In 3 sorsi – In meno di un mese, il nuovo Governo di Netanyahu ha dovuto fare i conti con le proteste della popolazione israeliana e la disapprovazione internazionale per le misure punitive adottate contro il popolo palestinese. Una forma di ritorsione contro la promozione palestinese a fronte di una risoluzione delle Nazioni Unite per chiedere l’opinione della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia in merito all’occupazione israeliana dei territori palestinesi.
1. IL NUOVO GOVERNO DI NETANYAHU
Le ultime elezioni israeliane, le quinte in meno di quattro anni, hanno visto il ritorno di Benjamin Netanyahu come Primo Ministro, dopo un anno di opposizione. La votazione ha avuto luogo il 1° novembre, con insediamento del nuovo Parlamento a due settimane di distanza, mentre il leader conservatore è riuscito a formare il nuovo Governo il 28 dicembre. Netanyahu, con i suoi 73 anni, ha già servito come capo di Governo dal 1996 al 1999 e dal 2009 al 2021, restando sempre in primo piano sulla scena politica israeliana per circa 30 anni. Questo esecutivo si differenzia dai precedenti di destra capeggiati dallo stesso Netanyahu per la conformazione della coalizione. Il partito nazionalista liberale Likud, guidato da Netanyahu, ha ottenuto 32 seggi sui 120 totali del Knesset, il Parlamento israeliano. Gli altri partiti entrati nella maggioranza sono i partiti ultra ortodossi Shas e Ebraismo della Torah Unito, con 18 seggi, seguiti dai partiti di estrema destra Partito Sionista Religioso, Otzma Yehudit e Noam, per altri 14 seggi. Si tratta del Governo più estremista che Israele abbia mai avuto dalla sua nascita. Il nuovo Ministro della Sicurezza Ben-Gvir, leader di Otzma Yehudit, era stato condannato in passato per incitamento al razzismo e al terrorismo. Il 4 gennaio ha avanzato la proposta per una nuova legge che aumenterebbe i poteri della polizia. C’è, inoltre, Maoz che ricopre l’unico seggio eletto del partito Noam e probabilmente assumerà anche una carica di vice per l’ufficio del Primo Ministro. Maoz è conosciuto per le sue posizioni anti-arabe e omofobe.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Il “nuovo” Primo Ministro Benjamin Netanyahu dopo il giuramento del Governo, Gerusalemme, 29 dicembre 2022
2. LE PROTESTE
Il nuovo Governo israeliano ha scatenato proteste sin da subito, con oltre 100mila dimostranti a Tel Aviv sabato 21 gennaio. Nel mirino dei contestatori si trova, in particolare, l’agenda del nuovo esecutivo che vorrebbe limitare i poteri della Corte Suprema, permettendo al Knesset di aggirare le sentenze di quest’ultima con una maggioranza semplice di 61 voti su 120. Chi si oppone a queste proposte di legge parla di minaccia alla democrazia e teme che Netanyahu possa cercare in questo modo di eludere le sue condanne pendenti per corruzione, frode e abuso di fiducia. La società civile palestinese esprime anche maggiore preoccupazione di fronte al nuovo esecutivo. Said Issawiy, venditore ambulante, già a novembre, poco dopo le elezioni, raccontava delle difficoltà incontrate per spostarsi da una città all’altra senza essere bloccato dalle Forze Armate israeliane. A Hébron, città occupata della Cisgiordania meridionale, si trova Tal Sagi, ex soldatessa israeliana e ora parte di Breaking the Silence. Racconta di aver lavorato a Hébron in una relazione di interdipendenza con i coloni israeliani, mentre ora intende restare nella città e opporsi all’occupazione insieme ad altri ex soldati israeliani che non condividono il lavoro del proprio Governo.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Proteste a Tel Aviv nei confronti del nuovo esecutivo, gennaio 2023
3. LA RISOLUZIONE DELL’ASSEMBLEA GENERALE E LE RIPERCUSSIONI SULLA PALESTINA
Il nuovo Governo intenderebbe aumentare il numero di coloni nei territori occupati e auspicherebbe una futura annessione della Cisgiordania. L’occupazione di quest’ultima da parte di Israele, nonchĂ© di Gerusalemme, della alture del Golan e di Gaza, risale alla Guerra dei sei giorni del 1967. Lo scorso dicembre, l’AutoritĂ Palestinese, insieme ad altri Stati membri dell’ONU, ha promosso una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per consultare la Corte Internazionale di Giustizia e determinare se ci siano “conseguenze legali che insorgono dalla continua violazione da parte d’Israele del diritto del popolo palestinese all’auto-determinazione” e se le misure israeliane “mirano ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status” della cittĂ di Gerusalemme. La risoluzione è stata approvata il 30 dicembre con 87 voti favorevoli, 26 contrari e 53 astenuti. Per rappresaglia, il 6 gennaio il Governo di Netanyahu ha annunciato una serie di sanzioni: il risarcimento delle vittime di “attacchi terroristici” palestinesi con parte delle tasse raccolte da Israele in nome dell’AP, per un totale di €37.325; la sospensione di attivitĂ di costruzione palestinesi in parte della Cisgiordania (Giudea e Samaria); la confisca della documentazione speciale (VIP travel cards) dei ministri dell’AP necessaria a oltrepassare i confini in maniera agevole. Il 16 gennaio oltre 90 Paesi, tra cui anche Stati membri che si erano astenuti al momento di votare per la risoluzione, hanno pubblicato una dichiarazione che esprime grande preoccupazione per le misure punitive adottate dal Governo israeliano. Per ora Netanyahu non ha fatto alcun passo indietro. L’opinione della Corte dell’Aia richiederĂ un’attesa di almeno un anno, in seguito all’ascolto delle parti in causa, nonchĂ© ONG e altri stati membri. Nel caso piĂą estremo, la Corte potrebbe etichettare l’occupazione perpetuata da Israele come un sistema di “apartheid”, un termine assente nella risoluzione di dicembre e che non è mai stato usato ufficialmente per definire il rapporto tra Israele e il popolo palestinese.
Alice Durì
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