Le agende internazionali si riempiono ogni giorno di questioni vecchie e nuove: Iran, Afghanistan, Cina, crisi economica, rapporti con la Russia, Siria, Turchia, Brasile… Un tema invece sembra quasi scomparso: la questione israelo-palestinese. In realtà , gli analisti non se la sono dimenticata: ci sono però ben poche novità . Lo vediamo con cinque domande e cinque risposte
1) La Palestina aveva ricevuto una sorta di riconoscimento ufficiale dall’ONU giusto? Non è servito a nulla?
La Palestina è effettivamente stata dichiarata “Stato non membro Osservatore Permanente” dell’ONU, una definizione complessa, che è stata entusiasticamente celebrata da molti in quanto implicitamente riconosce appunto lo status di “stato” e non semplicemente di indefinita “entità ” come in precedenza.
Tuttavia, come noi stessi abbiamo valutato in quell’occasione (v. L’importanza di chiamarsi stato) al di là del forte valore emozionale l’evento non ha cambiato nulla sul campo. L’ONU non imponeva (né del resto avrebbe potuto) alcuna misura ai due contendenti, né li aiutava ad affrontare in maniera nuova le numerose questioni che continuano a bloccare il dialogo.
2) Quali sono queste questioni?
Sono, in fondo, sempre le stesse che si ripetono da anni, segno anche questo di una situazione ormai statica. Le ripetiamo in ordine sparso, poiché non pretendiamo di fornire una classifica di rilevanza – anche perché sono tutte interconnesse tra loro: le colonie israeliane nella West Bank e la divisione amministrativa della stessa, il muro di separazione, la sicurezza reciproca, l’efficienza della governance palestinese, le risorse idriche e agricole, la richiesta del diritto del ritorno palestinese, i confini… la lista potrebbe andare anche oltre. Eppure, non bisogna dimenticarsi come tutti questi elementi siano soprattutto l’espressione visibile di problemi più profondi che sono, questi sì, alla base del conflitto stesso. Lo scontro è per il possesso della terra, al di là della retorica di entrambi, ma la difficoltà di trovare accordi e di dirimere le questioni sopra citate ha radici più complesse.
3) Cosa significa? Che il problema è un altro?
Trattare in poche righe l’intera questione è praticamente impossibile, non intendiamo farlo qui ora. Ma è bene rendersi conto di come gran parte della difficoltà di dialogo risieda, nella maggior parte dei casi, in una profonda sfiducia reciproca, costruita su una profonda paura reciproca.
Così come una folla in preda al panico tende a calpestare chi si mette in mezzo pur di salvarsi, così entrambe le parti, nell’intento di proteggere le proprie paure e necessità , tendono a non curarsi di come questo impatti l’altra parte.
Alla base di tutta questa paura vi è del resto una forte ignoranza reciproca – e l’ignoranza favorisce proprio la paura. Israeliani e Palestinesi, in genere, non si parlano, non si conoscono e, peggio ancora, tante volte considerano l’instaurarsi di tali rapporti come “tradimenti” del proprio popolo. Per molti Palestinesi, l’Israeliano è sostanzialmente l’assassino oppressore sionista e basta. Per molti Israeliani, il Palestinese è sostanzialmente il terrorista pronto a sparare o farsi esplodere appena si girano le spalle. Difficile affrontare costruttivamente i problemi in questo clima.
4) Si può pensare (o sperare) che i leader attuali cerchino di invertire questa tendenza?
Il problema è che entrambe le parti attualmente sembrano poco interessate a riprendere il dialogo, che infatti è bloccato. Il nuovo governo Netanyahu si è sì liberato della “zavorra” dei partiti religiosi ultraortodossi, ma la sua maggioranza non ha la questione palestinese tra le sue priorità . Il focus politico israeliano rimane l’economia interna, le minacce esterne (Iran soprattutto, ma anche l’instabilità siriana, i rapporti con l’Egitto…) e il mantenimento di coesione interna.
Questi ultimi due punti sono la chiave della riluttanza israeliana ad affrontare la questione: la definizione di uno stato palestinese costringerebbe Gerusalemme ad affrontare forti contrasti con i coloni e con alcune parti influenti della comunità ultraortodossa, fino al livello di possibili scontri e violenze gravi. Si preferisce dunque mantenere lo status quo, che beneficia anche dell’attuale ridotta attività terroristica palestinese, pur di non dover affrontare seri scontri interni che spaccherebbero la società . La presenza di forti minacce internazionali contribuisce del resto a mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica verso altre priorità .
La risoluzione della questione palestinese del resto paga la progressiva scomparsa dalla scena della sinistra israeliana, tradizionalmente favorevole ad accordi, non tanto come numeri alla Knesset (il parlamento di Israele), quanto nel fatto di essere diventata oltremodo silenziosa e senza un leader carismatico alla guida. L’unico ministro interessato alla questione è Tzipi Livni, che ha proprio questa delega, ma senza l’appoggio del resto del governo ha poche carte da giocare.
5) Almeno i leader Palestinesi punteranno al dialogo… o no?
No. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) parte ovviamente da una posizione di maggiore debolezza politica, sia per la limitata autonomia (di terreno e di fondi, dipendente com’è da aiuti esteri), sia per le divisioni con Hamas, che ne mina la legittimità . Ha però anche perso fiducia nel processo negoziale, valutando che ormai solo un’azione unilaterale riconosciuta internazionalmente (come, ad esempio, una dichiarazione d’indipendenza) possa costituire la via per uno stato indipendente. Cosa che però non risolve i problemi sul campo sulla sua attuazione.
Il risultato è la ricerca della conciliazione con Hamas, per ottenere maggiore legittimità , e il rifiuto al dialogo con Israele senza un preventivo stop totale alle colonie. E quest’ultimo è proprio parte del problema, perché pone un muro contro muro dove entrambi i contendenti aspettano che sia l’altro a fare la prima mossa importante e, senza quella, non sono disposti nemmeno a iniziare a parlare. Così nessuno fa nulla, entrambi continuano ad attendere (invano) e per i mediatori non risulta possibile nemmeno cercare strade alternative.
In definitiva, attualmente sembra che trovare un accordo di pace sia una priorità del resto del mondo, USA in testa, più che di Israeliani e Palestinesi. Difficile quindi che qualcosa si muova, senza aver prima convinto entrambi che il dialogo può offrire di più di quanto hanno ora.
Lorenzo Nannetti