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Iraq: la pericolosa via per l’emancipazione femminile

StorieIn Iraq una serie di omicidi ancora irrisolti a danno di donne conosciute a livello sociopolitico ha acceso un dibattito sullo status dell’emancipazione femminile nel Paese e sulla questione dei diritti di genere.

DIRITTI IN INVOLUZIONE?

Trattare della condizione femminile in Iraq è un argomento piuttosto complesso, considerando che la situazione delle donne nel Paese ha conosciuto e sta tutt’oggi subendo mutamenti non lineari. Chi scrive di donne in Iraq spesso ama ricordare come negli anni Settanta le donne irachene avessero un ruolo fondamentale nella società e forza lavoro del Paese, come godessero di numerosi diritti socio-economici e fossero, in particolar modo nelle città, estremamente istruite – tanto che alla fine del decennio l’Unesco premiò l’Iraq come il Paese dalla più alta crescita di alfabetizzazione femminile. La situazione è tuttavia cambiata sensibilmente durante gli anni della guerra Iraq-Iran (1980-1988) – per lo scoppio della quale Baghdad è stata in seguito punita con severissime sanzioni internazionali che hanno avuto un forte effetto a livello socio-economico, – così come dopo l’intervento americano e la caduta di Saddam Hussain nel 2003. Difatti, nonostante il sistema di quote rosa sancito dalla nuova Costituzione, corrispondenti al 25% dei seggi parlamentari, e malgrado i numerosi riferimenti retorici alla necessità di legittimare le donne espressi in ambito nazionale e internazionale, la precarissima situazione di sicurezza non ha certo costituito terreno fertile per l’emancipazione femminile.
La proclamazione del Califfato sul territorio iracheno nell’estate 2014 ha fatto completamente precipitare la situazione umanitaria: nei territori controllati da Da‘esh la popolazione femminile ha subìto indicibili violazioni dei propri diritti ed è stata sottoposta a un medioevale arretramento della propria condizione. Proprio a questo proposito è stato recentemente conferito il Premio Nobel per la Pace alla giovane yazida irachena Nadia Murad, che dopo essere stata imprigionata dai miliziani dello Stato Islamico in seguito alla presa di Sinjar e schiavizzata sessualmente, è oggi attivista per i diritti umani e ambasciatrice ONU (qui abbiamo approfondito la questione del genocidio degli yazidi). Durante la guerra al califfato, anche nei territori rimasti sotto il controllo di Baghdad lo status di estrema emergenza e pericolo ha portato a una generale involuzione delle condizioni di vita in Iraq. Inoltre, alcune tra le milizie sciite (Popular Mobilization Units- PMU) che hanno combattuto contro Da‘esh, arrivando così a controllare – almeno ufficiosamente – porzioni del territorio iracheno, si sono distinte per il loro conservatorismo in materia di emancipazione femminile.
Altro segnale negativo è arrivato nel novembre 2017, quando è stata presentata in Parlamento da alcuni partiti sciiti una proposta di emendamento della Legge nazionale sullo statuto personale: in caso di approvazione, questa avrebbe introdotto la giurisdizione dei tribunali religiosi in materia di matrimonio, divorzio e eredità. La proposta è stata rifiutata, ma la tematica è rimasta presente nel dibattito politico, cosa che ha destato preoccupazione: l’applicazione della legge di famiglia propria di ciascuna comunità al posto di quella nazionale determinerebbe in alcuni casi conseguenze catastrofiche sui diritti delle donne, come la possibilità di concedere in spose le bambine al raggiungimento dell’ottavo anno di età.
La sconfitta di IS alla fine del 2017 ha permesso lo svolgimento delle elezioni parlamentari nel maggio 2018: nonostante le diffamazioni a sfondo sessista cui sono state vittime alcune tra le donne in corsa per le elezioni, 2.592 – circa un terzo – dei candidati presentatisi era di sesso femminile. In seguito alla ratifica dei risultati, il 25,53% dei seggi parlamentari è stato assegnato a donne, così come previsto dalle quote, che tuttavia si applicano al solo Parlamento e non anche a livello ministeriale e giudiziario. La recentissima nomina dei ministri del nuovo Governo, infatti, è stata caratterizzata dall’assenza della componente femminile, come sottolineato da Jan Kubis, Rappresentante della missione ONU in Iraq (UNAMI).

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Fig. 1 –  Basra, 2003: due donne irachene camminano affianco a un soldato inglese e all’immagine di Saddam Hussain, in seguito alla sua caduta

GLI OMICIDI

Negli ultimi mesi il Paese è stato sconvolto dalle morti di alcune donne particolarmente in vista nella società irachena: in agosto sono state trovate decedute nelle rispettive abitazioni a distanza di una settimana, in circostanze poco chiare, Rafif al-Yasiri e Rasha al-Hassan. La prima – altresì conosciuta come la “Barbie” irachena – era un chirurgo plastico, si occupava di programmi di medicina femminile su scala nazionale anche a livello televisivo ed era celebre per il suo impegno a favore dei bambini con handicap di guerra. La seconda era a sua volta proprietaria di un salone di bellezza a Baghdad. Alla fine di settembre, Su‘ad Ali, attivista irachena per i diritti umani coinvolta nelle recenti proteste a Basra, nel Sud del Paese, è stata assassinata a colpi di pistola mentre si trovava in compagnia del marito. Di nuovo a Basra, a inizio ottobre, altre due donne sono state uccise: si trattava ancora una volta di un’attivista e di una proprietaria di un salone di bellezza.
Tuttavia la notizia che forse ha creato più scalpore a causa della sua forte carica mediatica è stata l’omicidio della blogger e modella Tara Fares, uccisa a colpi di pistola a Baghdad il 28 settembre mentre si trovava alla guida della propria auto. Minacce di morte hanno raggiunto anche Shaymaa Qasim Abdelrahman, Miss Iraq 2015, che ha dunque deciso di lasciare il Paese per tutelare la propria vita. A completare questa inquietante serie di omicidi e intimidazioni, il video apparso online del brutale omicidio di Hamoudi al-Mutairi, quattordicenne particolarmente attivo sui social media e trucidato a ottobre nelle strade di Baghdad perché accusato di omosessualità.
Le Autorità irachene sono state piuttosto caute nel pronunciarsi in merito a queste morti, in particolar modo per quanto riguarda quei casi che, a differenza dei casi di Su’ad Ali e Tara Fares, non si sono svolte come vere e proprie esecuzioni in luoghi pubblici. Tuttavia numerosi attivisti per i diritti umani hanno evidenziato la probabile esistenza di un legame tra i vari omicidi. Anche l’ex primo ministro Haider al-Abadi, ancora in carica all’epoca dei fatti in attesa della formazione del nuovo Governo, non ha escluso che ci possa essere una trama dietro questi crimini, e ha spronato l’allora ministro degli Interni e l’intelligence a investigare in questo senso.

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Fig. 2 – Donne irachene durante la campagna elettorale precedente le elezioni di maggio 2018

UNA LOTTA ALL’EMANCIPAZIONE

È innanzitutto necessario precisare come, a distanza di mesi, ancora non siano stati trovati responsabili per questi crimini, e ogni analisi riposi dunque sul livello della speculazione. Tuttavia è piuttosto evidente che le diverse vittime fossero donne distintesi per la propria indipendenza, il proprio carattere anticonformista, e il proprio attivismo in seno alla società irachena (e non).
In qualità del proprio sesso, delle proprie attività professionali e del proprio stile di vita, le vittime tendevano infatti a contrastare gli stereotipi della società locale e quella visione conservatrice che è tornata alla ribalta in Iraq alla luce degli ultimi eventi sociopolitici.
Se non è dunque ancora dato sapere se i vari omicidi siano tra loro legati nei fatti o meno, è tuttavia chiaro come la logica sottostante sia comune, e rimandi a un rifiuto per un’emancipazione della figura femminile a livello sociale, politico ed economico. Come dimostrato dalle parole di Shaymaa Qasim Abdelrahman o di altre personalità che hanno subito simili minacce, episodi come questi sono volutamente forieri di un clima intimidatorio, che generalmente porta le potenziali vittime a ripiegarsi su se stesse e dunque a non esporsi eccessivamente, al fine di evitare drammatiche conseguenze. Peraltro, se da un lato questi omicidi hanno destato grande indignazione nella società irachena così come in quella internazionale, dall’altro la morte di Tara Fares in particolare non ha mancato di destare anche commenti sgradevoli e legittimanti tali violenze – commenti, questi, che hanno sempre accompagnato la carriera social della giovane modella, la cui immagine contestualizzata nell’ambito iracheno è sempre stata percepita come particolarmente provocante.
Sebbene con le dovute cautele, anche l’omicidio del giovane Hamoudi può essere ricollegato a tale ragionamento, trattandosi di un ragazzino il cui aspetto, nonostante la giovanissima età, cozzava fortemente con gli stereotipi di genere diffusi in Iraq. Il fatto che il video che riprende gli ultimi attimi della sua vita sia stato condiviso sui social media alimenta il clima di paura e ben diffonde il messaggio sotteso a questa violenza. Non è peraltro la prima volta che in Iraq si verificano violenze contro giovani il cui look e stile di vita non corrisponde agli standard sociali: nel 2012 alcuni militanti sciiti si macchiarono degli omicidi di numerosi giovani che seguivano la moda “emo“.
In conclusione, la vittoria territoriale contro il Califfato non ci consente certo di dichiarare vinta la guerra contro l’estremismo in Iraq, che si manifesta in modalità differenti sul piano politico e su quello sociale, e riguarda senza eccezioni le varie componenti etnosettarie irachene.

Lorena Stella Martini

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Lorena Stella Martini

Nata a Milano nel 1993, scrivo di area MENA per il Caffè Geopolitico dal 2017. Ho conseguito una laurea triennale in Scienze Linguistiche per le relazioni internazionali, specializzandomi in lingua araba, un Master di I livello in Middle Eastern Studies e una laurea magistrale binazionale in Analyse Comparée des Sociétés Mediterranéennes tra l’Italia e il Marocco. Mi interesso in particolar modo di tematiche legate ai diritti umani, alle questioni di genere e ai movimenti sociali nella regione MENA.

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