Miscela Strategica – L’editoriale di Miscela Strategica di questo mese è dedicato al mare, argomento che è ritornato più volte sulle nostre pagine ultimamente. In ottobre il mare è stato anche l’indiscusso protagonista della nostra informazione, purtroppo per eventi tristi quali la strage dei migranti e richiedenti asilo.
UN GRANDE GIOCO – Controllare il mare è una priorità per molti Stati costieri, piccoli e grandi, per assicurarsi risorse, prosperità, commerci. Per alcuni, il peso strategico del fattore marittimo è determinante nello stabilire il proprio ruolo nello scacchiere internazionale, primi fra tutti gli Stati Uniti. Chi volesse cambiare le carte in tavola dovrebbe giocoforza adeguarsi alle regole che Washington ha stabilito in decenni di supremazia sul mare oppure, in alternativa, sovvertirle a proprio vantaggio. Chi si affaccia sul mare e ne trae beneficio ha sempre investito in mezzi sofisticati quanto in politiche dedicate per alimentare un circolo virtuoso che estraesse dalle acque, siano esse litoranee od oceaniche, opportunità economiche, scientifiche, culturali e così via.
IL VECCHIO (CONTINENTE) E IL MARE – Dove siamo noi europei nel “grande gioco dei mari”? I flussi di beni e risorse dal mare rappresentano una fetta significativa dell’economia europea. Afflitti dalla depressione finanziaria e dalla crisi del debito sovrano, abbiamo trascurato da dove vengano i proventi dell’economia reale, dati quasi per scontati. Negli ultimi due anni, però, le docce fredde sono arrivate e ci siamo accorti di aver trascurato troppo ciò che accadeva al di fuori del nostro idillio a sempre più stelle (oggi 28). Così, mentre USA, Cina e India rivaleggiano per il controllo delle rotte oceaniche e la Russia spreme le proprie risorse per tenersi al passo, l’Europa è rimasta attonita e impotente di fronte alla Primavera araba, non capacitandosi di come ciò fosse potuto accadere sull’altra sponda del Mediterraneo, proprio sotto casa. Lo shock non è stato da poco. L’Unione Europea ha fatto largo affidamento su quello che Parag Khanna ha definito “metrosexual power”, creando nell’immaginario collettivo il concetto di “potenza civile”, ovvero un colosso economico in grado di usare le proprie risorse più che la forza per convincere Paesi terzi alla pace e alla cooperazione in cambio di mutui benefici. Ma quando attori che ragionano al di fuori di questo paradigma hanno calcato la scena in modo improvviso e violento, l’Europa si è trovata disarmata nell’influenzare gli eventi perfino a due passi da casa, come in Libia, salvo cercare di rimarcare il proprio ruolo con un’operazione militare che ha tra l’altro mostrato tutti i limiti della capacità europea di intervenire oltremare. Concepite in parte per “salvare la faccia”, le operazioni in Libia hanno invece confermato l’impossibilità fisica e politica di concepire un piano di grossa portata e lunga durata per accompagnare Tripoli nella transizione, sottolineando ancora una volta la preoccupante inadeguatezza del Vecchio Continente a prevenire crisi improvvise e cruente e intervenire al loro verificarsi. D’altronde se non ci siamo curati di bilanciare il nostro sistema per il bello e il cattivo tempo, non possiamo pretendere di trasformarci di punto in bianco in un poliziotto del mondo.
Anche la Siria si affaccia sul Mediterraneo e la guerra ha avuto un fronte marittimo, anche se non cruento come quello terrestre. I russi, che difendono strenuamente la propria base di Tartus (e i propri commerci), incrociavano in forze al largo di Cipro, mentre gli Stati Uniti, nelle fasi più calde, controllavano l’intero braccio di mare antistante alla costa, pronti a scagliare l’attacco. Qualche unità europea era presente, ma siamo ben lontani dal poter dire che avessimo la padronanza della situazione. I risultati si sono visti al tavolo delle trattative, con Putin indiscusso protagonista e l’Europa priva di una vera posizione comune. Non si è pensato, per esempio, che i problemi legati alla Siria non si limitassero alla decisione di attaccare o meno Assad, ma che si estendessero a come gestire i profughi, rallentare i flussi, magari provvedendo assistenza in loco oppure creando corridoi umanitari. La crisi dei migranti che abbiamo vissuto in Italia, gran parte dei quali profughi siriani, è parte di questa inconcludenza.
Un discorso analogo può esser fatto per l’Egitto. Nella gestione della deposizione di Morsi ci sono un elemento buono e uno cattivo da cogliere. L’elemento buono è che la paura del blocco di Suez a causa del “surriscaldamento” del Sinai è stata motivo di unione e collaborazione. Catherine Ashton si è precipitata in Egitto e ha potuto per la prima volta parlare con voce ferma e per conto dell’intera Unione. L’elemento negativo è invece, come per il caso libico, l’incapacità di imbastire una missione europea che avesse un impatto significativo sull’Egitto e risolvesse davvero il problema. Le limitate sanzioni economiche minacciate e in parte poste in essere dall’Unione (che in Egitto aveva un programma di assistenza di 5 miliardi di euro) hanno avuto come risultato che il Cairo ci fornisse alcune garanzie sui nostri interessi chiave, ma nessun impegno concreto ad adoperarsi per appacificare il Paese. Chissà se, per esempio, una forza marittima europea di fronte le acque egiziane (o la sola capacità di metterla in mare) avrebbe permesso alla Ashton di ottenere molto di più a un costo minore e senza sparare un colpo. Del resto l’uso della marina anche come arma di “pressione” su Paesi costieri per costringerli a garantire i propri interessi non è certo una novità… sarebbe stata una soluzione applicabile? Avremmo potuto sostituire gli USA come partner privilegiato? Avremmo messo in ombra le “offerte di amicizia” russe? Sono tutte ipotesi non più verificabili, ma è certo invece che si sia optato per la strategia più costosa e con minori possibilità di successo.
Dulcis in fundo, il guizzo di vitalità nel caso egiziano, che sembrava aver svegliato l’Europa dal proprio sonno suicida e stimolato Bruxelles a superare la paura dell’acqua, si è spento rapidamente. La crisi italiana dei migranti ha ritrovato un’Europa intorpidita e infastidita dagli strali di Roma, più che allarmata.
E L’ITALIA? – La crisi dei migranti ha fatto ricordare quanto il mare sia un affare italiano. Purtroppo è sempre necessaria una tragedia per riscuotere interesse. È bene ricordare che qualche settimana di riflettori, lacrime e solidarietà non sono sufficienti a soddisfare le esigenze di un Paese che dal mare rischia di essere messo in ginocchio, per incuria, di fronte a crisi di ogni genere, da quelle umanitarie a quelle politiche, da quelle commerciali alle minacce alla sicurezza della navigazione. Questo non vuol dire certo minimizzare l’operato di quanti si sono prodigati senza riserve in questo frangente (opportunamente elogiati perfino dal Presidente della Repubblica Napolitano), ma è necessario comprendere che bisogna andare oltre, guardare lo scenario nel suo insieme e non sono la contingenza.
È una strana pantomima quella cui abbiamo assistito. Le Autorità che, convenute in Parlamento poche settimane prima, si scagliavano contro le spese per la Difesa, orribili, da guerrafondai, abiette per un Paese civile, non smettevano di lodare l’operato di marinai e Forze dell’ordine che, come sempre incuranti delle demagogie romane, hanno svolto con professionalità e umanità un compito ingrato e doloroso, al meglio delle loro possibilità. Tra una settimana o due non se ne parlerà più. Resta però l’annosa questione del mare, che chiamiamo ancora “nostrum”, ma di cui non ci occupiamo adeguatamente. Eventi come le crisi in Nord-Africa e Medio Oriente e le stragi dei migranti dovrebbero farci riflettere sulla nostra palese inadeguatezza. E dopo aver riflettuto, maturare la coscienza che il lavoro continuativo in ogni sede e da parte di tutti per preservare i nostri spazi marittimi vitali è l’unica ricetta possibile per riprendere il controllo di ciò che ci serve maggiormente, di ciò che può rappresentare una risorsa inesauribile per accompagnare il nostro Paese verso una ripresa che stenta a decollare. Questo si ottiene con il fare, non con la demagogia. Si ottiene con leggi adeguate, tutela per le aziende del settore, operatività (reale) dell’apparato militare e di controllo, cooperazione internazionale (e aiuto) con gli Stati costieri, pressione politica sui Paesi instabili, capacità di gestire crisi internazionali complesse. Questo lavoro richiede poca commozione popolare, ma tanta lungimiranza e volontà.
Marco Giulio Barone