Caffè lungo – Dal colpo di Stato militare del 2021, il Myanmar è precipitato in un contesto di violenza estrema e repressione sistematica. In questo scenario drammatico, le donne si sono imposte come protagoniste di una resistenza multidimensionale che sfida non solo la giunta militare, ma anche un sistema patriarcale profondamente radicato. La loro lotta si configura come una battaglia per la dignitĂ , la giustizia e la libertĂ , nonostante torture, arresti e un silenzio internazionale che persiste.
MYANMAR DOPO IL GOLPE DEL 2021: UN PAESE NEL CAOS
Il 1° febbraio 2021, l’esercito birmano, noto come Tatmadaw, ha rovesciato con un golpe il Governo democraticamente eletto guidato da Aung San Suu Kyi, dichiarando lo stato d’emergenza e dando il via a una repressione brutale. I militari, preoccupati dalla crescente popolarità della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), hanno azzerato il processo democratico, inaugurando una fase di violenze che ha profondamente destabilizzato il Paese. In poche settimane, le piazze si sono riempite di manifestanti, in particolare giovani donne della Generazione Z, decise a resistere al ritorno della dittatura militare. Il regime ha reagito con estrema violenza: centinaia di morti, migliaia di arresti, blackout informativi e una repressione sistematica del dissenso. Oggi, il Myanmar è un Paese frammentato, con 2,6 milioni di sfollati interni, città devastate da bombardamenti e infrastrutture essenziali come scuole e ospedali rase al suolo. La giunta tenta di mantenere il controllo attraverso la leva militare obbligatoria e nuove campagne di terrore, ma la resistenza popolare, con le donne in prima linea, continua a opporsi con determinazione.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – May Sabe Phuy, rappresentante della Woman Advocacy Coalition Myanmar, e Naw Hser Hser, membro della Women’s League of Burma, tengono una conferenza stampa alla sede dell’ONU a New York, marzo 2023
DONNE DELLA RESISTENZA: PROTAGONISTE SILENZIOSE, LEADER VISIBILI
Le donne sono state tra le prime a mobilitarsi contro il golpe, abbandonando vite ordinarie per aderire a un movimento di protesta spontaneo e deciso. Infermiere, insegnanti, operaie tessili e studentesse hanno animato il Civil Disobedience Movement (CDM), che è composto per circa il 65% da donne. Hanno guidato scioperi, organizzato manifestazioni, distribuito aiuti e curato i feriti. Alcune hanno scelto la via della lotta armata, addestrandosi nelle foreste sotto il controllo di milizie etniche, come le Myaung Women Warriors nella regione di Sagaing: donne che prima della guerra non avevano mai maneggiato un’arma, oggi pianificano azioni di sabotaggio e si occupano di logistica e sicurezza. Altre partecipano a organizzazioni come la Women’s League of Burma, impegnate a documentare abusi e sostenere le donne rifugiate. La resistenza si articola su più livelli: civile, con boicottaggi, scioperi e mobilitazioni online, e armato, attraverso le People’s Defence Forces (PDF) e il National Unity Government (NUG), il Governo ombra in esilio. Le donne sono ovunque: confezionano divise militari, fanno da messaggere, insegnano, scrivono. Trasformano oggetti di uso quotidiano in simboli politici, come reggiseni appesi in strada o assorbenti usati per bloccare simbolicamente l’avanzata del patriarcato. Questa rivoluzione sfida non solo il potere politico, ma anche le strutture culturali che lo sostengono.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Una donna sventola la bandiera della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito di Aung San Suu Kyi, durante una campagna di disobbedienza civile contro il golpe militare del febbraio 2021
VIOLENZA SISTEMICA E SILENZIO INTERNAZIONALE
Nel Myanmar post-golpe, il corpo delle donne è diventato un bersaglio specifico della repressione. Le carceri si sono trasformate in luoghi di torture, stupri sistematici e violenze psicologiche, utilizzati come strumenti di annientamento e umiliazione collettiva. Migliaia di donne arrestate subiscono perquisizioni invasive e abusi, spesso con accuse infondate come “alto tradimento” o “terrorismo”. Si stima che oltre 5.400 donne siano state arrestate e almeno sedici condannate a morte. La testimonianza dell’ex sergente Kyaw Myo Oo ha rivelato come lo stupro sia usato intenzionalmente come arma politica, parte integrante della strategia repressiva della giunta. La Costituzione del 2008, scritta sotto il controllo militare, garantisce immunità assoluta ai militari, impedendo qualsiasi forma di giustizia. La comunità internazionale ha reagito con condanne formali, ma le iniziative sono state bloccate da Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Le sanzioni mirate di Stati Uniti, Unione Europea e Canada hanno avuto un impatto limitato, mentre Paesi come India, Cina e Russia mantengono rapporti con la giunta, impedendo interventi multilaterali incisivi. Nonostante l’isolamento, la voce delle donne birmane continua a farsi sentire con forza e determinazione sulle strade, nei social e nei campi di battaglia. Il Myanmar si configura oggi come un laboratorio tragico in cui dittatura, patriarcato e violazione sistematica dei diritti umani si intrecciano in un sistema di oppressione totale. La dittatura impone il silenzio, reprime la libertà e annienta il dissenso, mentre il patriarcato usa il corpo delle donne come strumento di dominio e punizione. Le violenze sistemiche non sono episodi isolati, ma parte di una strategia di controllo e terrore. Tuttavia, da questa tragedia emerge una resistenza straordinaria. Le donne birmane non si sono piegate: con coraggio, intelligenza e solidarietà stanno conducendo una rivoluzione per sé e per tutti noi. Come affermano loro stesse, “le mani che cullano i bambini possono essere anche mani di rivoluzione”. In quelle mani oggi si concentra la speranza non solo di un popolo, ma di un mondo che rifiuta di restare a guardare.
Federica Leone
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