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Quanto conta lo Xinjiang

Focus sulla regione autonoma cinese e sui suoi abitanti, gli Uiguri. Un luogo in cui la questione nazionale e le rivendicazioni territoriali si intrecciano con diversi tentativi di ingerenza internazionali (Usa su tutti). Con le risorse energetiche a farla da protagonista, e, anche qui, la questione iraniana sullo sfondo

MILLE ANNI DOPO –  Taklamakan. Ovvero “luogo abbandonato”, secondo la traduzione ufficiale del termine di origine araba, o “colui che vi entra non ne uscirà”, se si dà fiducia ad una antica credenza popolare dello Xinjiang, l’immensa regione autonoma del nord-ovest cinese che ne è coperta per la maggior parte del suo territorio.

Duecentosettantamila chilometri quadrati di sabbia dorata e finissima che da millenni scoraggia viaggiatori ed avventurieri a tentare la via delle sue dune. Mille anni fa il monito valeva per quei mercanti che, proveniendo dalla prospera capitale Chang’an lungo la Via della Seta, pur di aggirarlo tentavano la sorte a Nord, scavalcando la catena montuosa del Tian Shan o a Sud, prendendo la via dell’Himalaya.

Oggi nelle sue sabbie rischia di sprofondare il fronte occidentale delle politiche di sicurezza di Pechino e, quel che è peggio, la questione nazionale si intreccia pericolosamente in un nodo di questioni di ingerenza internazionale, strategie di controllo e di accesso alle risorse, guerra al terrorismo e rivendicazioni territoriali.

Basti citare i confini orografici dello Xinjiang, che da nord a sud lambisce Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la regione del Kashmir, per capire come questa regione costituisca una naturale direttrice di influenza storico-culturale, un ponte di sabbia che dalla Cina si allunga fino all’Iran.  

GLI UIGURI – La popolazione Uyghur, un tempo l’etnia dominante, preferisce riferirsi alla propria terra come al “Turkestan orientale” piuttosto che utilizzare il termine coniato dall’etnia Han, Xinjiang, ovvero “nuovi territori”. Quella che a noi può sembrare una disputa priva di rilievo, si inserisce a pieno titolo nel novero di quelle barriere culturali quali la lingua, la religione, i costumi e le tradizioni popolari che contribuiscono ad innalzare un vero e proprio muro tra i due gruppi etnici. Oggi un ragazzo nato a Kashgar o ad Urumqi si sente più vicino ad un fratello musulmano di Tashkent, nell’Uzbekistan, rispetto ad un connazionale di Shanghai. Ne condivide la musica, il cibo, la preghiera. Non bisogna dimenticare la continuità territoriale tra l’estremo oriente e l’altopiano iranico, rappresentata dai tagiiki di etnia e lingua persiana.

QUESTIONE IRAN – La cronaca quotidiana ci restituisce il teatro eurasiatico come il terreno chiave sul quale si giocherà il confronto tra Stati Uniti e Cina nel breve periodo. Comprendere a fondo le dinamiche, non solo economiche ma anche politiche e sociali che caratterizzano i territori compresi tra Baghdad e Urumqi, rappresenta una chiave interpretativa indispensabile.

La situazione è delicata. Stati Uniti, Russia e Cina giocano ormai a carte scoperte. Washington cerca di conquistarsi le simpatie delle ex repubbliche sovietiche allontanandole dall’influenza politica russa e in ottica anti iraniana. L’equilibrio di potenza è garantito dalla forza opposta, esercitata da Pechino a sostegno della politica di Teheran. Nel mezzo sta l’invidia storica degli Uyghur per l’autonomia conquistata dalle vicine repubbliche eurasiatiche dopo il crollo dell’Urss nel 1991.

Il veto cinese alle sanzioni proposte da USA ed Unione Europea nei confronti dell’Iran, nell’ottica di un’interruzione della rincorsa al nucleare, non ha nulla a che vedere con il legittimo diritto allo sviluppo del settore o con la strenua difesa del principio di autodeterminazione dei popoli. E’ inevitabile leggere la strategia cinese nell’ottica di una consapevole ed efficace realpolitik.  

RISORSE D'ORO (NERO) – Di fatto la Regione autonoma dello Xinjiang resta un tassello inamovibile per l'economia cinese. A partire dai 12 miliardi di metri cubi di gas che la città di Tarim Basin sforna per l'est del Paese lungo una mastodontica pipeline di 3.900 km costruita nel 2002 per il costo di 24 miliardi di dollari. Secondo una pubblicazione ufficiale risalente ad ottobre 2007, la Sinopec (China Petroleum & Chemical Corporation), gruppo petrolifero e petrolchimico integrato cinese, controllato per il 75% dal governo tramite la quasi omonima China Petrochemical Corporation, nonché la più grande azienda cinese per fatturato, avrebbe trovato immensi giacimenti di petrolio proprio nel deserto dello Xinjiang.

Le stime riferiscono che il complesso estrattivo di Tahe, situato nella regione di Tarim e scoperto nel 1998, ha fornito sino ad oggi 780 milioni di tonnellate di riserve petrolifere, con un'estrazione media che si accresce di 100 milioni di tonnellate ogni anno e che toccherà il miliardo di tonnellate entro il 2010 150. L'intera risorsa, sostiene Kang Yuzhu, ricercatore che lavora per Sinopec Exploration & Production Research Institute, dovrebbe ammontare a circa 4 miliardi di tonnellate ma non è escluso che si tratti di una stima pessimistica. Questo avvicinerebbe la capacità estrattiva della provincia autonoma cinese a quella record dei complessi estrattivi di Bahrein, Iran, Iraq e Quwait. Il rifornimento per l'inesauribile sete del gigante asiatico sarebbe assicurato per i prossimi anni.

Questo spiega di fatto l’azione cinese, che si riassume in una duplice strategia: repressione decisa delle spinte autonomiste del popolo Uyghur sul piano interno e rivendicazione della continuità culturale tra Xinjiang ed Iran sul piano internazionale. Per il Paese dell’economia socialista di mercato questa è solo un’altra sfida. 

 

Francesco Boggio Ferraris

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