Miscela Strategica – La riluttanza dell’Amministrazione Obama di mettere i “boots on the ground”, dovuta a molteplici ragioni, e la nuova strategia orientata verso il Pacifico stanno portando a un nuovo modo di concepire ed impiegare le forze di terra.
BOOTS ON THE GROUND – Le due guerre dispendiose ereditate da Obama, sia in termini economici sia di vite umane, sono state decisive nel modificare l’approccio dell’attuale Presidenza all’impiego delle forze di terra. In realtà il diverso orientamento è stato agevolato anche da altri fattori, tra cui i pesanti tagli al bilancio del Dipartimento della Difesa e l’attività politico-diplomatica di altri attori (tra cui Russia e Cina) che hanno bilanciato, soprattutto in sede di Consiglio di Sicurezza ONU, una già non poderosa volontà americana nell’intervenire in situazioni difficili (la Siria è un esempio lampante). Considerato ciò, gli Stati Uniti hanno mostrato una preferenza nel non volere impegnarsi direttamente e stabilmente sul terreno e, all’opposto, di voler ridurre al più presto e al minimo indispensabile la presenza di militari americani sul suolo iracheno e afgano. La questione di mettere o meno i “boots on the ground” è però leggermente più sfumata e deve tenere conto di alcuni aspetti, analizzati in maniera sintetica ma efficace dall’ex Sottosegretario alla Difesa Dov Zakheim. Zakheim è stato in carica dal 2001 al 2004 (quando il Presidente Bush ha dato il via alle occupazioni di Afghanistan e Iraq) e in un recente articolo, su The National Interest, associa la difficoltà americana nel rimanere a lungo in un teatro di crisi a fattori che vanno oltre la presenza in sé dei militari. Un giudizio severo è stato dato alle operazioni in Somalia, in Afghanistan e in Iraq: l’insuccesso, secondo Zakheim, è legato in particolare alla volontà degli Stati Uniti di intervenire in ambienti ostili per cercare di creare o cambiare un regime e renderlo il più simile possibile al proprio, senza vagliare sufficientemente le controindicazioni contingenti e strutturali.
Alcune operazioni hanno però registrato un esito migliore, in particolare quelle svolte nell’emisfero occidentale. Le ragioni sono individuabili in una cultura più assimilabile a quella statunitense e, soprattutto, a linee logistiche più brevi. Inoltre esistono differenze fondamentali nel tipo di operazioni. Infatti, se si considerano le missioni di maggior successo, esse hanno comportato fornitura di armi, addestramento e supporto aereo, di solito a favore del Governo o comunque volti alla stabilizzazione di un Paese, piuttosto che un intervento diretto e teso a ribaltare il regime esistente come accaduto in Afghanistan e Iraq. Anche quando i militari statunitensi si sono fermati a lungo su un territorio (ad esempio El Salvador o Colombia) le operazioni erano di supporto alle forze locali. Perciò il successo della presenza sul terreno delle forze armate per lunghi periodi dipenderebbe dall’obiettivo, stabilizzazione versus nation building, e dall’invasività, compiti di supporto e addestramento versus occupatio bellica (o mandati omnicomprensivi).
COSA CAMBIA CON L’ASIA PIVOT – Il cambio strategico avvenuto durante il primo mandato della Presidenza Obama ha coinvolto non solo gli obiettivi americani, ma anche direttamente le modalità di intervento militare. Per quanto concerne la valutazione degli interessi vitali degli Stati Uniti, la presa di posizione è stata spiegata dall’allora Segretario di Stato Clinton e dallo stesso Obama in più discorsi ufficiali. Lo spostamento verso il quadrante pacifico e l’Asia orientale e sud-orientale è una tendenza presente che potrà confermarsi nei prossimi anni. Per quanto riguarda la metodologia appare chiara la propensione in termini di suddivisione delle responsabilità con gli alleati (si veda l’intervento in Libia) e di quello che si potrebbe definire come Air-and-Sea capability (per esempio sfruttando utilizzo intensivo dei droni e della flessibilità navale) rispetto al predecessore. Sia per queste preferenze, valide in generale, sia per la conformazione dell’area asiatica e del Pacifico si potrebbe dedurre che l’uso delle truppe di terra sarà sempre minore e confinato ad operazioni speciali per corpi di élite, escludendo il grosso delle forze di terra e operazioni su vasta scala (si discute molto in questo periodo della prevalenza del concetto Anti Access/Area Denial). In effetti, anche alcuni dati sembrerebbero confortare questa tesi. Documenti del Pentagono e della Casa Bianca rivelano che lo US Pacific Command (USPACOM è il comando unificato del Pacifico) si sta spostando verso una dotazione maggiore di sottomarini, di F35 e F22, di radar e di sistemi missilistici difensivi. Entro il 2020, sempre secondo le previsioni del Dipartimento di Difesa, il 60% della flotta statunitense sarà operativo nell’Oceano Pacifico. Nonostante ciò le forze di terra dispiegate nel Pacifico rimangono comunque rilevanti, sia in territorio statunitense sia in Paesi alleati. Il comando unificato del Pacifico (USPACOM) ha sede nelle isole Hawaii, la Venticinquesima Divisione fanteria ha la prima e la quarta brigata stanziata in Alaska e la seconda e la terza brigata nelle Hawaii, senza contare uomini e basi situate sulla costa orientale degli Stati Uniti (la Prima Divisione Marines è di stanza in California). Per quanto riguarda gli alleati, già nel 2012, con un patto firmato con il governo australiano, le truppe USA posizionate in basi sulla costa settentrionale dell’Australia sono arrivate a 2500 unità (marines).
In Corea è presente un sotto-comando unificato (United States Forces Korea) subordinato all’USPACOM, in cui le forze di terra sono rappresentate da 20.000 soldati dell’Ottava Divisione dell’Esercito e dalle 100 unità dello Special Operations Command Korea. Anche in territorio giapponese si trova un sotto-comando dell’USPACOM, lo United States Forces Japan, il quale coordina le forze militari americane in Giappone. Nell’aprile 2012 il governo americano e quello giapponese hanno trovato un’intesa per la modifica del dispiegamento dei Marines già presenti in territorio giapponese: 5000 Marines spostati a Guam, altri 4000 tra Australia ed Hawaii, mentre 10.000 Marines della Terza Divisione sono rimasti in Giappone, ad Okinawa. A questi si aggiungono circa 2000 unità dello US Army Japan (USARJ). Infine è significativo l’accordo trovato tra Stati Uniti e Filippine, che riporta a distanza di oltre vent’anni i militari americani (una parte della 25 Divisione fanteria) a stabilirsi su quelle isole. Infatti, è dal 1992 che le forze USA non stazionano permanentemente in territorio filippino.
Più in generale non è corretto pensare di poter fare a meno delle forze di terra, anche con un cambio radicale di strategia e di teatri operativi. Il Generale Peter Chiarelli, vice Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, sostiene, in maniera evocativa, che ogni volta che si finisce una guerra si tende a pensare che le forze di terra non serviranno più, fino a quando scoppia un nuovo conflitto, in cui il 90% dei combattimenti e delle perdite è proprio a carico dei contingenti che operano sul terreno.
I NUOVI APPROCCI DIFENSIVI DELLE FORZE DI TERRA – È necessario capire quali compiti sarà chiamato a svolgere questo personale militare e in che maniera. In un ben articolato rapporto del Center for Strategic and Interntional Studies (“US Ground Force Capabilities through 2020”-CSIS, ottobre 2011), l’autore, Nathan Freier, individua le quattordici principali tipologie di operazioni che coinvolgono le forze di terra, le analizza una ad una (fornendo interessanti scenari futuri) e riporta il grado di probabilità di un loro impiego, avendo come orizzonte temporale il 2020. Di seguito una sintesi delle operazioni e della frequenza con cui potranno servire agli scopi di politica estera americana.
1) Dimostrazione di forza (probabilità Alta): accrescere la presenza e la visibilità delle forze d’avamposto con lo scopo di far cessare una minaccia messa in atto da un attore ostile.
2) Assistenza umanitaria e gestione delle calamità (probabilità Molto Alta): aiutare le autorità civili sia nel mantenimento dell’ordine sia nell’organizzazione dei soccorsi in seguito a disastri.
3) Supporto ad un alleato in condizioni di instabilità o guerra civile (probabilità Molto Alta): fornire personale ad un governo durante gravi crisi interne o condizioni di forte instabilità.
4) Supporto a forze non convenzionali straniere (probabilità Media): condurre operazioni, segrete o non, a supporto di forze irregolari per combattere una comune minaccia.
5) Assistenza logistica (probabilità Alta): fornire materiale, mezzi ed expertise ad un alleato coinvolto in operazioni militari, non sono coinvolte di solito unità di combattimento.
6) Evacuazione di civili (probabilità Molto Alta): proteggere l’incolumità fisica di civili (americani e, se contemplato, di terzi) durante l’evacuazione da un Paese straniero.
7) Operazione di peacekeeping (probabilità Alta): condurre operazioni di interposizione tra fazioni e di mantenimento della pace.
8) Messa in sicurezza di aree o infrastrutture strategiche (probabilità Media): intervenire per impedire che posizioni strategiche o infrastrutture strategiche per gli Stati Uniti vengano distrutti o entrino in possesso di forze nemiche.
9) Intervento d’umanità (probabilità Alta): proteggere popolazione civile durante una guerra civile.
10) Stabilizzazione di un territorio (probabilità Media): ristabilire l’ordine in aree di cui l’instabilità minaccia interessi vitali per gli Stati Uniti.
11) Distruzione di obiettivi sensibili (probabilità Media): operazioni mirate a distruggere infrastrutture o bersagli considerati una minaccia per gli Stati Uniti
12) Raid (probabilità Molto Alta): condurre operazioni su piccola scala e di breve durata con obiettivi specifici.
13) Campagna contro attori non statali (probabilità Molto Alta): portare a termine azioni militari di diversa natura per smantellare organizzazioni non statali che minacciano la sicurezza degli Stati Uniti.
14) Campagna di vasta scala (probabilità Bassa): condurre operazioni su vasta scala con l’obiettivo di sconfiggere l’esercito regolare o le forze irregolari al servizio di uno Stato nemico.
Davide Colombo
Livello di probabilità e violenza per le operazioni future (Fonte: US Ground Forces capabilities through 2020, CSIS)