Analisi – È questo lo slogan lanciato da Boris Johnson all’indomani dell’annuncio di nuove elezioni nazionali. Il Primo Ministro britannico ha messo sul tavolo il nuovo Accordo di divorzio siglato in extremis con Bruxelles. Ora la palla torna ai cittadini come tre anni e mezzo fa. Il voto chiuderà definitivamente il capitolo Brexit? O rimescolerà le carte prolungando l’agonia di un Paese fermo e disorientato che i Brexiteers vorrebbero far diventare la Singapore sul Tamigi? Quali sono infine le sfide del futuro per il Regno Unito?
DA MAY A OCTOBER
“What’s up with Boris, I thought he was leaving.”
“Apparently he’s brexiting.”
Il popolare dizionario online Urban Dictionary ha recentemente pubblicato una definizione brillante al termine brexiting: dire a tutti i partecipanti a una festa che si sta per andare via e tuttavia continuare a gironzolare all’evento.
Il destino beffardo ha voluto che di fatto in questa vicenda tra Regno Unito e Unione Europea una festa rivestisse un ruolo rilevante, quella di Halloween. Infatti la notte del 31 ottobre avrebbe dovuto andare in scena l’epilogo di Brexit. Ma la data della messa in onda è slittata per la terza volta. Il motivo è molto semplice: dopo tre anni e mezzo scrivere un finale soddisfacente a questa storia risulta un’impresa titanica nonostante in molti ci abbiano provato. Il copione iniziale messo insieme con tanta fatica da Theresa May nel novembre del 2018 è stato stracciato. L’allora premier di Eastbourne vide il suo Accordo di recesso sbattere contro il muro di Westminster per ben tre volte tra gennaio e marzo e la sua leadership tramontare definitivamente. A prenderle il posto è stato Boris “Bojo” Johnson, l’eccentrico ex Sindaco di Londra e uno dei sostenitori più in vista di una Brexit “dura”. May aveva rassegnato le dimissioni affermando che la vita dipende dai compromessi. Il nuovo inquilino al numero 10 di Downing Street si è presentato invece all’insegna di do or die Brexit (Brexit a qualunque costo) entro la scadenza del 31 ottobre, evocando lo scenario del no deal nel caso in cui le trattative con l’UE non avessero fatto progressi.
“President Tusk meets Theresa May, UK Prime Minister” by europeancouncilpresident is licensed under CC BY-NC-ND 2.0
Fig. 1 – Theresa May non è riuscita a portare a termine la Brexit
L’ACCORDO JOHNSON
Dopo mesi di stallo la svolta nel negoziato si è avuta proprio a inizio ottobre a seguito dell’incontro tra Johnson e il Taoiseach irlandese Leo Varadkar. L’Accordo di recesso e la Dichiarazione sul quadro delle future relazioni sono stati rivisti e approvati dal Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre. La maggior parte dei punti non è stata toccata rispetto all’intesa di May: durata del periodo di transizione fino al 31 dicembre 2020 (prorogabile di uno o due anni), reciproca tutela dei diritti dei cittadini, oneri finanziari. Per quanto riguarda i dettagli del divorzio la differenza sostanziale riguarda il Protocollo relativo alle due Irlande. Il tanto discusso backstop è stato eliminato. È stato rimpiazzato da un meccanismo più istituzionalizzato ma altrettanto controverso per evitare il ritorno di una frontiera fisica tra Repubblica di Irlanda e Irlanda del Nord dal profondo risvolto storico-politico. Si stabilisce che per quattro anni dalla fine del periodo transitorio (attualmente fino al termine del 2024) Belfast, benché formalmente all’interno del territorio doganale britannico, rimanga soggetta alla normativa comunitaria. I controlli su tutte le merci in ingresso nell’Ulster non avverranno sul suolo irlandese. Saranno invece effettuati dalle Autorità britanniche nei loro porti, un compito non proprio leggero. Sulla natura dei dazi da applicare, un comitato congiunto tra Londra e Bruxelles verificherà di volta in volta quali prodotti rimarranno dentro l’Irlanda del Nord (dazi del Regno Unito) e quali fluiranno in Irlanda, quindi all’interno del Mercato Unico (dazi europei). Rimane invece un punto interrogativo il capitolo sull’armonizzazione dei regimi fiscali. Da una parte, la Gran Bretagna sarà libera dai lacci e lacciuoli dell’Unione doganale e avrà di nuovo la competenza della politica commerciale. Dall’altra le numerose frizioni introdotte rischiano di avere pesanti ripercussioni future sull’integrità del Regno Unito. Per questo, proprio alla fine del 2024, il Parlamento di Belfast potrà decidere se rinnovare questo sistema o meno. E nel caso di una bocciatura bisognerà ingegnarsi per trovare un’altra soluzione.
Inoltre, occorre ricordare che uno scenario di no deal potrebbe ancora materializzarsi nel caso in cui, una volta estinto il periodo transitorio, Regno Unito e Unione europea non siano “coperti” da una nuova partnership commerciale. Eliminare la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione doganale dal ventaglio delle possibilità fa venire meno la presenza di un “paracadute”. Ad ogni modo l’ambizione espressa da entrambe le parti, così come riportata nella nuova versione della Dichiarazione politica, è quella di concludere un accordo di libero scambio, presumibilmente sul modello canadese (super Canada-plus). La creazione di un’area a dazi zero renderebbe superflue o comunque snellirebbe tutte le pratiche burocratiche menzionate prima. Nello stesso testo Londra ha anche ribadito l’impegno a garantire il level playing field, cioè una concorrenza aperta e leale con il resto del continente e il rispetto della parità di condizioni riguardo a materie come aiuti di Stato, concorrenza, tasse, standard occupazionali e ambiente. Che tale clausola sia passata dall’Accordo di recesso a un documento non giuridicamente vincolante non è un dato da sottovalutare visti i vaghi proclami dei Brexiteers di fare del Paese la Singapore sul Tamigi. Allo stesso tempo, se mai ci sarà una crescente divergenza regolamentare da parte del Regno Unito, è molto probabile prevedere una reazione ferma da parte del blocco dei Ventisette nelle trattative sui futuri rapporti economici.
UN’INUTILE CORSA CONTRO IL TEMPO
Dopo il Consiglio europeo di metà ottobre la palla è ritornata a Westminster sabato 19, non un giorno qualsiasi. L’ultima volta che il Parlamento era stato convocato nel fine settimana risaliva al 1982 durante la Guerra delle Falkland, a dimostrazione dell’urgenza storica della seduta. Tuttavia è arrivata l’ennesima doccia gelata per l’esecutivo, privo ormai dell’appoggio degli Unionisti nord-irlandesi contrari alla formazione di una dogana nel Mare d’Irlanda. Il Parlamento ha infatti approvato con una maggioranza trasversale l’emendamento targato Sir Oliver Letwin, un ex deputato conservatore. Secondo la mozione il voto significativo sulla nuova intesa era da rinviare a dopo l’approvazione di tutta la legislazione attuativa di Brexit nell’ordinamento nazionale contenuta nel Withdrawal bill. Presentato per evitare lo scenario del no deal, il passaggio dell’emendamento in aula ha messo una pietra tombale sulla missione di Johnson di realizzare l’Halloween Brexit. A nulla è valso l’ultimo suo strenuo tentativo di accelerare l’esame parlamentare. La mozione ha costretto il Premier a chiedere a Bruxelles un nuovo rinvio, confermato per il 31 gennaio, non senza aver scatenato dissidi tra Germania e Francia sulla durata dell’estensione. Quanto è successo poi al termine del Super-Saturday fa capire a quali livelli di scontro istituzionale e di esaurimento personale la vicenda sia giunta, dopo aver già assistito alle lacrime di May. In mancanza di un’intesa ratificata entro le 23 del 19 ottobre secondo i dettami del Benn Act, Johnson ha inviato due lettere al Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk: una fotocopia non firmata della richiesta di estensione dell’uscita oltre il 31 ottobre e un’altra firmata di segno opposto in cui spiegava la contrarietà del suo Governo al rinvio.
Come se non bastasse sorge l’ulteriore paradosso di un Paese in uscita, ma ancora membro, che dopo aver dovuto organizzare le elezioni europee di fine maggio, ora dovrà anche designare entro la fine di novembre il candidato che gli spetta all’interno della nuova Commissione von der Leyen.
“160916 Johnson, VK, en Koenders bezoeken Airborne begraafplaats Oosterbeek” by Ministerie van Buitenlandse Zaken is licensed under CC BY-SA 2.0
Fig. 2 – Boris Johnson ha deciso di tentare il “salto nel buio” delle elezioni che si svolgeranno il 12 dicembre
LE SFIDE DI OGGI
Il fallimento di Bojo non è però stato totale. A fine ottobre Johnson ha ottenuto un parziale successo alla Camera dei Comuni, con una prima approvazione del pacchetto di leggi attuative del suo accordo e con la convocazione di nuove elezioni generali per il 12 dicembre dopo quelle di due anni fa. Era dal 1923 che i cittadini britannici non si recavano alle urne a dicembre. Solo con una maggioranza solida il Premier potrà portare a termine l’iter di ratifica dell’Accordo di divorzio e senza emendamenti capaci di snaturarlo. I Tories, che nei sondaggi hanno un rassicurante margine di vantaggio rispetto ai Laburisti, hanno segnato un inaspettato punto a favore grazie all’ultima mossa di Nigel Farage. Il leader del Brexit Party ha rivelato che il suo partito, arrivato primo alle elezioni europee, non presenterà il prossimo mese suoi esponenti nei collegi che nel 2017 erano stati vinti dai Conservatori. Questa presa di posizione non è di poco conto. Eviterebbe una dannosa concorrenza in un sistema maggioritario uninominale tra due forze che condividono gli stessi obiettivi sul divorzio immediato dall’UE.
A marzo avevamo citato i sei scenari possibili e non mutualmente esclusivi sull’evoluzione della vicenda Brexit:
- Proroga della data di uscita ufficiale come sancito dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea;
- Uscita del Regno Unito dall’UE senza accordo (no deal);
- Rinegoziazione dell’Accordo di divorzio e via libera della Camera dei Comuni;
- Dimissioni del Primo Ministro britannico, sua sostituzione e/o indizione di nuove elezioni politiche;
- Organizzazione di un secondo referendum con uguale o diversa formulazione rispetto al precedente;
- Revoca unilaterale da parte dello Stato di recedere dall’Unione ai sensi di quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell’UE nel dicembre 2018.
Questi scenari oggi sono più attuali che mai nella campagna elettorale. Brexit monopolizzerà il dibattito pubblico. I Conservatori si presentano con il loro Accordo. I Laburisti vogliono rinegoziare la posizione del Paese nell’Unione doganale e sottoporre la loro intesa a un referendum confermativo. I Liberal Democratici e gli Indipendentisti scozzesi sono favorevoli alla revoca unilaterale del divorzio. Nel frattempo l’economia cresce ai minimi da dieci anni e dal 2016 sta pagando un conto salato in termini di PIL, soprattutto sul lato degli investimenti.
LE SFIDE DI DOMANI
Il domani risulta ancora più imprevedibile dell’oggi. Sul piano interno Johnson è riuscito con un’operazione machiavellica a compattare il suo partito a costo di mettere a repentaglio l’unità del Paese. Verrà creato un confine nel Mare d’Irlanda e intanto si rinvigoriscono i focolai secessionisti a Edimburgo (e forse a Cardiff).
Nell’Unione Europea e nel Mercato Unico il Regno Unito è prosperato pressoché alle sue condizioni. Dal prossimo anno dovrà invece ritagliarsi da solo un nuovo ruolo geopolitico ed economico. Guardando oltremanica l’obiettivo è siglare un accordo di libero scambio con quello che è pur sempre il partner più importante. Che questo avvenga entro la fine del periodo transitorio costituirà un’altra impresa titanica, anche qualora si chieda la proroga di altri due anni. Gli accordi commerciali richiedono tempi lunghi di preparazione e di ratifica con fasi di stallo e di brusca accelerata, come hanno testimoniato i circa sette anni di lavori tra UE e Canada e UE e Giappone. Sorgono forti dubbi sull’attrattività del modello CETA. Si tratta di norme prevalentemente sull’interscambio di beni, non di servizi. Ma sono proprio questi ultimi che costituiscono il 41% delle esportazioni del Regno Unito verso il continente e su cui si registra un saldo positivo di 28 miliardi di sterline (dato 2018).
A livello globale ai diplomatici e funzionari britannici non toccherà sicuramente la stessa sorte della missione Macartney di fine Ottocento. Tuttavia le due strade percorribili al momento sono impervie. L’alternativa costituita da un rafforzamento dell’Anglosfera (detta anche Commonwealth bianco), che solletica numerosi Brexiteers, è m1lto fragile. L’idea di approfondire la partnership con Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda sulla base di legami linguistici, culturali e di una decennale collaborazione politica e d’intelligence rischia di sbattere contro la realtà di un mondo anglosassone profondamente frammentato. Canberra e Wellington partecipano del dinamismo asiatico, Ottawa e Washington non condividono le stesse strategie di politica estera ed economica in questo periodo storico. Se il progetto dell’Anglosfera sembra una pia illusione, lo è ancora di più la nostalgica volontà di cementare l’interdipendenza dei membri del Commonwealth. Le ex colonie non saranno propense a fare concessioni a una Londra più debole e bisognerà fare i conti con un’India assurta al rango di grande potenza mondiale.
Insomma, lo show di Brexit continua. Il voto del prossimo mese chiuderà definitivamente questo capitolo con una vittoria schiacciante dei Conservatori? L’impegno di “Get Brexit done!” sarà rispettato entro il 31 gennaio? O rimescolerà le carte prolungando la difficoltà di un Paese fermo e disorientato che si vorrebbe far diventare la Singapore sul Tamigi? Quel che è certo è che il dibattito di oggi sembra sottovalutare le sfide più o meno lontane che attendono il Regno Unito, con o senza Boris Johnson.
Roberto Italia