I fatti di sabato a Bengasi, con gli scontri tra la popolazione locale e le milizie di “Scudo della Libia”, formazione di insorti inquadrata nella riserva dell’esercito, riportano nel dibattito internazionale il tema della sicurezza nel Paese: chi comanda davvero e come può essere controllato il flusso di armi?
GLI SCONTRI DI BENGASI – Sabato 8 giugno, un gruppo di dimostranti a Bengasi ha assalito la sede di “Scudo della Libia”, una milizia armata che prese parte all’insurrezione contro Gheddafi e che adesso è riconosciuta dal Governo quale unità di riserva dell’esercito. Dopo alcune ore di duri scontri, il bilancio è stato di almeno 30 persone morte e oltre 70 ferite. Il fatto, che non costituisce un precedente, giacché episodi analoghi si sono verificati nell’ultimo anno in tutto il Paese, porta nuovamente in evidenza una problematica che costituisce una seria minaccia per la già fragile unità della Libia contemporanea, ossia la totale assenza di razionalità nella gestione della sicurezza, a cominciare dall’impossibilità per le Autorità di procedere a una reale campagna di disarmo. La vicenda di Bengasi, oltretutto, giunge proprio a pochi giorni dalla polemica tra il Primo Ministro libico, Ali Zeidan, e il Presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, il quale, all’indomani degli attacchi terroristici degli uomini di Mokhtar Belmokhtar alla miniera di Arlit e alla caserma di Agadez, affermò che la Libia costituisse «la maggiore fonte di destabilizzazione nel Sahel».
IL VUOTO DI POTERE A SUD – In effetti, il sud del Paese resta tuttora assolutamente fuori controllo, a maggior ragione da quando l’avanzata francese in Mali ha costretto un ampio numero di combattenti islamisti ad attraversare i confini algerino e nigerino, transitando anche verso la Libia. È innegabile che il quadro nella regione sahelo-sahariana sia divenuto quanto mai caotico in seguito alle turbolenze degli ultimi due anni, con gruppi combattenti sospesi tra il jihadismo e il banditismo che sono riusciti a sfruttare i vuoti di potere – anche connessi alle cosiddette “Primavere arabe” – per perseguire intenti terroristici e criminali (sequestri e traffici di armi e droga), tuareg sul piede di guerra e compagini armate di ribelli. In Libia continua a circolare un volume di armi non ben quantificabile e in molte zone il controllo del territorio, e con esso quello della giustizia e della sicurezza, restano appannaggio di clan, potentati locali e milizie più o meno regolari per i quali la guerra civile non è ancora finita. Il progetto della Commissione suprema di sicurezza (CSS), che avrebbe dovuto comprendere le varie formazioni armate degli insorti, è al momento solo una sigla sotto la quale operano componenti con propri interessi. Lo “Scudo della Libia” è un’altra organizzazione costituita da combattenti anti-Gheddafi, ma che, a sua volta, mira a obiettivi talvolta confliggenti con lo stesso Governo di Tripoli e spesso in aperta ostilità nei confronti della CSS.
CHI COMANDA IN LIBIA? – La complessità del quadro sta proprio nell’assenza di linearità nella gestione della sicurezza, poiché alle sigle ora indicate devono essere aggiunti coloro che sarebbero i detentori legittimi dell’uso della forza, ossia i militari regolari e la polizia. La Libia meridionale, inoltre, è ormai un’area centrale per il transito dei traffici illeciti e per il rifugio di alcuni gruppi islamisti attivi nella regione sahelo-sahariana, soprattutto Ansar al-Shari’a, che intrattiene profondi rapporti con al-Qaida (molti suoi membri sono reduci del jihad in Iraq e Afghanistan), pur non facendone direttamente parte e nonostante recentemente alcune sue figure di spicco siano state uccise. Tutto ciò contribuisce a rendere la Libia estremamente instabile, scomponendo il contesto socio-politico in base a direttrici da sempre presenti nel Paese, ma riemerse tragicamente dopo la caduta di Gheddafi e destinate, stante anche la moltiplicazione di milizie armate e il flusso incessante di armi, a perdurare nel lungo periodo. In questo senso l’origine primaria delle vicissitudini libiche è da ricercarsi nella mai sedata frammentazione etnica e tribale.
Beniamino Franceschini