Caffè Americano – All’indomani dell’attacco con drone alla base militare USA in Giordania dello scorso 28 gennaio, che ha causato 3 morti e 40 feriti tra i soldati statunitensi, Biden si trova davanti alla difficile scelta su come rispondere.
Non reagire è impensabile, sia da un punto di vista di credibilità internazionale, sia per questioni di opportunità elettorali interne. Tuttavia, come rispondere è tutt’altro che scontato, proprio per le implicazioni su entrambi i fronti, estero e domestico.
Sul fronte estero, infatti, reagire significa mandare un segnale sufficientemente deciso da indurre una diminuzione degli attacchi ai danni delle basi USA con il rischio di inasprire la crisi, suscitando le controreazioni di Paesi vicini (Iran su tutti), già ostili. Sul piano interno, invece, la scelta di una possibile reazione è condizionata dalle esigenze elettorali, che richiedono a Biden di mantenersi in equilibrio tra critiche dei rivali repubblicani e il consenso democratico.
Nello specifico, per quanto riguarda il fronte estero, l’urgenza di reagire è particolarmente elevata, considerati i costanti attacchi (oltre 150) da parte di milizie filo-Iraniane, presumibilmente in solidarietà verso Hamas, contro le basi statunitensi nella regione, di cui la recente offensiva del 28 gennaio costituisce quindi solo il culmine. Di contro, una possibile contromossa deve essere bilanciata con l’impegno militare USA già attivo nell’area, con incursioni ai rifornimenti di armamenti iraniani in Siria e Iraq, e ulteriormente incrementato con la campagna di assalti mirati contro la fazione degli Houthi in Yemen.
Dunque, le principali preoccupazioni in questo caso comprendono il rischio di estendere eccessivamente lo sforzo militare in Medio Oriente e soprattutto di causare potenziali allargamenti ed escalation della tensione. Quest’ultima circostanza si riferisce ovviamente all’Iran, considerato a supporto dell’attacco in Giordania e della maggior parte delle milizie ostili agli USA, contro cui gli Stati Uniti devono costantemente confrontarsi nella regione, in un delicato equilibrio tra prove di forza e distensioni diplomatiche.
Sul piano interno la questione è appunto inevitabilmente influenzata dalla campagna elettorale per la Presidenza. Biden è indubbiamente costretto a soppesare le sue decisioni in funzione dell’avvicinarsi delle elezioni, alla ricerca di un consenso sempre meno convinto.
L’establishment repubblicano ha colto l’occasione per criticare ferocemente Biden per la mancata prontezza nel reagire rapidamente contro l’Iran, richiedendo una reazione immediata e forte. A sua volta, Trump ha incolpato la “debolezza e arrendevolezza” di Biden nei confronti dell’Iran, atteggiamento che avrebbe portato a questa tragica conseguenza. La base democratica, invece, già fortemente critica della gestione da parte dell’Amministrazione Biden della crisi nella Striscia di Gaza, difficilmente approverebbe azioni che allargherebbero gli effetti del conflitto.
Un ultimo interessante elemento di considerazione riguarda la dinamica in sé dell’attacco. Sebbene sia ancora sotto investigazione USA, le prime analisi suggerirebbero che il drone nemico sia riuscito a superare le difese della base statunitense agganciandosi a un drone alleato di rientro alla base. Da questa prima tesi emergono dunque due implicazioni, fondamentali per le potenziali contromosse: in primo luogo questa metodologia di assalto significherebbe che i droni USA siano stati pilotati con pattern prevedibili e imitabili, evidenziando una falla rilevante nelle tecniche di difesa nella regione; in secondo luogo, la capacità di sfruttare un’informazione del genere da parte delle linee nemiche farebbe supporre la presenza di signal intelligence avanzata, e quindi la presenza di un supporto governativo.
Daria Vernon De Mars