eritrea, Etiopia e Sudan, è uno dei più importanti del Sudan orientale. È qui che viene condotta dalle autorità sudanesi un’ampia parte dei profughi provenienti dal Corno d’Africa, in particolar modo dall’Eritrea. È proprio da Asmara che giunge un flusso ininterrotto di uomini e donne, in fuga da un regime corrotto e repressivo, da un Paese povero e privo di prospettive e da un servizio di leva che si protrae per anni e anni. I profughi eritrei cercano di attraversare il territorio sudanese per giungere verso il Nord Africa e l’Europa o per raggiungere il territorio israeliano e chiedere asilo (si calcola che circa 40mila eritrei vivano oggi in Israele). Una gran parte viene però intercettata dalle autorità sudanesi e condotta nei campi rifugiati dove rimane in attesa di ottenere un visto per l’uscita dal Sudan. Molti di costoro non riceveranno mai il lasciapassare necessario e verranno rimpatriati con la forza in Eritrea, nonostante il diritto internazionale obblighi le nazioni aderenti a concedere asilo a individui in fuga da Stati in cui vengono violati i più elementari diritti umani.
IL SEQUESTRO – A Shagarab sono oggi raccolti circa 30mila rifugiati, oltre il 90% dei quali di origine eritrea. È nei pressi di questo campo che si è verificata la maggior parte dei sequestri: un numero imprecisato, stimato attorno ai 400 individui dall’UNHCR , l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati (ma la carenza di informazioni rende concreto il rischio che il numero sia ben maggiore). Gli individui vengono prelevati con l’inganno o con la forza, condotti nel Sinai in un viaggio interminabile e quindi rinchiusi in attesa del pagamento del riscatto da parte delle famiglie. Le richieste economiche dei rapitori sono spesso impossibili da soddisfare (in alcuni casi si è parlato di 40mila dollari) per famiglie che vivono in condizioni di estrema povertà.
La mappa del Sudan, in posizione strategica di “cerniera” tra Egitto, Corno d’Africa e Medio Oriente
CHI E’ IL COLPEVOLE – Responsabile del lucroso traffico sono, secondo le testimonianze dei superstiti, i membri della tribù beduina dei Rashaayda. Originari di una delle più numerose tribù beduine della Penisola Arabica (presenti in particolar modo nell’Hijaz), alcuni Rashaayda si sono stanziati in territorio eritreo, spingendosi poi fino all’odierno Sudan. Da quest’area, membri della tribù conducono un traffico di uomini, merci e armi che innerva l’area Nord-orientale del continente africano. L’azione dei Rashaayda sarebbe però impossibile senza la collaborazione di agenti sudanesi che sorvegliano l’area dei campi rifugiati e delle autorità che controllano le arterie stradali egiziane. Lo scorso gennaio, dopo la sparizione di quattro donne eritree allontanatesi momentaneamente dal campo, è partita una rivolta dall’interno di Shagarab: centinaia di rifugiati si sono accaniti contro un villaggio Rashaayda nelle vicinanze, accusando i loro membri di complicità nel rapimento. I beduini hanno risposto all’aggressione aprendo il fuoco contro i profughi e ferendone diversi. Senza una maggior collaborazione da parte delle autorità sudanesi sembra molto difficile interrompere la tratta d’uomini che sconvolge l’Africa Nord-Orientale, aumentando il livello della disperazione dei deboli. Un impegno più forte per la loro protezione è oggi necessario.
Andrea Ranelletti