In 3 sorsi – Breve viaggio nel mondo dei permessi per l’utilizzo delle risorse idriche nell’Africa sub-sahariana: un sistema che riflette ancora oggi leggi risalenti al periodo coloniale, alimentando le disuguaglianze e minacciando la sicurezza alimentare di intere popolazioni.
1. PERMESSI PER L’UTILIZZO DELL’ACQUA
Negli anni Novanta gran parte dei Paesi dell’Africa sub-sahariana implementò una serie di norme volte a regolamentare l’utilizzo delle risorse idriche, affidandone la gestione esclusiva ai Governi nazionali. I permessi sono autorizzazioni emanate dalla competente Autorità statale dietro il pagamento di un’imposta, necessarie per poter estrarre e utilizzare l’acqua. Al di sotto di una certa soglia di utilizzo, tale autorizzazione non è necessaria − ad esempio chi attinge acqua per usi domestici è esentato dal dover richiedere un permesso. L’obiettivo di queste regolamentazioni è duplice: assicurare un utilizzo equo e sostenibile dell’acqua nell’interesse collettivo e creare una struttura organizzativa che permetta allo Stato di ottenere una rendita per l’utilizzo delle proprie risorse idriche. Tali norme in materia di acqua sono tutt’altro che nuove. Vennero infatti introdotte per la prima volta dalle potenze coloniali negli anni Venti, con lo scopo di sostenere e tutelare economicamente la minoranza dei coloni, rilasciando permessi per l’utilizzo dell’acqua solo ai farmer bianchi.
Fig. 1 – Nigeria, prove tecniche per l’utilizzo di una pompa per l’acqua
2. UN SISTEMA PROGETTATO PER FALLIRE
Posto dunque che permessi ed esenzioni sono gli unici strumenti nelle mani della popolazione per poter accedere legalmente alle risorse idriche, ottenere un permesso non è affatto semplice. I contadini e le piccole aziende che devono esibire un permesso per utilizzare l’acqua (perché al di sopra della soglia minima) non solo devono sostenere il costo dell’autorizzazione, ma devono anche fare i conti con inefficienze e lungaggini burocratiche. Un esempio di un caso-Paese può rendere meglio l’idea della criticità della situazione: in Zimbabwe nel 2000 i permessi erano 9.711, la maggioranza dei quali risalenti al periodo coloniale, quando la gestione delle risorse idriche era nelle mani dei coloni bianchi. Nel 2016 il numero dei permessi si è di poco alzato, raggiungendo quota 10.799. A ciò si aggiunge la completa mancanza di informazione e sensibilizzazione nella popolazione africana. Molti non sanno di dover richiedere un permesso statale per utilizzare l’acqua. Altri non capiscono la necessità di un permesso che autorizzi a usare una risorsa che essi ritengono un proprio diritto. Questi si rifanno infatti al diritto consuetudinario africano in materia di acqua, esistente da tempi immemorabili, che ai loro occhi ha molta più legittimità delle leggi contemporanee che impediscono loro di utilizzare liberamente un bene pubblico e che quindi, come tale, non può essere regolamentato.
Fig. 2 – Coltivazione di riso in Mozambico. Le grandi aziende agricole risultato di investimenti cinesi sono numerosissime
3. UN SISTEMA A VANTAGGIO DELLE GRANDI AZIENDE
Secondo uno studio dell’International Water Management Institute (IWMI) il sistema attuale ha fallito nel raggiungere gli obiettivi che si era preposto, perché è stato ideato e implementato senza tenere conto della realtà rurale africana. Essa è composta infatti dall’ampia fetta della popolazione che si sostiene tramite l’agricoltura su piccola scala: si tratta per lo più di piccoli produttori o di famiglie. Se una volta il sistema dei permessi finiva per avvantaggiare i coloni bianchi, oggi favorisce certamente le grandi aziende agricole, che possono facilmente permettersi di pagare il costo del permesso e hanno gli strumenti per fare pressione sulle Autorità. Tra l’altro sono proprie queste grandi aziende agricole e minerarie ad avere il maggior impatto ambientale sull’ecosistema acquatico, minacciando la sicurezza alimentare e lo sviluppo di milioni di persone.
Valentina Rizzo