Caffè ristretto – Il 3 luglio l’esercito israeliano ha attaccato il campo profughi di Jenin per “un’operazione antiterrorismo”. Ritenuta la più grande incursione su larga scala in Cisgiordania da almeno vent’anni, ha causato dodici morti e centinaia di feriti, mentre circa tremila palestinesi sono stati obbligati a lasciare le proprie case.
Leggi tutto: 48 ore a Jenin“Poco dopo Giordania, Iraq e Siria mandarono qualche tenda e a Jenin sorse un campo profughi, dalle cui colline gli abitanti di ‘Ain Hod potevano guardare verso le case a cui non sarebbero mai tornati”.
Le parole di Susan Abulhawa, autrice di “Ogni mattina a Jenin” (2011, Feltrinelli), risuonano, oggi, dopo settant’anni, più forti che mai.
Il 3 luglio circa un migliaio di soldati israeliani sono entrati nel campo profughi di Jenin, accompagnati da ruspe, droni, mezzi corazzati ed elicotteri, per compiere un “ampio sforzo antiterrorismo”, come affermano le Forze di Difesa Israeliane (IDF). Secondo Tel Aviv il campo profughi ospiterebbe depositi di armi, centri di osservazione e ricognizione, e abitazioni di milizie armate, spesso artefici dei razzi e degli attentati contro lo Stato ebraico. Colpire il “rifugio dei terroristi”, l’obiettivo ufficiale dell’attacco, considerato la più grande operazione su larga scala in Cisgiordania da almeno vent’anni. L’incursione è durata fino alla mattina del 5 luglio, causando la morte di dodici palestinesi e di un soldato israeliano, e ferendo un centinaio di palestinesi, mentre circa 3mila abitanti del campo profughi sono stati costretti a fuggire. I militari israeliani hanno distrutto strade, macchine, abitazioni e parti del sistema di approvvigionamento idrico ed elettrico, lasciando il campo senza corrente e collegamento internet. Anche la moschea Tawalbeh, situata al centro del campo, ha subito diversi danni a causa dei bombardamenti, mentre i soldati sostengono che ci fossero nascosti armi ed esplosivi.
Il portavoce del Presidente palestinese Abu Mazen, Nabil Abu Rudeinah, ha definito l’incursione “Un nuovo crimine di guerra”, e invitato la comunità internazionale a rompere il silenzio. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha condannato l’uso eccessivo della forza da parte dei soldati israeliani, così come l’Iran, l’Egitto, la Giordania e la Lega Araba.
Nel mentre, il 4 luglio, un’auto si è scagliata contro la folla a Tel Aviv, ferendo otto persone. Il guidatore, un giovane palestinese, è poi stato ucciso. L’attentato è stato acclamato dal portavoce di Hamas, Hazem Qassem, come un eroico attacco in risposta “ai crimini contro il nostro popolo a Jenin”. L’Unione Europea ha espresso preoccupazione per la “escalation di violenza in corso” nei due territori, dove gli scontri si erano già intensificati durante il Ramadan e la Pasqua ebraica, per poi proseguire in occasione della Nakba palestinese (maggio 2023). Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, il 2022 è stato l’anno con più vittime palestinesi in Cisgiordania dal 2005.
Da gennaio a maggio 2023, 112 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano nella regione, il doppio rispetto allo stesso periodo del 2022. E nulla fa pensare che le cose cambieranno.
Elena Rebecca Cerri
Immagine di copertina: Photo by hosnysalah is licensed under CC BY-NC-SA