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La Libia tra caos e prospettive di elezioni

In 3 sorsiA distanza di anni dalla caduta di Gheddafi, il Paese nordafricano vive ancora l’orrore della guerra civile. Il piano di portare la Libia a elezioni entro la fine dell’anno appare difficilmente attuabile.

1. LA SITUAZIONE ATTUALE

Dalla rivolta del 2011, cui hanno fatto seguito l’intervento della NATO e la morte di Gheddafi, la Libia è sprofondata in un totale caos. Neanche gli accordi di Skhirat del 2015 hanno posto fine ai conflitti che si protraggono ormai da sette anni. Sebbene ufficialmente appoggiato dalle Nazioni Unite, il Governo di accordo nazionale (GAN) è infatti riconosciuto soltanto in parte della Tripolitania, mentre la parte orientale del Paese, la Cirenaica, è controllata dal Libyan National Army (LNA), guidato dal generale Haftar.
Il quadro attuale, tuttavia, non è caratterizzato da una “semplice” opposizione di due fazioni, ma è estremamente frammentato. Questo perché numerose tribù e milizie detengono il controllo di porzioni più o meno vaste del territorio libico. Per esempio, nel Fezzan, la regione sudoccidentale, convivono diversi gruppi tribali sui quali i due schieramenti principali esercitano scarsa autorità.
La peculiarità dello scenario libico è che tali tribù cercano di massimizzare la propria influenza sostenendo a volte una fazione, a volte l’altra, a volte nessuna delle due a seconda dell’immediato tornaconto. Generalmente le alleanze non sono stabili e durature. A complicare il quadro generale contribuiscono le interferenze dei vari attori internazionali, partendo da quelli regionali come l’Egitto (che appoggia le autorità della Cirenaica), che si contrappone a Turchia e Qatar, sostenitori di Serraj, fino a quelli europei. Fino al 2010 Gheddafi era riuscito a governare creando un equilibrio tra le innumerevoli realtà che popolano lo Stato nordafricano. Dopo la sua caduta, nella quale le potenze occidentali, Francia in primis, hanno avuto un ruolo fondamentale, nessuna autorità è stata in grado di ristabilire quell’equilibrio.

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Fig. 1 – Il presidente Faiez Mustafa Serraj all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite

2. LA CRISI VISTA DALL’EUROPA

La questione libica non può essere considerata una crisi locale. Al contrario, per via della sua prossimità geografica al vecchio continente, essa ci riguarda direttamente almeno per tre fondamentali ragioni connesse tra loro.
Primo, la minaccia terroristica. Nel corso del 2015 gruppi di combattenti dell’ISIS hanno occupato la città di Sirte e le aree circostanti. A differenza di come hanno operato in Siria, questi gruppi terroristici in Libia non si sono organizzati come uno “Stato”, ma si sono mescolati alle milizie locali per sfruttare al meglio il contrabbando delle risorse naturali, di cui la Libia è ricca, e il traffico di migranti. Proprio per questo motivo, il fatto che l’ISIS oggi non abbia più il diretto controllo di Sirte non significa che la minaccia terroristica sia scomparsa. I miliziani si sono infatti ritirati dalla costa verso l’entroterra del Fezzan (perlopiù nelle zone di confine con il Ciad e il Niger) che costituisce uno snodo fondamentale delle rotte dei migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana, ma anche del commercio di droghe e armi.
Secondo, la crisi migratoria. In un’economia dilaniata da anni di guerra civile il commercio di esseri umani verso l’Europa costituisce un fruttuoso business. Per i rappresentanti europei è complicato dialogare con istituzioni locali in grado di fermare definitivamente i flussi migratori illegali, poiché in Libia non esistono al momento autorità capaci di esercitare il potere sulla totalità del Paese. Soltanto nel 2017, con l’aggravarsi della crisi migratoria, il Governo italiano, tramite l’azione dell’allora ministro Minniti, è riuscito a concludere accordi con i “sindaci” delle tribù della Tripolitania per ridurre sensibilmente i flussi. È improbabile che tali accordi dureranno nel tempo, ma quanto meno il Governo italiano ha trovato una soluzione efficace nel breve periodo per contrastare un fenomeno che l’Unione Europea non è stata in grado di affrontare.
Terzo, lo sfruttamento delle risorse naturali. Nonostante la produzione di petrolio sia ripartita e abbia toccato il punto più alto dall’inizio degli scontri, lo scenario politico attuale continua a scoraggiare le multinazionali europee dell’energia dall’operare nel territorio libico. Gli annunci di chiusure temporanee di impianti per ragioni di sicurezza sono frequenti. Non più tardi di qualche settimana fa il sito di El Feel, dove opera ENI, è stato preso d’assalto da alcune milizie del Fezzan e quindi chiuso.

Fig. 2 – Migranti nel Mediterraneo cercano di raggiungere le coste italiane

3. ELEZIONI IN VISTA

Nel luglio 2017 Serraj e Haftar raggiunsero, dietro invito del neoeletto presidente Macron, un accordo per indire elezioni nel 2018. A tal fine è rivolto anche l’impegno dell’inviato speciale dell’ONU Salamé, il quale ha il compito di mediare tra le diverse fazioni e creare le premesse per un corretto svolgimento del processo democratico. A tale riguardo il 29 maggio scorso i rappresentanti di venti Paesi, tra cui quelli libici, si sono riuniti in Francia. Dall’incontro è emersa la volontà di tenere le elezioni il prossimo 10 dicembre. Tale proposito, tuttavia, deve far fronte a difficoltà di natura tecnica e politica.
Innanzitutto la Libia deve dotarsi di una legge elettorale e prevedere un framework istituzionale adeguato in Costituzione. Già a questo proposito trovare una convergenza tra le numerose parti interessate è tutt’altro che scontato. Senza un accordo su tali meccanismi, qualsiasi esito di eventuali elezioni porterebbe soltanto a nuove istituzioni con parziale autorità. Inoltre, non si deve sottovalutare la questione sicurezza: il recente attacco terroristico alla sede dell’Alta commissione elettorale è solo uno dei segnali di quanto sia arduo assicurare un regolare esercizio democratico in un clima da guerra civile.
In secondo luogo vi sono le difficoltà politiche. Un Governo centrale, come viene auspicato da Salamé, comporterebbe una riduzione del potere delle varie milizie non allineate ai principali schieramenti, le quali al momento sono favorite dall’assenza di autorità forti. Proprio per questo motivo il processo di riconciliazione nazionale e la convocazione delle elezioni non possono passare solamente da un accordo tra le figure predominanti, Sarraj e Haftar, ma devono necessariamente coinvolgere tutti gli attori locali. E una tale azione di mediazione sembra a oggi assai lontana.

Francesco Castorina

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Francesco Castorina
Francesco Castorina

Nato a Catania nel 1990, nutro da sempre una grande passione per la filosofia tedesca, in cui ho conseguito una laurea a Monaco di Baviera, e per le relazioni internazionali, che sto approfondendo adesso presso l’Università di Bologna. Durante i sei anni in cui ho studiato e lavorato in Germania ho guardato alla politica estera italiana dalla prospettiva dei nostri partner/competitor tedeschi e ho scoperto molti aspetti generalmente trascurati nel dibattito italiano. Per il Caffè scrivo sul Nord Africa e sui suoi rapporti con l’Italia.

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