In 3 sorsi – L’approccio che tradizionalmente il Governo turco ha assunto nei confronti dei diritti dei lavoratori – in particolare l’associazionismo sindacale – continua a preoccupare la popolazione e gli osservatori esterni. L’attenzione alla quale è soggetta la contrattazione collettiva pone non poche domande su quali possano essere le prospettive del ruolo dei lavoratori in Turchia.
1. BREVE STORIA DEL SINDACALISMO TURCO
Con la nascita della Repubblica nel 1923, la Turchia ha vissuto un periodo di profonda industrializzazione, accompagnata da confische e nazionalizzazioni a opera del nuovo Stato kemalista. In questo contesto, cominciò a nascere una prima classe operaia frammentata e circostanziata nei principali snodi industriali del paese.
Dopo la Seconda guerra mondiale, con l’avvento della liberalizzazione e il riconoscimento del diritto di associazione sindacale, nacque la prima federazione sindacale turca con il nome Türk-Iş.
In realtĂ la federazione – ancora oggi la piĂą importante sul territorio nazionale – era stata concepita come strumento della politica estera statunitense, – e quindi anche da parte del Governo di Ankara – per inquadrare e tenere a debita distanza la classe operaia dall’influenza sovietica.
Controllare l’associazionismo sindacale è stata quindi una preoccupazione che ha accompagnato la Repubblica dalla sua nascita fino a oggi, con cicli di liberalizzazioni e conseguenti strette repressive (come, ad esempio, quella successiva al golpe militare del 1980, fortemente antisocialista).
Oggi ci sono due nuove realtà sindacali che hanno raggiunto un buon seguito e che – a differenza della prima – sono formalmente più distanti dalle politiche liberali del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), che fa capo a Erdogan: da un lato, il DISK, la Federazione dei Sindacati Rivoluzionari, di matrice socialista; dall’altro, la Hak-Is, la Federazione Sindacale Islamica. A ogni modo, entrambe sembrano incapaci di raggiungere obiettivi concreti tramite le dinamiche istituzionali all’interno della Turchia, Stato definito nel 2016 dalla Confederazione sindacale internazionale (CSI) come uno dei dieci peggiori Paesi per i lavoratori.
Fig. 1 – Alcuni sindacati si riuniscono in Ataturk Boulevard per marciare verso il parco Sarachane durante il giorno dei lavoratori, 1° maggio, Istanbul, Turchia
2. I LAVORATORI TRA LA SINISTRA E IL CONSERVATORISMO RELIGIOSO
La rapidità del processo di industrializzazione – simile a esperienze di altri Paesi in contesti post-coloniali – ha innescato un altrettanto rapido e improvviso processo di urbanizzazione della società turca ancora in atto.
Negli ultimi trent’anni, ad esempio, il centro di Kocaeli ha visto una crescita demografica superiore al 100%, proveniente prevalentemente dall’Anatolia centrale, piĂą religiosa e conservatrice. Uno studio nell’area ha dimostrato come tale immigrazione abbia contribuito a sostituire il senso di appartenenza della classe operaia, in passato riconoscente e ferma sostenitrice del sindacalismo di sinistra (DISK). Infatti, le nuove generazioni – immemori delle conquiste che le hanno precedute – si sono viste unite da un nuovo minimo comune denominatore: l’Islam. Queste ultime non avevano vissuto i periodi dei grandi scioperi della primavera del 1989 o della marcia dei minatori di Zonguldak del 1991, i quali hanno – seppur temporaneamente – posto termine al decennale abbassamento dei salari reali, favorito l’ascesa politica della sinistra e ridotto la durezza con la quale il Governo reprimeva i raduni pubblici. Tali obiettivi furono raggiunti grazie all’ottenimento della rivalutazione della contrattazione collettiva opposta alla politica autoritaria e neoliberale dell’esecutivo. Tuttavia, seppur storica, la vittoria dei lavoratori non andò oltre la protezione dei singoli, fallendo nell’instaurare un processo culturale oltre che politico di confronto istituzionale a lungo termine.
Pertanto, nella visione dei nuovi lavoratori, le tarikat (sette islamiche) sono più capaci di rispondere alle loro esigenze, mentre i sindacati erano stati utili a un mondo che non gli appartiene più. Tali ambienti permettono difatti ai lavoratori di ottenere agevolazioni e stringere rapporti di convenienza: in questo modo l’appartenenza o meno a un sindacato è diventata con il tempo una scelta più “pragmatica” e meno ideologica.
Fig. 2 – Lavoratori mandati a casa da Sinter Metals continuano la loro protesta fuori la fabbrica in Umraniye, febbraio 2019, Istanbul, Turchia
3. LA CONDIZIONE DEI SINDACATI OGGI
Nei primi anni del nuovo millennio, in seguito al processo di adesione della Turchia all’Unione Europea, il Paese aveva cominciato un dialogo per allinearsi ai criteri di Copenaghen. Nonostante questo, gli sforzi del Governo sono stati ritenuti a più riprese insufficienti (con qualche eccezione) e le critiche di Bruxelles – che richiamano le considerazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro – riguardano la tutela del diritto di associazione, il diritto di sciopero, nonché l’efficacia e la correttezza del dialogo sociale tripartito.
Le criticità relative alla libertà sindacale sono evidenti nella legge sui sindacati e sui CCN del 2012, portata all’attenzione dell’OIL (le cui Convenzioni sono state ratificate dal governo turco), in quanto questa non prevede, nel caso di licenziamento per rappresaglia dovuto all’affiliazione sindacale del lavoratore, l’obbligo di reintegrazione.
Le tre Federazioni nazionali, filo-europeiste, non sembrano avere la capacità di instaurare un dialogo proficuo con Ankara a causa della delegittimazione – istituzionale e culturale – alla quale sono state soggette nel tempo: nel 1987, i lavoratori coperti da contrattazione collettiva superavano il 28%, ma in venticinque anni il numero si è abbassato di venti punti percentuali, per poi ottenere negli ultimi anni un leggero aumento.
Bruno Bevilacqua
Immagine di copertina: “Waiting” by Lepantho is licensed under CC BY-ND