Analisi – L’Europa deve dotarsi di una strategia di sicurezza economica nei confronti della Cina e sembra intenzionata a un approccio più morbido rispetto a quello degli Stati Uniti. È veramente così?
INTERDIPENDENZA ECONOMICA ASIMMETRICA: QUALI RISCHI?
La vulnerabilità delle catene di approvvigionamento globali, evidenziata dalla pandemia, e lo shock dell’invasione russa dell’Ucraina, con le conseguenze sugli approvvigionamenti energetici e alimentari, hanno cambiato la percezione mondiale della globalizzazione e messo in evidenza i rischi dell’eccessiva interdipendenza economica tra regioni del mondo politicamente non omogenee. In questo contesto di crisi si sono venuti accentuando in particolare i timori, già palesi o latenti, circa il rapporto dell’economia occidentale con la Cina, riassumibili in due grandi questioni: l’eccessiva dipendenza dal gigante asiatico quanto a forniture di materie prime e prodotti lavorati o semilavorati e i rischi legati agli investimenti europei in Cina in tecnologie sensibili in materia di sicurezza. Il primo punto riguarda soprattutto le forniture di semiconduttori, batterie e materie prime fondamentali per la loro produzione (terre rare, magnesio, litio): l’interdipendenza in questi settori è più che asimmetrica, l’Europa è pressoché completamente dipendente da Cina e pochissimi altri Paesi, dunque un riequilibrio costituisce una priorità strategica, soprattutto nel momento in cui le economie mondiali sono avviate verso la transizione energetica e digitale. Il secondo problema è legato alla possibilità che i capitali e le competenze occidentali siano utilizzate da Pechino, dietro lo schermo di attività commerciali e civili, per sviluppare o migliorare capacità militari e di intelligence: sono principalmente i nuovi settori della robotica avanzata, dell’informatica quantistica e dell’intelligenza artificiale che possono portare a sviluppare capacità e sistemi che mettano a rischio la sicurezza nazionale.
Priorità economiche e politiche si intrecciano, in un contesto in cui la Cina di Xi Jinping sembra rafforzare la gestione autocratica del potere internamente e lentamente ma inesorabilmente continua la propria proiezione politica esterna e gli USA sono impegnati negli sforzi tesi a mantenere il primato tanto economico-commerciale quanto tecnologico-militare, nell’intento di contrastare (o rimandare per quanto possibile) il power shift mondiale da Washington a Pechino.
I Paesi dell’Unione europea, appena usciti rinforzati dalla pandemia grazie all’innovativo piano di ripresa economica di Next Generation EU e però subito colpiti dal nuovo shock dell’invasione russa dell’Ucraina, sono chiamati a impostare a loro volta una strategia coerente nei rapporti con la Cina.
DIFFERENZE TRA LA STRATEGIA USA E GLI APPROCCI EUROPEI
A fronte della determinazione degli Stati Uniti, che dichiarano voler perseguire il disaccoppiamento (decoupling) della propria economia da quella cinese, i messaggi che arrivano dall’Europa sono per il momento più sfumati.
Particolarmente significativi (anche della mancanza di una posizione istituzionale unitaria) i viaggi a Pechino del mese scorso del Presidente francese Macron prima, accompagnato dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, e quindi della Ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock (il Cancelliere Scholz era già stato in visita a Pechino a novembre 2022). Tanto la Francia quanto la Germania hanno una posizione decisamente orientata dai rispettivi interessi commerciali (la Cina è il primo partner commerciale della Germania, con incrementi vertiginosi del totale di import ed export negli anni più recenti) e non sembrano affatto intenzionate a rinunciare alla collaborazione con il gigante asiatico, anche in vista delle enormi possibilità di mercato che la Cina potrà offrire nei prossimi anni: nelle delegazioni in visita non mancavano importanti rappresentanze dei settori industriali e finanziari dei due Paesi.
Von der Leyen, per contro, sta posizionando la Commissione su un approccio in parte diverso: più attento alle preoccupazioni di sicurezza e geopolitiche, ma non ignaro del diverso grado di forza dell’UE rispetto agli Stati Uniti. Anche perché l’Europa non si trova certo nella situazione di dover difendere un ruolo “imperiale”, come gli USA.
Già in un discorso pubblico il 30 marzo, la Presidente della Commissione aveva messo in fila alcuni punti, annunciando che l’UE introdurrà una nuova strategia di sicurezza economica per confrontarsi con quella che ha definito una relazione economica “non bilanciata”. Con enfasi particolare sugli investimenti che possano comportare lo sviluppo di capacità militari che mettano a rischio la sicurezza nazionale. Il termine usato costantemente, indizio di un’autentica volontà di imporre un’agenda (o perlomeno una parola d’ordine) politica autonoma rispetto a quella americana è de-risking (riduzione del rischio).
Certo, sarà importante vedere come la Cina agirà in relazione alla guerra in Ucraina, eventualmente pressando la Russia verso una possibile tregua, così come la concreta postura di Pechino nei confronti di Taiwan, ma comunque rispetto a uno sganciamento netto dalla Cina (ammesso che sia possibile, e probabilmente non lo è) la strategia enunciata da von der Leyen è piuttosto quella di individuare e limitare le situazioni di rischio, tanto a livello economico che dal punto di vista della sicurezza. Del resto, pur tenendo conto del riposizionamento già in atto da parte delle industrie europee quanto a catene di approvvigionamento delle forniture, la dipendenza dal gigante asiatico resta quasi totale e obbligata, almeno in tempi brevi, per alcune materie prime (vedi le terre rare); inoltre, l’enorme mercato cinese e le prospettive di crescita futura rappresentano un’opportunità troppo importante per l’esportazione manifatturiera di molti Paesi europei, Germania in testa, come detto. Non va infatti dimenticato che sebbene gli occhi dell’opinione pubblica e di molta parte della classe politica occidentale tendano a vedere esclusivamente o quasi la proiezione esterna della potenza economica cinese, lo stadio di sviluppo dell’economia del “Paese di mezzo” è attualmente in una fase di transizione, per cui il mercato interno sarà sempre più importante: dopo aver sollevato dalla povertà centinaia di milioni di persone e aver innalzato negli ultimi anni in maniera molto rapida il livello medio di benessere della propria popolazione, pur con tutte le disparità del caso e sugli orrori dei decenni passati, la società cinese sembra ora pronta per il passo successivo della crescita economica, ossia lo sviluppo del consumo interno. Da mercato del lavoro a basso costo per il resto del mondo ed esportatrice di materie prime rare, la Cina dispone ora di una base enorme di classe media o medio/bassa pronta ad assicurare dosi ingenti di consumi interni. Può sembrare un paradosso, ma un certo grado di autonomia è l’obiettivo anche della politica economica “duale” annunciata da Xi Jinping nel 2020, con l’obiettivo di aumentare la resilienza del Paese puntando proprio sui consumi interni, oltre che sullo sviluppo di capacità tecnologiche nazionali.
PERCORSI DIVERSI PER RAGGIUNGERE OBIETTIVI SIMILI
Riassumendo, l’intenzione della Commissione è quella di impostare una “dottrina” europea sui rapporti con la Cina che contemperi le esigenze dei Paesi membri con quelle della sicurezza geopolitica e della capacità di sviluppo economico. Una strategia di sicurezza economica che riequilibri un rapporto troppo sbilanciato a favore di Pechino, che non sia autolesionista privando gli europei di materie prime e prodotti fondamentali per la transizione green e digital prima del dovuto o intralciando l’accesso europeo al mercato interno cinese, che identifichi e isoli le tecnologie sensibili legate allo sviluppo di capacità militari e prevenga gli investimenti che possano mettere a rischio la sicurezza.
È ovvio che un disaccoppiamento completo dall’economia cinese è impossibile, ma questo vale anche per gli Stati Uniti, sebbene in misura diversa, tant’è che anche oltreoceano la parola d’ordine del decoupling è utilizzata sovente in maniera semplicistica o ideologica, allorché in origine era riferita a settori limitati. Di qui l’utilizzo europeo del termine, più soft e meno ideologico, de-risking. L’obiettivo finale è comunque quello di un elevato grado di sicurezza economica abbinato all’esclusione di ingerenze politiche e rischi per la sicurezza nazionale, ossia in termini strategici lo stesso del decoupling, al netto dell’esigenza statunitense del mantenimento della supremazia “imperiale” politico/militare.
In conclusione, sebbene la Cina possa essere considerata un rivale sistemico dell’UE, l’Unione europea è obiettivamente in una posizione diversa dagli USA, non tanto quanto a dimensioni dell’economia quanto a capacità politico/finanziaria di sostegno alla stessa, anche per le note incompiutezze istituzionali, in primis la necessità del consenso unanime o comunque maggioritario sulle decisioni, e per l’oggettiva divergenza di interessi tra Stati membri economicamente non omogenei. A complicare le cose, nonostante l’EU gestisca o coordini in modo diretto o indiretto la maggior parte delle politiche economiche, gli Stati membri mantengono la responsabilità della propria sicurezza nazionale.
Per tutte queste ragioni, non è fattibile né auspicabile sganciarsi completamente dalla Cina. Piuttosto, la forza dell’Europa non potendo esprimersi nei termini di aumenti illimitati degli investimenti o nell’imposizione di restrizioni commerciali, la stessa deve esplicarsi nella capacità di creare le condizioni per minimizzare i rischi di strumentalizzazione di vantaggi competitivi in settori specifici e monitorare e impedire compromissioni della sicurezza degli Stati membri. Come attuare questa strategia rappresenta una delle sfide più importanti per l’UE.
Paolo Pellegrini
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