Focus su Gerusalemme Est. La “giornata della rabbia” di martedì non è solo conseguenza dell’annuncio di 1600 nuove abitazioni negli insediamenti israeliani: sono diversi nell’ultimo mese gli episodi che hanno aumentato enormemente il livello di tensione tra le parti. In tutto questo, la crisi diplomatica Usa-Israele, per l'annuncio dato alla presenza del Vicepresidente Usa Biden. Ridurre il tutto a questioni di forma e tempistiche, però, è decisamente troppo riduttivo
FACCIAMO IL PUNTO – Ieri a Gerusalemme Est c’era silenzio. Tanti soldati, poco traffico, strade vuote. Dopo la “giornata della rabbia” di martedì, si è respirata ieri una tranquillità quanto mai relativa e precaria. Se ne può approfittare per fare un poco di ordine. Sulla stampa è passato questo: Israeliani e Palestinesi settimana scorsa davano il via al tentativo di sedersi nuovamente – seppure in maniera indiretta – al tavolo dei negoziati. Il Vicepresidente Usa Joe Biden si reca in loco per celebrare questo nuovo inizio. Proprio nel giorno dell’arrivo di Biden, il Ministro degli Interni israeliano Eli Yishay, leader del partito ortodosso sefardita Shas, annuncia la realizzazione di 1600 nuove abitazioni nell’insediamento ebraico ortodosso di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est. Una dichiarazione che, da sola, affossa qualsiasi tentativo di far sedere al tavolo le due parti. E, soprattutto, viene vista da Washington come un vero e proprio oltraggio. Forma e tempistica sono inammissibili: un tale annuncio alla presenza del Vicepresidente americano è un affronto e un insulto. Il premier israeliano Netanyahu, che dapprima si scusa (dopo 43 minuti al telefono con la Clinton), in seguito comunica la decisione del Governo di non tornare indietro e proseguire nell’intenzione di costruire quelle 1600 abitazioni (“La moratoria di dieci mesi sugli insediamenti riguarda la Cisgiordania, non Gerusalemme Est”). Ne conseguono crisi diplomatica con gli Stati Uniti, rinvio del viaggio dell’inviato Usa in Medio Oriente George Mitchell per mancanza di presupposti per iniziare i negoziati, aumento della tensione con i Palestinesi, sfociato nella “giornata della rabbia” di martedì, con una serie di scontri in diversi quartieri di Gerusalemme Est e decine di arresti e feriti. Centinaia i giovani palestinesi coinvolti, a fronte dei 3000 soldati israeliani schierati.
L’ULTIMO MESE – Per avere un quadro definito della situazione, è però necessario fare qualche passo indietro. Prima della crisi con Biden, diversi episodi hanno contribuito a creare il clima di martedì.
1) Il 21 febbraio, Netanyahu ha annunciato la volontà israeliana di inserire due dei più importanti siti religiosi ebraici, la Tomba dei patriarchi di Hebron e la Tomba di Rachele di Betlemme, nella lista dei patrimoni nazionali dello Stato ebraico. Entrambi i luoghi si trovano in Cisgiordania, in quello che dovrebbe divenire un giorno il territorio dello Stato palestinese. La decisione ha scatenato le proteste dell’Autorità Palestinese. Il Presidente Abu Mazen ha espresso la convinzione che tali siti siano poi inaccessibili per i musulmani (anche per loro tali luoghi hanno un grande valore religioso e simbolico), sottolineando il rischio che una tale decisione possa scatenare una nuova Intifada palestinese. Si sono registrati per cinque giorni consecutivi scontri a Hebron tra Palestinesi e soldati israeliani, mentre a Betlemme è stato indetto uno sciopero di tre giorni di uffici, scuole e negozi.
2) Anche a seguito di tale decisione, il 28 febbraio e il 5 marzo vi sono stati violenti scontri sulla Spianata delle Moschee, nei quali sono rimasti feriti diverse decine di manifestanti palestinesi e poliziotti israeliani, dopo lanci incrociati di pietre e candelotti lacrimogeni. Il portavoce della polizia israeliana Shmulik Ben Rubi ha dichiarato che i poliziotti sono intervenuti dopo che i fedeli palestinesi hanno iniziato a lanciare pietre contro gli ebrei riuniti a pregare presso il sottostante Muro del Pianto.
3) Il 7 marzo, a oltre un anno dall’interruzione di qualsiasi colloquio negoziale, il Governo palestinese comunica di accettare la proposta americana per l’avvio di nuovi negoziati indiretti, già accettata dalla controparte israeliana. Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi, annuncia: "I rapporti si sono deteriorati a tal punto che gli Stati Uniti stanno provando a salvare il processo di pace con quest'ultimo tentativo, ma ricordate le mie parole: questa sarà l'ultima chance per vedere se esiste un modo per prendere delle decisioni tra le parti”.
4) Il giorno stesso, poche ore dopo, il Governo israeliano – nonostante la moratoria sulle costruzioni degli insediamenti annunciata lo scorso novembre – autorizza l’edificazione di 112 nuove unità abitative in Cisgiordania, nell’insediamento di Beitar Ilit, una decina di chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. Il Ministro dell’Ambiente israeliano Erdan dichiara: “La moratoria prevedeva delle eccezioni in caso di problemi di sicurezza per le infrastrutture nei cantieri avviati in precedenza, e questo è il caso di Beitar Ilit”.
11 E 12 MARZO – Fatte queste premesse, il quadro è un po’ più delineato. Aggiungere ad un livello di tensione già elevato l’annuncio delle 1600 abitazioni dentro Gerusalemme Est non poteva non provocare conseguenze serie. Al di là dell’annuncio di Abu Mazen di non poter tornare al tavolo negoziale con simili condizioni, la tensione sul territorio è cresciuta enormemente. Anche perché Ramat Shlomo è a pochi passi da Shua’fat e Bet Hanina, due quartieri palestinesi già chiusi dalla parte opposta dai due grandi insediamenti israeliani di Pisgat Zeev e Neve Yakov. L’ampliamento di Ramat Shlomo circonderebbe e isolerebbe completamente dunque i due quartieri palestinesi. Venerdì scorso, il Ministro della Difesa Israeliano Barak (che ha manifestato grande irritazione per l'annuncio relativo alle 1600 abitazioni) ha chiuso con una misura eccezionale di sicurezza i valichi con la Cisgiordania, riaprendoli solo ieri, motivando la decisione con il pericolo di attentati. Anche la preghiera dei musulmani ha subito limitazioni: ammessi sulla Spianata delle Moschee solo gli uomini oltre i 50 anni e in possesso di un documento israeliano, dalla cittadinanza alla residenza a Gerusalemme. Le limitazioni alla Spianata sono proseguite nei giorni seguenti (fino a ieri), fatto che ha provocato ulteriori tensioni. L’inaugurazione della storica sinagoga Hurva all’interno della città vecchia di Gerusalemme è stata giudicata come l’ultima provocazione: da qui è nata la giornata della rabbia di martedì.
IL RUOLO USA: FORMA E SOSTANZA – Veniamo ora alla reazione americana relativa a questa vicenda. Premesso che è ormai evidente che Obama e Netanyahu non si piacciano affatto (con quest’ultimo convinto che il Presidente Usa “trami” per sostituire il suo Governo con uno centrista più malleabile e meno ossessionato dall’Iran), occorre sottolineare che scatena un sorriso assai amaro il fatto che agli Israeliani venga imputato un errore di forma e non di sostanza. “La peggiore crisi diplomatica degli ultimi 35 anni” tra Usa e Israele, così come è stato definito l’episodio dall’ambasciatore israeliano a Washington Michael Oren, non è data affatto dall’annuncio delle 1600 abitazioni, ma dal fatto che esso fosse avvenuto alla presenza di Joe Biden. Se fosse avvenuto due giorni dopo, questa reazione non si sarebbe avuta. Il messaggio, nemmeno troppo nascosto, è questo: passi la sostanza (ovvero: la costruzione di nuovi insediamenti), ma non potete scivolare sulla forma e la tempistica. Passi il contenuto del messaggio, non le sue modalità. Eppure, non è possibile non considerare la sostanza. E la sostanza dice chiaramente che la possibilità di tornare al tavolo negoziale è ogni giorno più lontana, anche per annunci come questo. La sostanza dice che è un’evidenza che questo Governo israeliano non abbia mostrato una effettiva volontà di tornare al tavolo dei negoziati, e che la controparte palestinese sia sempre più sfiduciata relativamente a tale opportunità. E, infine, la sostanza è che dopo quanto avvenuto, l’amministrazione Obama non può essere considerata un intermediario credibile tra le parti, se non riesce neanche a evitare simili annunci sugli insediamenti durante una visita diplomatica. E questa ormai appare un’evidenza non solo agli occhi palestinesi. L’ultima dimostrazione? Washington per rimediare all’incidente ha chiesto tre condizioni: il ritiro del via libera alle 1600 abitazioni, un gesto concreto di apertura nei confronti dei Palestinesi, l’inclusione dello status di Gerusalemme tra le tematiche da affrontare nei futuri negoziati. La risposta israeliana non si è fatta attendere: no. Obama annuncia che non vi è vera crisi tra le parti, ma intanto il New York Times parla di un nuovo annuncio (finora non confermato) di 309 abitazioni nel quartiere di Neve Yaakov, nell'area nord orientale di Gerusalemme. Avanti così, come se niente fosse. E il processo di pace? Sempre, sempre più lontano.
Alberto Rossi [email protected]
Foto 1: Reuters. Foto 2: Afp.