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Dottrina militare americana: il dibattito

Le esigenze derivanti dai problemi di budget, le lezioni imparate dai conflitti decennali in Iraq e Afghanistan (oltre a quelli non dichiarati in altre zone del globo) e le nuove dottrine/politiche elaborate dall’Amministrazione Obama, hanno condotto gli strateghi americani a ripensare pesantemente il modo in cui organizzare le forze e dispiegarle intorno al globo.

 

TREND ATTUALE –  Da quanto detto emergono due tendenze primarie dell’establishment militare statunitense, che si traducono in altrettante posizioni nella dottrina. Coloro i quali sostengono che il Paese debba ritornare ad occuparsi quasi esclusivamente di conflitti ad alta intensitĂ  ed una strategia di piĂą lungo periodo votata al contrasto/contenimento degli avversari principali degli Stati Uniti si oppongono a chi, al contrario, afferma l’importanza di continuare a coltivare ampie capacitĂ  di contrasto alla guerra asimmetrica (in particolare si parla di COIN, COunter INsurgency, contro-insurrezione), fondamentali in un ambiente operativo come quello attuale e futuro segnato da una grande instabilitĂ .

 

I TRADIZIONALISTI – Per quanto riguarda la prima categoria, il dibattito si concentra attorno alla necessità di rimodulare le forze, specialmente quelle terrestri (Esercito e Corpo dei Marines), per prepararle agli eventuali scontri con nazioni dotate di forze a media capacità, principalmente la Repubblica Islamica dell’Iran e la Corea del Nord, che pur non godendo di tattiche, mezzi ed addestramento paragonabile a quello americano, potrebbero impensierire e creare delle difficoltà ad una forza che da anni non si dedica in modo assoluto alle operazioni ad armi combinate, cioè l’integrazione sul campo di battaglia delle branche di fanteria, artiglieria e mezzi corazzati.

Per quanto riguarda il Corpo dei Marines, il discorso è peculiare. Data la natura specifica di proiezione dal mare, sono necessari mezzi (navi, “cuscini da sbarco”, elicotteri, etc.) in grado di svolgere questa funzione in un ambito assai proibitivo come quello odierno, nelle quali le coste sono difese pesantemente da sistemi missilistici (i cosiddetti anti-access/area denial). Senza di essi (pensiamo alla cancellazione dell’EFV) o con numeri risicati (es.: navi classe America), la situazione potrebbe divenire problematica, portando alla perdita di funzione del servizio in questione.

Portaerei in navigazione

I teorici di tale “gruppo” sembrano aver trovato un supporto e conferme nella strategia di focalizzazione sull’Asia orientale posta in essere dal presidente Obama. Conosciuta come AirSea Battle, prevede un collegamento stretto tra USAF e U.S. Navy nel contesto dell’oceano Pacifico e ricalca il famoso concetto dell’AirLand Battle emerso negli anni ’80 per una maggiore integrazione tra l’Esercito e l’Aviazione sui cieli e territori dell’Europa continentale (sulla scia dei fallimenti vietnamiti) da utilizzarsi in caso di guerra con le forze del Patto di Varsavia. Essendo passati anche una trentina di anni, con relativi mutamenti tecnologici e rapporti di forza, diverse critiche sono emerse sulla sua fattibilità.

Il problema, in tale caso, si concentra sulla sostenibilità di tale concetto operativo se applicato nei confronti della Cina che, nonostante le affermazioni in senso contrario offerte dai militari e dai politici a stelle e strisce, è la ragione primaria per la quale si registra lo spostamento di strategia e risorse americane. La Cina, infatti, avendo concentrato le proprie infrastrutture maggiori e più avanzate lungo le coste dei mari che la bagnano, ha sviluppato sistemi missilistici da crociera e difese antiaeree in grado di colpire eventuali navi e velivoli nemici in avvicinamento.

Conseguentemente gli Stati Uniti correrebbero dei grandissimi rischi a dispiegare in loco le preziose portaerei, che si troverebbero a tiro delle salve avversarie proprio a causa dello scarso raggio d’azione di un aereo da combattimento assai tecnologico ma molto legato alla disponibilitĂ  di infrastrutture avanzate per la manutenzione come l’F-35. Anche per ciò che attiene al giĂ  operativo F-22 Raptor si avrebbe qualche problema: infatti le basi giapponesi e coreane in grado di ospitarlo sarebbero vulnerabili al raggio d’azione dei missili cinesi. Per queste motivazioni una variante o integrazione del concetto AirSea Battle prevedrebbe l’utilizzo, nelle prime fasi di un’eventuale conflitto, di droni, mezzi per la guerra elettronica e missili da crociera capaci di accecare e devastare le difese antiaeree (SEAD, Suppression of Enemy Air Defense) e le batterie mobili per la difesa costiera, e solo in una seconda fase vi sarebbe l’entrata in campo dei cosiddetti aerei “stealth”.

 

GLI “IRREGOLARI” – La seconda grande corrente di pensiero è costituita da coloro che sino a qualche anno fa si sarebbero definiti i figli del re indiscusso dell’argomentazione contro insurrezionale, quel Generale David Howell Petraeus che ha guidato lo sforzo americano in Iraq ed Afghanistan (soprattutto il primo, per la veritĂ ) nei periodi piĂą bui e complessi di entrambi i conflitti. Con la chiusura totale e/o parziale di queste esperienze, il risultato piuttosto ambiguo ottenuto, il costo materiale, umano e morale e l’uscita di scena del padre putativo delle teorie, le tattiche COIN (COunter INsurgency) a livello di grandi unitĂ /numeri sono tornate in secondo piano per i Dipartimenti di Stato e della Difesa ed i circoli legati alla sicurezza nazionale.

Oggigiorno l’eredità, però, dei coindinisti (come erano piuttosto spregiativamente chiamati i sostenitori di tali teorie) è assolutamente imprescindibile all’interno delle istituzioni educative delle Forze Armate (e non solo) data l’instabilità mondiale e l’evidente mutamento delle dinamiche dei conflitti. Dimenticare nuovamente, come accaduto dopo il conflitto vietnamita (e in generale indocinese), le lezioni apprese duramente nel corso degli anni sarebbe un delitto capitale e ciò viene riconosciuto anche da coloro i quali non sono grandi sostenitori di tale filone di pensiero.

SOF sul campo

Tuttavia va rilevato come molti all’interno dell’establishment militare, così come nelle Commissioni Forze Armate del Senato e della Camera dei Rappresentanti, abbiano criticato tale approccio. In un’audizione con il comandante del Comando Forze Speciali (SOCOM), l’Ammiraglio William McRaven (già capo del comando che supervisionava l’operazione che condusse all’uccisione di Osama Bin Laden), i senatori si sono per ora opposti all’implementazione del piano sviluppato dal suddetto. Quest’ultimo, in sostanza, prevedeva che alle forze speciali (Special Operation Forces, SOF) dislocate nell’area di responsabilità dei vari comandi geografici unificati venisse concessa una libertà d’azione e flessibilità maggiore rispetto alle forze dell’Esercito, della Marina, dell’Aviazione e del Corpo dei Marines assegnati. In tal modo si sarebbe “spezzata” la tradizionale catena di comando, fatto che ha portato i generali o gli ammiragli a capo dei comandi suddetti a storcere il naso. A tali obiezioni si è risposto assicurando che nessuno avrebbe l’intenzione di rovesciare la gerarchia prestabilita (sebbene sia una situazione normale per le SOF essere meno rigidi su questo punto rispetto alle unità convenzionali), ma che è la realtà globale a richiedere un approccio più incentrato sull’essere non convenzionali e rapidi nelle decisioni; il tutto per far fronte alle minacce emergenti.

 

DECISIONI – Come tale diatriba intellettuale si concluderà è ancora tutto da capire: quello che è certo è che ci saranno notevoli implicazioni strategiche, politiche, economiche e non solo militari a seconda della scelta effettuata. L’esito più probabile, in ogni caso, è che alla fine non verrà sposato un approccio a scapito di un altro, ma si cercherà di bilanciare entrambi perché l’unico fattore costante e indubbiamente sempre valido è che la guerra di domani non sarà strutturata così come quella che si vorrebbe combattere o che si è combattuta ieri. Perciò, maggiori capacità si posseggono, maggiori saranno le possibilità di portarla ad una conclusione positiva.

 

Luca Bettinelli

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Luca Bettinelli
Luca Bettinelli

Mi chiamo Luca, ho 28 anni e mi sono laureato in Relazioni Internazionali presso l’UniversitĂ  Statale di Milano con una tesi riguardante il Pakistan e la questione etnico-politica all’interno dei suoi confini.

Sono appassionato di geopolitica, soprattutto se applicata al contesto del mondo islamico in generale, anche se, per la veritĂ , ho un interesse piuttosto forte per tutto ciò che ruota attorno all’Iran ed alla parola Persia. Inoltre ho una notevole fascinazione nei confronti delle tematiche attinenti al mondo militare e della sicurezza in generale, sebbene da bambino non abbia mai giocato con i soldatini.

Oltre a ciò mi ritengo un lettore accanito ed onnivoro, un’amante del cinema e un gran tifoso della squadra di basket della mia cittĂ ,  l’Olimpia Milano.

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