5 domande e 5 risposte – Negli ultimi giorni il mondo è stato scioccato nuovamente dagli scontri fra israeliani e palestinesi. Abbiamo provato a spiegarvi cosa sta succedendo attraverso 5 domande e 5 risposte.
1. COSA È SUCCESSO NEGLI ULTIMI GIORNI A GERUSALEMME?
Le ultime settimane del mese sacro di Ramadan, a cavallo fra aprile e maggio, hanno visto scoppiare nuove tensioni fra Israele e Palestina, sfociate nei noti attacchi degli ultimi giorni. In particolare, a partire dal pomeriggio di lunedì 10 maggio, razzi e raid aerei hanno turbato i cieli sopra Gaza e Tel Aviv, ed il cessate il fuoco sembra ancora lontano all’orizzonte. Gli ultimi dati riferiscono di 84 morti e quasi 500 feriti fra i palestinesi, fra cui 17 bambini, mentre 7 decessi, fra cui un soldato, nelle file degli israeliani.
La “causa prima” che ha scatenato gli eventi non si deve cercare nelle mire terroristiche di Hamas su Israele (come i principali media italiani – e non – sembrano suggerire), bensì in due specifici eventi: il dispiegamento di militari israeliani, e i seguenti scontri, alla Spianata delle Moschee (o Monte del Tempio, come è chiamato dagli ebrei) e nel quartiere di Sheikh Jarrah, sobborgo di Gerusalemme Est.
Negli ultimi giorni di Ramadan le Autorità di sicurezza israeliane avevano permesso a un numero limitato di fedeli musulmani l’accesso alla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. I primi malcontenti sono iniziati quando, per cercare di limitare i fedeli islamici in visita al luogo sacro, la polizia israeliana ha introdotto barriere contenitive davanti alla porta di Damasco, una delle otto porte (sette aperte) tramite cui si accede alla città vecchia di Gerusalemme.
Questa decisione ha accesso gli animi degli arabi, che hanno subito iniziato a protestare, seppure pacificamente, contro la decisione israeliana. Le proteste sono sfociate in scontri aperti quando le frange più faziose di entrambe le parti, ebrei ortodossi contro manifestanti arabi, sono venute allo scontro. Per provare a mantenere il controllo sulla situazione, la polizia israeliana ha iniziato a scagliarsi sulla protesta, creando il panico sulla Spianata delle Moschee, ferendo ed uccidendo diversi manifestanti arabi. Nella giornata di lunedì 10 maggio Hamas ha quindi inviato un ultimatum a Israele, chiedendo una ritirata delle forze israeliane dal luogo sacro, intimando conseguenze militari. Non essendosi verificata alcuna ritirata, Hamas ha iniziato il lancio di razzi verso Israele, seguito da altrettanti lanci e raid israeliani verso la Striscia di Gaza.
2. PERCHÉ A SHEIKH JARRAH SI PARLA DI ESPROPRIAZIONE
A esacerbare la situazione prima dell’inizio degli attacchi fra le parti era stato anche un altro avvenimento. Sempre lunedì 10 maggio la Corte di Giustizia israeliana si sarebbe dovuta pronunciare rispetto a possibili espropri di case nei confronti delle famiglie arabe residenti in due sobborghi di Gerusalemme est: Sheikh Jarrah e Silwan.
La pratica degli sfratti va avanti sin dalle orgini del conflitto arabo-israeliano e segue la legge israeliana secondo cui un cittadino ebreo ha il diritto di reclamare le proprietà che tra il 1948 e il 1967 furono assegnate ai palestinesi dalle Autorità giordane, ma un palestinese non può fare altrettanto con la propria casa occupata dagli israeliani. Peace Now, un gruppo di attivisti israeliani che si batte per una equa soluzione del conflitto, stima che circa 200 case che ospitano più di 3mila palestinesi in aree strategiche vicino alla Città Vecchia sono minacciate di sfratto, mentre 20mila case palestinesi in tutta la città sono sotto minaccia di demolizione.
La prospettiva, quindi, che più di 50 famiglie fra Sheikh Jarrah e Silwan potessero essere sfrattate da luoghi in cui, secondo il diritto internazionale, è loro diritto vivere, ha agitato le parti nelle ultime settimane. In particolare a Sheikh Jarrah diverse manifestazioni pacifiche di palestinesi si erano verificate durante tutto il Ramadan, interrotte anch’esse da interventi da parte della polizia israeliana e dalle frange più estremiste della destra israeliana, in particolare dall’organizzazione Lehava. Il tutto ha portato a un inasprimento dei toni e delle ripercussioni fra Hamas e Israele: la prima infatti ha colto l’occasione di sfruttare le tensioni per aumentare la propria visibilità e legittimità agli occhi dell’opinione pubblica palestinese.
3. OLTRE AGLI EVENTI SCATENANTI, QUALI POTREBBERO ESSERE LE REALI MOTIVAZIONI?
Non è la prima volta, e probabilmente non sarà neanche l’ultima, in cui si assiste a una escalation di tensioni e scontri tra Israele e Palestina. I fattori scatenanti sono diversi, ma le motivazioni di fondo permangono, in un conflitto in cui le parti non riescono a elaborare soluzioni politiche sostenibili e di lungo periodo. La narrativa sul conflitto perpetrata da entrambe le fazioni, soprattutto quelle estremiste, non lascia posto alla costruzione di un dialogo teso a compromessi necessari. Inoltre, se si osservano le dinamiche interne, si può comprendere come le azioni di violenza sono dettate anche da necessità politiche per Netanyahu e per Abu Mazen, i leader dei due Governi.
Netanyahu è riuscito a “congelare” lo stallo politico in Israele causato da un nulla di fatto alle recenti elezioni legislative del marzo scorso. La coalizione di destra che ha governato per la maggior parte dei 12 anni di mandato di Netanyahu ha ottenuto 59 seggi della Knesset, il Parlamento israeliano, sui 61 necessari per dare la fiducia a un esecutivo. Non si escludono quindi nuove elezioni o la formazione di nuove alleanze a sinistra che fanno tremare Netanyahu. Citando una situazione emergenziale a causa dei recenti attacchi, Netanyahu proverà quindi a rimanere più a lungo possibile al Governo, e nel frattempo trovare nuove soluzioni per evitare di essere sfrattato dalla propria posizione.
Al contempo Abu Mazen, che nei sondaggi prima delle elezioni (le prime dopo 15 anni) stava registrando pessimi risultati, ha deciso di sospendere sia le legislative che le presidenziali (previste per il 31 luglio) fino a data da destinarsi, per provare anch’egli a sopravvivere politicamente alle prossime consultazioni, salvaguardando la posizione di Fatah negli equilibri politici palestinesi. La decisone è stata annunciata a fine aprile, accusando Israele di aver complicato le condizioni per lo svolgimento del processo elettorale.
Hamas, a sua volta, sfrutta la situazione di tensione per guadagnare visibilità e legittimità (non potendo farlo tramite le elezioni) presentandosi come campione della causa palestinese. Se infatti Israele dovesse fare passi indietro, i leader di Hamas potrebbero dire di essere stati gli artefici di tale risultato grazie alla propria campagna di lancio di razzi dalla striscia di Gaza. Questo, a sua volta, costringe Israele a non mollare la presa per non mostrarsi deboli. Il risultato è l’attuale conflitto, il cui aspetto militare – dai risultati tanto devastanti per le popolazioni civili quanto poco rilevanti a livello pratico nei confronti dell’avversario – è legato strettamente a tali aspetti di consenso interno.
Fig. 2 – Il 13 maggio, giorno dell’Eid al-Fitr, ultimo giorno del mese sacro del Ramadan, i palestinesi protestano davanti alla moschea di Al-Aqsa, nella città vecchia di Gerusalemme
4. QUALE RUOLO POSSONO GIOCARE LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE E LE POTENZE REGIONALI?
Presa in contropiede dagli eventi, la comunità internazionale ha subito provveduto a mandare messaggi di cordoglio e sostegno soprattutto a Israele, intimando ad Hamas il cessate il fuoco. Una storia che si ripete e che non porta a nessuno sbocco per il conflitto. Stati Uniti ed Europa, mostrandosi scioccate dagli eventi e repentine nell’inviare tweet solidali durante gli attacchi, hanno però ancora una volta perso una possibilità di azione concreta per provare a stabilire un dialogo fra le parti. Biden potrebbe farsi forte del suo status diplomatico e si potrebbe porre come nuovo mediatore super partes, insieme all’Unione Europea. E, invece, entrambe le potenze sono rimaste immobili. Fino a quando USA e UE non riusciranno a superare le classiche dichiarazioni di condanna di rito e a spendersi realmente per una soluzione al conflitto al di fuori dell’ormai superato processo di pace di Oslo, le cose difficilmente potranno cambiare in meglio per israeliani e palestinesi.
Sul fronte arabo, invece, poche e deboli sono state le manifestazioni di sostegno verso i palestinesi, anche a motivo della recente “normalizzazione” di rapporti fra alcune potenze arabe della regione e Israele, attraverso gli Accordi di Abramo. E riguardo agli accordi di Abramo, di cui vi abbiamo parlato nel nostro speciale, la grande accusa mossa ai Paesi arabi firmatari è stata proprio quella di aver dimenticato la causa palestinese, di averla tradita in nome di interessi economici e strategici più grandi, senza che Israele abbia di fatto dovuto scendere a compromessi. I frutti di questa normalizzazione si possono infatti già vedere. Tranne che per la Giordania, da sempre vicina alla causa palestinese, dalle potenze arabe regionali sono arrivate solo fievoli dichiarazioni di condanna, senza messaggi di supporto concreto ai palestinesi. Il tutto ha stonato con la forte presa di posizione del Presidente turco Erdogan, il quale ha subito sfruttato l’occasione per inserirsi a gamba tesa nel conflitto. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma la formalizzazione delle relazioni con Israele manda un forte messaggio alla leadership palestinese, la quale si trova costretta a cambiare strategia, sempre più isolata e privata dell’appoggio regionale.
Fig. 3 – Manifestazioni a favore della causa palestinese sono avvenute anche a Milano, il 13 maggio in piazza Duomo
5. UNA PACE È POSSIBILE?
Nella consapevolezza che non possa esistere una Palestina senza Israele e viceversa, quello che ogni volta ci si auspica è la realizzazione di un dialogo costruttivo politico e diplomatico. Il compromesso rimane l’unica strada da percorrere, in cui le parti accettino la coesistenza nei limiti dei diritti reciproci.
È importante che gli scontri e le violenze non vengano strumentalizzati dalla politica interna ai fini della stabilità di un potere che ha bisogno di confrontarsi con la risoluzione di un conflitto ormai logorante e che necessita di una visione di lungo periodo. Ma una coesistenza pacifica nasce anche da una narrativa diversa sul conflitto e sulle cause che lo hanno generato, dall’educazione delle nuove generazioni alla pace, cercando di arginare le frange estremiste presenti su entrambi i fronti.
Paolo Sasdelli e Altea Pericoli
Immagine di copertina: Photo by rquevenco is licensed under CC BY-NC-SA