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Babai: la grande fuga dei kosovari

Le recensioni del CaffèSono 244 milioni i migranti al mondo. 244 milioni di uomini e donne (il 40% in più rispetto al 2000) che hanno lasciato il loro Paese alla ricerca di una nuova vita. Molti di loro sono anche kosovari, ma il loro sogno di espatrio incontra ostacoli e difficoltà di ogni tipo. Li racconta il regista Visar Morina nel suo film Babai, uscito lo scorso anno e premiato a numerosi festival europei

UN VIAGGIO AMARO – Gezim, il protagonista di Babai, opera prima del regista kosovaro Visar Morina, è un uomo senza orizzonti. Venditore ambulante di sigarette, Gezim non ha infatti nessun presente e nessun futuro in Kosovo. Ha un figlio da mantenere, da solo. La moglie ha lasciato entrambi. Ambientato all’inizio degli anni Novanta, prima dello scoppio della guerra di Jugoslavia, Babai, premiato per la miglior regia al Karlovy Vary International Film Festival (e nomination all’Oscar per il Kosovo), parla di povertà, di fuga, di disperazione.
È un film politico Babai. Il Kosovo prima della guerra non è molto diverso dal Kosovo di oggi, malgrado in mezzo ci sia stata la cruenta implosione della Jugoslavia e il suo colpo di  “coda”, la questione kosovara, appunto. Ma per il regista Morina Babai è anche e soprattutto un film “sentimentale”. Babai in albanese vuol dire padre. Visar Morina cala il dramma delle migrazioni clandestine nel rapporto tra un padre e un figlio.

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Fig. 1 – Il regista di Babai, Visar Morina, con il Crystal Global Award vinto al Karlovy Vary International Film Festival del 2015

Gezim vive alla giornata vendendo sigarette di contrabbando. Troppo, troppo poco per viverci e per sfamare suo figlio. Decide di fuggire in Germania, ma da solo, senza il piccolo Nori. La durezza del film sta soprattutto qui, nella fredda determinazione con cui un padre decide di abbandonare il figlio al suo destino. Ma Nori è più determinato. Non può permettersi un altro abbandono dopo quello della madre. Temerario, impudente, coraggioso, con la perizia di un ladro di professione, Nori ruba i soldi allo zio e inizia il suo viaggio da clandestino nel portabagagli di un autobus diretto in Germania. Sosta in Montenegro, scafisti ad attenderli, traversata nell’Adriatico, Guardia costiera italiana, passeggeri gettati a mare per “distrarre” le motovedette. Poi, di nuovo la fuga. Trasbordi, gambe in marcia. Tutto tristemente noto. Qui c’è una certa ingenuità del regista nel rappresentare (invero in modo poco fedele) in un tempo di ieri, i primi anni Novanta, scene di oggi.
Nori arriva in Germania. Ma deve rimettersi in marcia, questa volta con il padre. Non possono stare in Germania. Non hanno diritto d’asilo. Chissà perché Gezim vuole provarci in Olanda.

STATO FALLITO – Babai è ambientato all’inizio degli anni Novanta. Eppure non è cambiato molto da allora per i kosovari, nonostante i molti anni trascorsi dai sanguinosi eventi della disintegrazione jugoslava. Sembrava una success story quella del Kosovo. Lo Stato più giovane d’Europa.
87 giorni di bombe NATO stroncano la pulizia etnica (un’altra) di Milosevic contro i musulmani albanesi del Kosovo, la maggioranza della popolazione. Siamo nel 1999. Quattro anni dopo gli Accordi di Dayton che mettono fine al terribile conflitto jugoslavo. Questa volta, Stati Uniti e Europa non indugiano. A fianco della popolazione kosovara, in nome del nobile principio della autodeterminazione dei popoli e della più volgare voglia di liberarsi dei Balcani una volta per tutte.
Nel 2008 il Kosovo fa il suo ingresso nella comunità internazionale. Non tutti lo accolgono a braccia aperte. La maggioranza, tuttavia. 115 Stati, 23 dell’Unione europea, riconoscono che il Kosovo è secondo i dettami del diritto internazionale una entità statale a tutti gli effetti. Cina, India, Russia (ovviamente a fianco dei cugini serbi), Spagna e Slovacchia la pensano diversamente. Preoccupati di creare pericolosi precedenti e timorosi (soprattutto) di effetti emulatori a casa loro, dicono di no alla sovranità del Kosovo.

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Fig. 2 – Violenta protesta anti-governativa per le strade di Pristina, febbraio 2016

A sedici anni dalla sua nascita, il Kosovo è uno Stato fallito. Una cuccagna per la mafia, un eldorado per contrabbandieri, criminali, e trafficanti di ogni cosa: armi, droga, rifiuti tossici, prostitute e perfino organi.
C’è di tutto in Kosovo in questo momento. Imponenti (e inedite) proteste di piazza chiedono le dimissioni del Governo di grande coalizione in carica da due anni (di fatto un giro di poltrone tra Hashim Thaçi, ex Primo ministro e ora ministro degli Esteri, e Isa Mustafa attuale premier); un Parlamento ostaggio dei nazionalisti di Vetevendosje (e dei suoi lacrimogeni); un vero e proprio esodo migratorio; un’economia pressoché nulla; una disoccupazione record (45%); una corruzione endemica, corrosiva e pervasiva.

SENZA DIRITTO D’ASILO – I kosovari fuggono. Non dalla guerra. Non dai cetnici. Fuggono dalla miseria. Da uno Stato mai nato. A decine di migliaia nell’ultimo anno ci hanno provato a prendere un autobus. Proprio come Gezim e il piccolo Nori. La destinazione è la stessa, la Germania, passando per l’odiata Serbia. Si, perché i kosovari non rientrano più nella “categoria” dei profughi. Quindi nessun diritto d’asilo. Il Kosovo è l’unico Paese della regione a cui non si applica il regime europeo dei visti. La Commissione ha dato parere negativo alla liberalizzazione dei visti chiesta da Pristina. Il Governo kosovaro “non ha fatto i compiti a casa” in materia di lotta alla corruzione, alla criminalità organizzata, alla sicurezza delle frontiere.

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Fig. 3 – Migranti albanesi e kosovari attendono di registrarsi presso un centro di accoglienza per rifugiati di Berlino, marzo 2015

Per raggirare l’ostacolo “visto” i kosovari arrivano in autobus in Serbia, proprio come il piccolo Nori e, probabilmente, come ha fatto lo stesso Visar Morina, trasferitosi da adolescente in Germania. La Serbia offre con piacere (secondo voci maliziose) servizi e logistica (dei trafficanti ovviamente) per favorire lo svuotamento del Kosovo. Destinazione l’Ungheria, dove inizia l’Europa.
Secondo stime ufficiali (è impossibile conoscere il dato reale) nel 2014 i “fuggitivi” del Kosovo sono stati circa trentamila. La maggior parte è tornata in patria, qualcuno di propria iniziativa. Sedici anni fa i kosovari hanno avuto il loro Stato. Oggi farebbero di tutto per lasciarlo.

FUGA DALLA MISERIA – Il Kosovo non è solo il più giovane Stato d’Europa. È anche il più povero. Lo stipendio medio non supera i 300 euro. Il costo della vita vicino a quello degli inglesi. Più della metà dei due milioni di kosovari ha meno di venticinque anni, la metà di questi è senza lavoro. E soprattutto, ha perso, e a ragione, ogni speranza di trovarlo. Per raggiungere un livello di sviluppo prossimo a quello europeo al Kosovo occorrerebbero cinquant’anni. Troppi per i ventenni kosovari. L’Europa ha già troppi problemi (e troppi profughi) per potersi occupare anche di loro.
E poi ha speso già tanto per mettere in sicurezza il Kosovo. Cinque miliardi di euro in quindici anni per fare del Kosovo “uno Stato di diritto”. Eulex, la più grande missione di state building che l’Unione europea abbia mai messo in piedi. Cinque miliardi di euro risucchiati nella palude della corruzione, sia di Pristina che di Bruxelles (ricordate lo scandalo per tangenti che ha colpito Eulex?)
Nel Kosovo coesistono il maggior numero di giovani con il più alto tasso di disoccupazione in Europa. I detonatori più potenti di rivolte e disordini. Le Primavere arabe lo hanno dimostrato. E in questo quadro cupo non manca la tentazione jihadista.

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Fig. 4 –  Giovani kosovari pregano durante i festeggiamenti per la fine del Ramadan, luglio 2015

IL RICHIAMO DEL CALIFFATO – Dallo scorso anno, circa 200 giovani kosovari sono partiti alla volta di Iraq e Siria per immolarsi sull’altare del jihad. L’ISIS ha aperto le sue filiali in Europa. Non solo nei sobborghi musulmani delle grandi capitali. La lunga ombra del terrorismo islamico si estende ai Balcani. Bosnia, Albania, Macedonia. Qui l’ISIS conta di trovare molte reclute. Ha buone chance di riuscita, soprattutto se noi, europei, perseguiamo nel consueto, fallimentare, atteggiamento di intervenire nei Balcani quando è troppo tardi.
Nei radar dei talent scout del Califfo è finito anche il Kosovo con il suo enorme serbatoio di giovani musulmani senza speranze, con i reduci fanatici e nostalgici dell’UCK, quelli (una minoranza) che non hanno mai abbandonato la mimetica, che non si sono riciclati nelle stanze del potere.
Una miscela esplosiva, quella del Kosovo. Giovane, ma già contagiato dal male endemico dei Balcani, la “polveriera d’Europa” …

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Fig. 5 – Visar Morina e il cast di Babai dopo essere stati premiati al Munich Film Festival, luglio 2015

Mariangela Matonte

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Visar Morina, trentacinque anni, è kosovaro di origine ma tedesco di adozione. Arriva infatti in Germania all’età di 15 anni come profugo. Ma senza le difficoltà e le peripezie del piccolo Nori, il protagonista del suo film, Babai.
Pur essendo un film low budget Babai è la produzione più costosa che il Kosovo abbia finanziato finora. Opera prima, Babai  ha ottenuto il premio Miglior Regia al Karlovy Vary International Film Festival del 2015.[/box]

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Mariangela Matonte
Mariangela Matonte

Laurea in scienze politiche internazionali, scuola diplomatica MAE, analista politico, appassionata da sempre di relazioni internazionali e di politica. Molti viaggi, tante esperienze lavorative. Il tutto sempre con vocazione internazionale. Relazioni transatlantiche, Mediterraneo e Medio Oriente principali focus di interesse.

Curatrice del blog Geomovies, che si occupa del rapporto tra cinema e politica internazionale.

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