In 3 sorsi – Impegnato nell’organizzazione della ventisettesima Conferenza annuale dell’ONU sul clima – la Cop27 di Sharm el-Sheikh – l’attenzione degli apparati di sicurezza egiziani verso la penisola del Sinai rimane alta. L’instabilità della regione, dovuta principalmente alle attività del ramo egiziano del cosiddetto Stato Islamico, preoccupa non poco il regime del Cairo, che cerca di combattere il fenomeno, con risultati modesti.
Leggi tutto: La lotta egiziana contro l’ISIS nel Sinai1. SINAI: L’ISIS NON È MAI MORTO
Militanti del cosiddetto Stato Islamico hanno ucciso domenica 6 novembre un ufficiale dell’esercito egiziano e tre membri di una milizia filogovernativa nel Nord Sinai che collabora attivamente insieme all’intelligence e alle forze di polizia del Cairo per contrastare la presenza islamista nella regione. Il colonnello Assem Mohamed Essameldin, a capo del celebre battaglione 103 delle Sa’ka Forces (Thunderbolt Forces) è morto per le gravi ferite riportate a seguito dell’esplosione di un ordigno IED (Improvised Esplosive Device) nel villaggio di Gelbana, vicino al Canale di Suez, a poco meno di 500 chilometri dal summit COP27 a Sharm el-Sheikh, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite che quest’anno fa tappa nella località turistica nel Sud del Sinai. Si tratta del terzo comandante del 103esimo Battaglione Thunderbolt a essere ucciso nella difficile regione del Sinai del Nord, dopo i colonnelli Ali Hassanein e Ahmed Mansi, caduti rispettivamente nel 2016 e nel 2017. Un duro colpo per il regime di Abdel Fattah al-Sisi, impegnato nel contenimento del gruppo terroristico nella penisola dell’Egitto orientale anche attraverso il coinvolgimento di milizie tribali locali in imboscate e raid contro i militanti Isis.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Militari egiziani portano la bara di un soldato, ucciso il giorno prima nella penisola del Sinai da un attacco dello Stato Islamico, Il Cairo, 8 luglio 2017
2. UNA REGIONE INSTABILE
Cerniera tra Africa e Asia e incastonato tra Mar Mediterraneo, Canale di Suez e confine israeliano, il Sinai vive una situazione di perenne instabilità dovuta alla presenza della branca egiziana dell’Isis, Wilayat Sinai (WS). Attivo prevalentemente nella parte settentrionale, WS ha sfruttato il vuoto di potere creato a seguito dell’ondata della Primavera Araba che nel 2011 ha portato alla deposizione di Hosni Mubarak. Attentati terroristici, imboscate ai soldati governativi, attacchi deliberati a civili e minoranze religiose, agguati alle tribù sospettate di collaborare con le forze di sicurezza egiziane: in questi anni l’Isis di stanza nella penisola orientale dell’Egitto ha impiegato tattiche già utilizzate in Siria e Iraq come il terrorismo urbano e la guerriglia per condurre la sua guerra asimmetrica contro il potere centrale, adesso incarnato dal regime di al-Sisi. Secondo alcune valutazioni di intelligence i membri del WS si aggirerebbero intorno a 1.500 unità, anche se l’esatta composizione del gruppo è sconosciuta, così come la sua struttura organizzativa. Tuttavia gli studiosi concordano sulla capacità dell’Isis di operare in modo molto efficace nel Paese, con una notevole potenzialità operativa e di coordinamento. Recentemente al-Sisi ha parlato di più di 3.500 morti dovuti agli attacchi terroristici da parte dei militanti islamisti, mentre nel 2017 WS ha rivendicato l’attacco più letale nella storia moderna dell’Egitto, quando una bomba in una moschea nel giorno della preghiera fece più di 300 morti.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Centinaia di morti dovute a un attacco terroristico nella moschea di Al-Arish, nel Nord Sinai, 24 novembre 2017
3. TRA REPRESSIONE E SVILUPPO: COME L’EGITTO CERCA DI COMBATTERE L’ISIS NEL NORD SINAI
La strategia egiziana per combattere le attività terroristiche del gruppo affiliato al cosiddetto Stato Islamico è duplice. Da un lato il Governo egiziano ha condotto sistematiche operazioni di repressione e contenimento del fenomeno, attraverso tattiche di controguerriglia iniziate con l’Operazione Eagle già nel 2011. Da allora le campagne militari del regime mirano a “sradicare i terroristi” e “proteggere la società egiziana dai mali del terrorismo ed estremismo”, secondo il linguaggio degli apparati statali. Nel 2018, dopo un attentato alla moschea al-Rawda, al-Sisi ha ordinato una vasta operazione che ha coinvolto forze navali, terrestri e aeree non solo nella Penisola del Sinai, ma anche nelle Valli del Delta e del Nilo e nel deserto occidentale, dispiegando una forza di 88 battaglioni e 42mila soldati. Una strategia di antiterrorismo che, oltre a gettare ombre sull’operato delle forze di sicurezze egiziane, accusate di uccisioni sommarie ed extragiudiziali, non ha portato ai risultati sperati. Le violenze indiscriminate perpetrate dai militari governativi anche contro chi era solo sospettato di connivenza coi militanti islamisti costituiscono un atto di vendetta che mal si concilia con la necessità di adottare una strategia di prevenzione di lungo periodo. Inoltre, come accaduto in Siria e in altre “nuove guerre”, la violenza settaria e indiscriminata utilizzata nelle operazioni antiterroristiche costituisce un terreno fertile per jihadisti e islamisti, i quali si nutrono del sentimento di rivalsa che inevitabilmente cresce a dismisura tra la popolazione. Per questo motivo, al-Sisi – accanto al mai abbandonato utilizzo dell’apparato repressivo – ha inaugurato un nuovo piano di investimenti economici e sociali da 31miliardi di dollari da attuare nella Penisola del Sinai, con l’obiettivo di attrarre nuovi residenti anche attraverso la creazione di nuove opportunità lavorative.
Vittorio Maccarrone
Immagine di copertina: Photo by Peggy_Marco is licensed under CC BY-NC-SA