Analisi – Tra i tanti aggiustamenti annunciati da Bolsonaro c’è anche il rimescolamento delle funzioni di più Ministeri, nonché le nuove politiche ambientali. Non mancano le polemiche.
NUOVA STRUTTURA DEL GOVERNO FEDERALE
Con una misura provvisoria divulgata nella notte del Primo gennaio, Bolsonaro ha comunicato ufficialmente la nuova struttura del Governo federale. Nel programma, una serie di modifiche che riguardano soprattutto il Ministério da Agricultura, Pecuária e Abastecimento (MAPA) e il Ministério do Meio Ambiente (MMA). Nel primo caso l’elemento che più fa discutere riguarda l’identificazione, delimitazione e demarcazione delle terre indigene, incarico che verrà assegnato al MAPA. Sino ad ora tale funzione competeva alla Fundação Nacional do Índio (FUNAI), prima subordinata al Ministério da Justiça, ma adesso in passaggio al Ministério da Mulher, da Família e dos Direitos Humanos. Nel secondo caso il MMA ha visto sottrarsi il Servicio Forestal Brasileño (SFB) – che gestisce i boschi nel suolo pubblico – e l’Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária (INCRA) – che si occupa del catasto e dell’amministrazione dei terreni pubblici a beneficio dell’ambiente. Entrambi andranno sotto la dipendenza del MAPA, mentre l’Agência Nacional de Águas (ANA) passerà al Ministério do Desenvolvimento Regional.
Nonostante il rimpasto, secondo il nuovo ministro dell’Ambiente, Ricardo de Aquino Salles, l’area ambientale, pur cedendo diverse responsabilità al MAPA, non ha perso il suo protagonismo. Questo perché la protezione delle risorse naturali della selva rimarrà in ogni caso sotto la supervisione del MMA. Anche Bolsonaro, il giorno del proprio insediamento, ha reso nota l’intenzione di continuare a dare al settore agricolo una certa rilevanza appoggiando i produttori rurali, ma sempre in perfetta armonia con la preservazione ambientale. Eppure, stando alle dichiarazioni durante la campagna elettorale e nei primi giorni di insediamento, sembra che le intenzioni del Governo vadano da tutt’altra parte. Cerchiamo di capire verso quale direzione.
Fig. 1 – Bolsonaro il giorno dell’insediamento
I PROPOSITI DI BOLSONARO RISPETTO ALL’AMBIENTE
Come menzionato prima l’idea di Bolsonaro è preservare l’ambiente senza che il settore agricolo sia compromesso. Quest’ultimo continuerà ad avere un ruolo importante in termini di produttività ed efficienza. L’uso del terreno può essere sfruttato in maniera razionale, pagando delle royalties ai proprietari indigeni, integrandoli peraltro nella società. Il tutto effettuato con meno burocrazia e forme di deregulation, secondo il nuovo Presidente. Al tal proposito, durante la campagna elettorale nella città di Porto Velho, Bolsonaro ha sostenuto che i territori posseduti dagli indigeni, così come le aree protette, i parchi nazionali e le riserve ecologiche sono un impedimento allo sviluppo. Per esempio, ad oggi, realizzare una centrale idroelettrica è quasi impossibile, tanto più se viene rallentata dalla continua fiscalizzazione degli istituti ICMBio e IBAMA – che si occupano di infrazioni ambientali. Ciò pregiudica gli investitori, i quali «devono affrontare barriere quasi invalicabili per ottenere licenze ambientali, che possono superare anche 10 anni». Bolsonaro propone di affievolire i termini per un’attesa di massimo 3 mesi, arrestando «l’industria di multe» nel Paese. Qualcosa in questo senso già si è mosso, infatti il nuovo ministro dell’Ambiente ha da poco designato i nuovi Presidenti dell’ICMBio e dell’IBAMA, rispettivamente Adalberto Eberhard e Eduardo Bim. Quest’ultimo per l’appunto ha comunicato quali saranno le innovazioni all’interno dell’Istituto, tra cui la possibilità di avere la licenza ambientale attraverso una auto-dichiarazione inserita su un sistema elettronico. «Il procedimento attuale è precario ed artigianale, va snellito» e «chi falsificherà i documenti – assicura Bim, – verrà punito». Aggiungendo, poi, che in Brasile è necessario costruire una cultura basata sulla fiducia. Dichiarazione ribadita da Salles.
In tutto ciò non bisogna dimenticare l’intenzione di Bolsonaro, annunciata durante la compagna elettorale, di uscire dall’Accordo di Parigi, ovvero il trattato internazionale adottato nel 2015 da 195 Stati che prevede una riduzione delle emissioni dei gas serra per mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°, cercando di limitarlo a 1,5°C. Viste le polemiche, ha poi ritirato la sua dichiarazione, asserendo che uscirà dall’accordo solo qualora limiterà l’esercizio sulla sovranità e controllo del territorio. Lo stesso vale per le ONG, come GreenPeace e WWF, viste dal Presidente come un ostacolo allo sviluppo produttivo e a una modernizzazione del settore agricolo. Come espresso nei tanti suoi discorsi, Bolsonaro vuol rendere il Brasile uno dei maggiori Paesi esportatori nel settore agro-pastorale, soprattutto grazie all’aiuto dei privati. E per raggiungere questo obiettivo, una delle misure che proposte sarà liberalizzare la produzione agricola nelle terre indigene dell’Amazzonia, per coltivazioni e allevamenti. Tutto ciò spaventa la sfera ambientalista, che teme soprattutto per il futuro della selva amazzonica, in termini di rispetto e protezione.
Fig. 2 – Un’immagine della deforestazione nella selva amazzonica
LA DEFORESTAZIONE NELL’AMAZZONIA
Riconosciuta come Patrimonio dell’umanità dalle Nazioni Unite, l’Amazzonia raccoglie una delle maggiori biodiversità del mondo e gioca un ruolo chiave nell’equilibrio climatico globale. Il 60% della selva amazzonica si trova all’interno del Brasile, con 36 milioni di ettari abbattuti negli ultimi tre decenni, secondo i dati di MapBiomas. A partire dal 1970, a causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime, si iniziò a deforestare l’Amazzonia sistematicamente, con controlli deboli o nulli e multe che raramente venivano pagate. Prendendo il 1970 come valore 100, nel 1990 si stima il 9,6% di selva il meno, nel 2000 il 14% e per il 2017 il 19,1%. Quindi, in definitiva, dal 1970 si son persi 786.935 chilometri quadrati di foresta (pari all’area della Germania), principalmente per colpa delle attività minerarie, agricole e di allevamento. Stando ai dati raccolti dal Sistema de Estimativas de Emissões e Remoções de Gases de Efeito Estufa (SEEG) il settore agricolo è uno dei principali responsabili non solo della deforestazione, ma anche delle emissioni di gas serra e quindi del cambiamento climatico. L’industria agricola, responsabile del 23,5% del PIL brasiliano, ha generato solo nel 2017 il 71% delle emissioni adesso presenti. La domanda di soia, uno dei principali prodotti del Paese, in seguito alla guerra commerciale tra USA e Cina è in crescita. Lo stesso vale per le carni bovine, allertando organizzazioni come GreenPeace, che reputano, stando al report Devorando la Amazonia, le coltivazioni di soia e gli allevamenti la principale causa di deforestazione in Amazzonia. Non sono solo questi due fattori a contribuire al disboscamento: occorre menzionare anche la continua costruzione di strade e dighe, nonché l’esportazione di ricchezze naturali quali legno, bauxite, oro, ferro e minerali vari. Riportiamo qui ulteriori dati sulla deforestazione nelle diverse regioni del Brasile e le emissioni di CO2 dal 2001 fino al 2017.
Fig. 3 – Il popolo indigeno Waiapi dell’Amazzonia
LA FUNAI E LE CONSEGUENZE PER GLI INDIGENI
Oltre ai rischi che comporta per il cambiamento climatico, la deforestazione è un fattore nocivo anche per i popoli indigeni che abitano quelle terre vittime di disboscamento. Secondo la FUNAI attualmente esistono 462 terre indigene regolarizzate in tutto il Paese. Queste aree totalizzano 1 milione di chilometri quadrati ed equivalgono al 12,2% del territorio nazionale. Poco più del 50% di queste aree sono situate nell’Amazzonia (54%). La popolazione autoctona e il suo diritto di appartenenza alla terra sono garantiti dall’art. n. 231 della Costituzione brasiliana, facoltà che viene costantemente intaccata dallo sfruttamento forestale, minerario e agro-pastorale. Secondo la rivista ambientale Mongabay le nuove politiche di Bolsonaro collidono con il principio di autodeterminazione dei popoli indigeni, intaccando le loro identità a partire dalle terre che tradizionalmente abitano. Dopo i vari trasferimenti effettuati a livello ministeriale, la FUNAI è stata lasciata quasi scevra di competenze. Fondata nel 1967, per promuovere e proteggere i diritti di più di 300 popoli indigeni del Brasile, da 20 anni si occupava di identificazione, delimitazione e demarcazione delle terre indigene – incarico passato ormai al MAPA. Attuava inoltre politiche di sviluppo sostenibile per i popoli nativi e il monitoraggio dell’impatto ambientale sui loro territori. Difatti, una delle principali attività della Fondazione era far sì che il concetto di terra, secondo il principio indigeno, non si confondesse con quello di proprietà privata, ma rimanesse legato agli usi e costumi tipici della loro tradizione ancestrale. Ora, questi elementi sono messi in discussione dalla logica sovranista e di espansione produttiva del nuovo Governo. Togliendo queste responsabilità alla FUNAI, si teme che il ritmo della deforestazione aumenti e che conseguentemente la qualità di vita delle popolazioni indigene si riduca. Stando ad uno studio portato avanti dalla University of Queensland, lo stile di vita dei popoli indigeni sulle terre dell’Amazzonia risulta fondamentale per rallentare il cambiamento climatico. Senza contare che preservare le aree protette riduce il numero di violenze e morti per salvaguardarle. Secondo il report Defenders of the Earth nel 2016 c’è stato il maggior numero di morti (200) in difesa delle terre ostaggio delle industrie minerarie e agro-pastorali. Col Governo di Bolsonaro si teme che il numero possa aumentare drasticamente.
Fig. 4 – Ambientalisti contro lo sfruttamento dell’Amazzonia
I TIMORI DEGLI AMBIENTALISTI
L’Observatorio do Clima è l’ente che più si è accanito contro le politiche di Bolsonaro. La decisione di trasferire diverse responsabilità ambientali sotto la supervisione e la dirigenza del MAPA è stata altamente criticata. Infatti sottomettere il patrimonio amazzonico all’agenda agricola con un’ottica puramente economica e agro-esportatrice potrà compromettere e pregiudicare l’intero eco-sistema del Paese a lungo termine. Chi ne trarrà profitto saranno solo alcuni rappresentanti del Frente Parlamentar da Agropecuária (FPA) – del quale la nuova ministra del MAPA, Tereza Cristina da Costa, è a capo – e gli investitori privati nel settore agricolo, i quali potranno accedere più facilmente alle terre dell’Amazzonia. L’Observatorio do Clima smentisce inoltre la citazione di Bolsonaro riguardo alla «industria di multe nel Paese». Secondo i dati riportati nel sup sito web, IBAMA mediamente applica 3 miliardi di reals in multe all’anno, mantenendo lo stesso valore da circa un decennio. Ma appena il 5% di questo ammontare è affettivamente pagato. Un’altra preoccupazione dell’ente riguarda i finanziamenti ricevuti da Istituzioni estere che aderiscono ai principi della salvaguardia ambientale, come The Equator Principles o l’International Finance Corporation. Un aumento della deforestazione e conseguentemente della violenza nelle terre indigene, potrebbe causare l’uscita dagli accordi commerciali di alcuni Paesi e imporre barriere non tariffarie.
Suscita scalpore la scelta dei Ministri del MMA e del MAPA. Nel primo caso, Salles, avvocato, è uno dei creatori del Movimento Endireita Brasil (MEB) – che raggruppa avvocati e imprenditori a favore del libero mercato, proprietà privata e Stato minimo. È stato anche direttore della Sociedade Rural Brasileira (SRB), entità perennemente in conflitto con la sfera ambientalista a causa dei propri interessi agro-pastorali. Nel novembre del 2017 Salles è stato denunciato dal pubblico ministero di São Paulo per frode amministrativa, accusato di aver modificato delle mappe di zonizzazione del Plano de Manejo da Área de Proteção Ambiental (APA) da Várzea do Rio Tietê per beneficiare alcune aziende private. È stato indagato anche dal pubblico ministero statale per alcuni illeciti amministrativi nella Giunta Commerciale di São Paulo. La sua nomina è stata difesa e supportata dagli enti rurali, tra cui appunto la SRB, ma è stata duramente criticata dagli ambientalisti, secondo cui Salles, anziché proteggere le risorse naturali della selva, difende gli interessi degli investitori nell’industria agricola secondo una logica di modernizzazione e produttività del settore. Per questo aleggia il timore che il suo ruolo sarà costantemente subordinato a quello della nuova ministra del MAPA. Quest’ultima, come scritto poc’anzi, è a capo del FPA – che opera in difesa dei proprietari rurali – ed è sostenitrice dello sviluppo agricolo e zootecnico. È conosciuta come la «musa del veleno», per aver appoggiato il progetto di legge n. 6.299, che facilita l’utilizzo degli agrotossici, nonostante l’opposizione di medici e ambientalisti. La scelta dei ministri, dunque, accresce il clima di sfiducia circa la preservazione e la salvaguardia della selva nei prossimi anni di mandato.
Oltre alle preoccupazioni sul riscaldamento globale, si temono anche le conseguenze a livello politico. Ad esempio, per poter adempiere gli obblighi dell’Accordo di Parigi, il tasso attuale di deforestazione in Brasile dovrebbe essere ridotta di un terzo. Proposito dubbio, visto il programma politico di sfruttamento delle terre per rispondere alla domanda del mercato di soia e carne. Non solo, per raggiungere tale obiettivo, c’è il rischio di infrangere anche il Novo Código Florestal Brasileiro, il quale stabilisce che i proprietari terrieri possono deforestare solo il 20% dei loro possedimenti nell’Amazzonia.
Fig. 5 – La costruzione di una diga idroelettrica nella zona di Belo Monte
L’intenzione del nuovo Governo di rendere il Brasile una delle maggiori potenze esportatrici agro-pastorali non può che avere delle ripercussioni sull’eco-sistema del Paese, e non solo. La serie di promesse e misure avanzate da Bolsonaro, secondo gli ambientalisti, aspira chiaramente a ridurre la protezione ambientale, portando a una deforestazione maggiore e alla violenza sulle aree protette. Senza tralasciare, peraltro, l’aumento delle emissioni. Introdurre i principi del settore privato e dello sviluppo produttivo – senza regolamentazioni – per agevolare gli investimenti e per rispondere alla domanda del mercato, a lungo termine, condurrà a conseguenze catastrofiche per il “polmone verde della terra”. Alla fine gli effetti a livello inter-generazionale delle attuali politiche abusive, per la nuova classe dirigente possono essere tralasciati se d’ostacolo alla crescita economica. Decenni di studi, report, dati e analisi sulle conseguenze future dello sfruttamento massivo delle terre perdono così improvvisamente valore. E ciò che subentra sarà forse solo una ricchezza effimera per pochi.
Sonia Loddo