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In drones we trust

L’impatto dei velivoli pilotati a distanza sulla proiezione strategica della politica estera americana è stato superiore alle attese. A dimostrazione di ciò negli ultimi mesi si è sviluppato un intenso dibattito sulle cause e sugli effetti dell’impiego degli Unmanned Aerial Vehicles – UAV (conosciuti come droni), sia dal punto di vista politico, sia da quello giuridico.

 

LA MANO NASCOSTA – Diversi commentatori internazionali hanno rilevato come il “fattore drone”, sviluppato quale misura per arginare e combattere una specifica organizzazione terroristica, cioè al-Qaeda, sia diventato uno degli aspetti principali della politica estera di Obama. Basti ricordare come storici e giornalisti americani (tra cui Jim Newton o Peter Baker) abbiano paragonato lo stile del secondo mandato del Presidente a quello della hidden hand di Eisenhower, evitando un approccio frontale ai conflitti principali, ma garantendo una presenza concreta a protezione degli interessi americani attraverso operazioni speciali e covert actions. Oltre alla volontà di una minore visibilità mediatica e alla questione dei drastici tagli al bilancio della difesa (tema già affrontato sul “Caffè”) esiste una preferenza politico-strategica nell’utilizzo dei droni come braccio operativo della propria politica. Nel discorso del 23 maggio alla National Defense University, Obama ne sintetizza bene il contenuto, affermando che, esaminando le alternative, i rischi supererebbero i vantaggi. Le operazioni speciali simili a quelle che hanno portato all’uccisione di Osama Bin Laden sono altamente rischiose per le forze coinvolte, poiché queste si trovano in territori ostili e senza la necessaria protezione. Le forze aeree convenzionali e i tradizionali attacchi missilistici sono molto meno precisi dei droni e, secondo le fonti ufficiali, causerebbero un maggiore numero di morti tra i civili. L’invasione e l’occupazione dei territori, infine, non sono più opzioni praticabili al momento, sia per via dei costi umani ed economici, sia per la direzione politica degli ultimi anni.

Le questioni sollevate sull’orientamento strategico nella lotta al terrorismo non sono, però, trascurabili e hanno carattere sia politico che giuridico con una dimensione sia domestica che internazionale. La valutazione critica risulta da una mancanza di trasparenza e di controllo politico degli attacchi, dal possibile coinvolgimento di obiettivi di cittadinanza americana, dalle prerogative presidenziali in questioni di sicurezza nazionale e dalla eventuale violazione di norme del diritto internazionale.

 

NUOVE LINEE GUIDA – Sempre nel suo discorso dello scorso 23 maggio, Obama ha cercato di tracciare una linea più chiara sull’utilizzo della forza letale per combattere il terrorismo. Innanzitutto ha voluto precisare che non si intende utilizzare i droni come sostituti alla giurisdizione civile e militare verso individui ritenuti essere terroristi. Infatti gli standard elencati dal Presidente USA sono volti a circoscrivere l’uso della forza per evitare o fermare uno o più attacchi contro cittadini statunitensi. Concretamente le condizioni per intervenire al di fuori di una zona di guerra, utilizzando la deadly force, sono quattro:

1. Le operazioni devono avere una base legale all’interno dell’ordinamento statunitense.

2. Attacchi mortali potranno essere inflitti solamente in caso di minaccia imminente per cittadini statunitensi e non di una minaccia generica.

3. A livello operativo, prima di impiegare mezzi e metodi letali, è necessario avere la ragionevole convinzione che:

– l’obiettivo sia presente;

– non siano feriti o uccisi “non-combattenti” (categoria stabilita con limiti più stringenti rispetto a quelli generalmente contenuti nelle convenzioni internazionali);

– la cattura non sia praticabile nel caso di specie;

– il Governo del Paese in cui si agisce non possa o non voglia prendere le giuste misure per eliminare la minaccia posta ai cittadini americani;

– non esista un’azione alternativa e ragionevole per porre fine a tale minaccia.

4. Le operazioni devono rispettare i limiti imposti dal diritto internazionale.

Altri standard riguardano la presenza di cittadini americani nell’area interessata e la possibilità che essi si rivelino obiettivi degli attacchi degli aerei a comando remoto. In questo caso sarà necessario coinvolgere il Dipartimento di Giustizia in un’indagine volta ad accertare l’esistenza di una base legale ulteriore per procedere all’azione. Infine è presente una garanzia generica nel coinvolgere il Congresso, tenendolo informato delle incursioni avvenute e costituendo dei comitati per migliorare la trasparenza sull’uso dei droni nelle operazioni di lotta al terrorismo in territorio straniero.

 

QUESTIONI DOMESTICHE – La base legale nell’ordinamento americano è costituita principalmente dall’Authorization for the Use of Military Force Act, emanato nel settembre 2001 per legittimare il Presidente a usare la forza contro gli individui o i gruppi responsabili degli attacchi dell’11 settembre. In realtà questa norma andrebbe rivista e attualizzata, poiché le organizzazioni associabili ad al-Qaeda sono cambiate e si sono sviluppate molto negli ultimi dodici anni, al punto che nessuna di esse potrebbe, in teoria, essere ritenuta materialmente responsabile dell’attacco al World Trade Center. Inoltre il Presidente gode di un’ampia discrezionalità nell’autorizzare l’impiego della forza per legittima difesa e in situazioni di eccezionale pericolo per la sicurezza nazionale. I presupposti nell’ordinamento interno potrebbero quindi essere riscontrati nella constitutional authority del Presidente. La questione, però, è principalmente politica. Il fatto che la maggior parte del comando delle operazioni dei droni sia ancora in mano all’agenzia di intelligence (CIA) e non al Dipartimento della Difesa non aiuta in termini di trasparenza e di assunzione della responsabilità politica di tali azioni. Se né il Governo né il Congresso hanno il pieno controllo su dove e contro chi sono rivolti gli attacchi, ne risente l’autorevolezza dell’Amministrazione e dello stesso Obama. Assicurazioni sono state fatte in merito a uno spostamento della gestione degli strike dalla CIA al Pentagono, anche se è difficile pensare che l’intelligence americana si privi di uno strumento così efficace in tempi brevi.

 

Direttore della CIA
Il Direttore della CIA

I DRONI VISTI DA FUORI – Differenti sono le critiche sollevate in ambito internazionale. Secondo il diritto internazionale, uno Stato non può ricorrere all’uso della forza nelle relazioni internazionali. Gli Stati Uniti si sono avvalsi di due eccezioni a tale divieto, per giustificare le azioni dei droni in territorio non americano e in assenza di uno stato di belligeranza. La prima eccezione è il consenso dello Stato leso. Infatti, per quanto riguarda soprattutto le incursioni in territorio pakistano, si è avuta, sia durante l’Amministrazione, Bush sia nei primi anni di Obama, una certa accondiscendenza da parte del Governo pakistano (in particolare dei servizi segreti che tentavano di limitare il fenomeno terroristico nel proprio territorio). Con l’intensificarsi degli attacchi dei droni americani e il riassestarsi di un nuovo equilibrio all’interno del Pakistan, sembra venuto meno in quell’area il consenso, anche informale, verso tali operazioni. L’altra eccezione è quella riguardante la legittima difesa. Le dichiarazioni ufficiali del governo USA riportano che gli interventi con i droni, rivolti principalmente contro i leader di al-Qaeda, sono interventi di legittima difesa in quanto inerenti a un armed conflict tra Stati Uniti e al-Qaeda. L’esistenza di un conflitto armato che richiederebbe una reazione di difesa legittima non è, però, condivisa dalla maggior parte della comunità internazionale (alleati degli Stati Uniti compresi). Considerate le problematiche che suscita questa tipologia di azione, non sembra intenzione dell’Amministrazione Obama utilizzare, per il momento, i velivoli a controllo remoto in teatri quali l’Iraq e la Siria, se non in ambito di un intervento multilaterale, autorizzato dalle Nazioni Unite.

Davide Colombo

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Davide Colombo
Davide Colombo

Sono laureato in Relazioni Internazionali con una tesi sulla politica energetica. Ho frequentato un master in Diplomacy. Mi interesso e scrivo soprattutto di Stati Uniti. Le opinioni espresse negli articoli sono personali.

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