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Goodbye dollar?

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Cina e Brasile si starebbero accordando per non utilizzare più il dollaro negli scambi bilaterali. Una notizia piccola ma che potrebbe rappresentare (nel lungo periodo) una svolta epocale. Cerchiamo di capire insieme, riguardando anche il ruolo del dollaro nei decenni precedenti, perché la crisi internazionale ha investito anche il bigliettone verde

L’INTESA – I governatori delle banche centrali di Cina e Brasile  hanno annunciato, a latere della riunione della Banca dei Regolamenti Internazionali che si è tenuta a Basilea, di aver raggiunto un accordo di massima in cui hanno stabilito che i loro scambi bilaterali non avverranno più utilizzando il dollaro come moneta di pagamento internazionale. La proposta era stata discussa anche pochi giorni prima in occasione del vertice dei BRICs. 

PUNTATE PRECEDENTI – Si tratta di un cambiamento nella politica monetaria di questi Paesi, la cui importanza non va affatto trascurata. Facciamo qualche passo indietro per capire meglio. A partire dal 1971, data in cui il Presidente americano Nixon aveva sospeso la controvertibilità del dollaro in oro, la moneta americana era di fatto diventata la moneta con cui avvenivano le transazioni internazionali, incorporando accanto alla funzione di mezzo di pagamento quella di valuta di riserva. Il dollaro si era così trovato a dover essere contemporaneamente moneta nazionale e moneta internazionale, dovendo garantire allo stesso tempo la stabilità interna negli Stati Uniti e la crescita del Paese stesso e del mondo interno, “finanziandolo” interamente. La fiducia riposta dagli investitori internazionali, e di cui tanto oggi si parla, era nella capacità del dollaro di essere garante di una luna di miele globale in grado di far funzionare il sistema economico mondiale, garantendo liquidità continua, fino ad un ipotetico ma lontano momento di crisi di questa architettura senza architetto.       

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UN PUGNO DI AI DOLLARI –  Leggere la manovra sino-brasiliana come la fine del dollar standard tuttavia sarebbe forse eccessivo, ma la comunità internazionale dovrebbe riflettere forse più seriamente di quanto fatto fino ad ora sulle tanto auspicate riforme e revisioni delle regole, di cui tanto si è parlato e si parla, a seguito della crisi internazionale che ha investito in molti Paesi la finanza prima e l'economia reale poi. L'accordo tra Cina e Brasile dovrebbe suonare come monito per quelle regole che più di tutte andrebbero riviste, e che anzi andrebbero scritte per la prima volta, ovvero quelle riguardanti il sistema monetario internazionale. L'utilizzo di un'unica moneta emessa a garanzia degli scambi internazionali, divenuta essa stessa oggetto di scambio, ha creato un'enorme confusione nell'era della globalizzazione: la Cina si trova oggi a detenere nelle sue banche un volume di titoli di debito USA, pari a circa 518,7 miliardi di dollari (il dato è riferito a luglio 2008), a copertura dei crediti commerciali vantati nei confronti degli Stati Uniti. Il governatore della banca centrale cinese (People's Bank of China), Zhou Xiaochuan, ha già espresso, in un documento del 23 marzo scorso, la propria preoccupazione in tal senso, chiedendo un sistema internazionale basato su più di una sola moneta come strumento di riserva.

IPOTESI KEYNES? – Nessuno finora sembra invece aver preso in considerazione l'idea che il piano di Keynes presentato a Bretton Woods nel 1944 aveva lanciato in merito al sistema monetario internazionale, ovvero di un sistema che non si basasse più sul principio di liquidità e la procrastinazione del pagamento dei debiti da parte degli Stati, bensì su quello del clearing, che invece proprio tale pagamento avrebbe non soltanto reso possibile ma anche imposto. La proposta di abolire il dollaro come unità comune di pagamento è un possibile approdo, ma non ancora del tutto scontato. La Cina, infatti, è il principale detentore mondiale di riserve monetarie in dollari e non ha l'interesse che la valuta statunitense perda valore. Se infatti il dollaro venisse usato di meno per le transazioni internazionali, si svaluterebbe ulteriormente e il valore delle riserve presenti nelle casse di Pechino si eroderebbe in maniera sensibile. E' dunque chiaro che le grandi potenze stanno cercando di "emanciparsi" dal dollaro, ma tale processo avverrà in maniera graduale.

Anna Longhini

Rifiuto e vado avanti

Il Fondo Monetario Internazionale vorrebbe concedere un prestito alla Turchia per supportarla nelle difficoltà dovuta alle ricadute interne della crisi economica internazionale. Ma quella che, secondo una previsione di Goldman Sachs, sarà la terza economia d’Europa entro il 2050, per ora declina l’offerta

MAMMA LI TURCHI? NON PROPRIO – Che la Turchia non è più un Paese in via di sviluppo da tempo è meglio tenerlo ben presente. La capacità della élite politica al governo oggi è decisamente importante ed è tale che il governo turco sembra avere deciso di voler ancora procrastinare il raggiungimento di un accordo con il Fondo Monetario Internazionale. Tale accordo  – tecnicamente detto “stand-by agreement”- che, nella finalità per cui è pensato è utile a colmare le difficoltà della bilancia dei pagamenti del Paese cui si rivolge, secondo molti analisti potrebbe avere ricadute positive nell’aiutare la Turchia a superare l’attuale crisi economica (i dati della produzione industriale dell’anno in corso, ad esempio, sono stati pesantemente negativi in molti comparti, come quello manifatturiero). Il 10 ottobre scorso, tuttavia, nel bilancio previsionale  per il 2010, presentato per l’approvazione in Parlamento,  dove si dovevano decidere misure ad hoc  sulla crisi economica, non era presente alcun riferimento specifico ad un potenziale accordo con il Fondo Monetario Internazionale. Un chiaro segnale quello proveniente dal governo turco, ovvero di non desiderare, come anche dichiarato dal Ministro di Stato con delega all’Economia Ali Babacan a margine del seminario “Crisis, Economic Recovery and Structural Reform in Emerging Europe and Asia” (tenutosi quasi parallelamente al meeting annuale tra Fondo Monetario e Banca Mondiale a İstanbul il 6 e 7 ottobre scorso) l’intervento del fondo.  

UNA DECISIONE POLITICA – La decisione di accettare o meno gli aiuti è chiaramente politica ed il governo turco sembra per ora voler essere il solo artefice del superamento della crisi, considerando anche il fatto che, come fanno notare molti economisti, la situazione della bilancia dei pagamenti turca sta andando via via normalizzandosi. Superare la crisi senza aiuti esterni sarebbe un chiaro segnale non soltanto in politica interna, un successo che contribuirebbe a rafforzare ulteriormente il consenso del governo nei confronti dell’elettorato, ma anche nello scenario politico internazionale, dando prova di essere un Paese con un peso specifico sempre maggiore.

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IL SETTORE PRIVATO – Un eventuale accordo servirebbe più che altro per aiutare il settore privato a far fronte alle richieste delle imprese in crisi. Date le grandi iniezioni di liquidità nel sistema, la Banca Centrale Turca (CBT) potrebbe trovarsi con mezzi liquidi scarsi nel 2010 e questo rischierebbe di provocare una stretta creditizia che danneggerebbe gli industriali, già duramente colpiti.  

ACCORDO RIMANDATO? – Anche per questo l’accordo sarà sicuramente rimandato al 2010, così da lasciare altro margine di tempo al governo per valutare se la situazione economica dovesse continuare a richiedere l’intervento del fondo. In tal caso, allora, si potrebbe finalmente concludere l’annosa trattativa tra la Turchia e il Fondo Monetario. La possibilità di un accordo resta, infatti, pur sempre sul tavolo. Ma muovendosi d’anticipo, Babacan ha recentemente dichiarato che la discussione dovrebbe vertere sul programma presentato dal governo al fondo e che solo su tali basi la trattativa potrebbe finalmente concludersi. In tal caso, la decisione troverebbe certamente d’accordo gli industriali turchi, che vedono nell’afflusso di capitali un aiuto positivo nei confronti della ripresa.  

Anna Longhini

Lo strike torna di moda

Un anno dopo, in Israele si ritorna prepotentemente a parlare di attacco preventivo all’Iran, un lancio di missili (strike, appunto) per impedire lo sviluppo del nucleare

QUALE SPETTACOLO?                     La miglior difesa è l’attacco, dicono i tecnici di calcio con spiccate propensioni allo spettacolo. Un tale motto ben si addice anche al ritorno di fiamma che in questi giorni si respira in Israele relativamente alla minaccia nucleare iraniana. Lo spettacolo, però, in questo caso sarebbe devastante. Catastrofico, per l’esattezza: questa la definizione di ieri del premier francese Sarkozy.

UN ANNO FA                    Facciamo qualche passo indietro, per capire meglio. Da quando Ahmadinejad agita lo spauracchio nucleare, confessando contemporaneamente il desiderio di cancellare Israele dalle cartine geografiche, nel Paese israeliano la preoccupazione è andata sempre più crescendo, e sovente si è pensato, appunto, che il miglior modo per difendersi da tali minacce sia renderle impraticabili, attaccando preventivamente l’Iran per impedirgli di raggiungere l’agognato nucleare. Il fatto che poi, anche con il nucleare tra le mani, appare poco probabile che Teheran attacchi Israele (una gaffe del 2007 dell’ex Presidente francese Chirac a proposito nascondeva una grande verità: “Non mi preoccupa il nucleare iraniano. L’Iran sa fin troppo bene che se lanciasse qualsiasi cosa contro Israele, mezz’ora dopo Teheran sarebbe rasa al suolo”), conta assai poco.In particolare, proprio un anno fa di questi tempi si discutevano animatamente e pubblicamente in Israele i piani di attacco all’Iran: uno strike di trenta giorni, un lancio continuo di missili contro gli obiettivi prefissati. Già si parlava delle date: il tutto sarebbe avvenuto tra Novembre 2008 e Gennaio 2009. Un periodo a caso? Tutt’altro. Quei due mesi segnavano l’interregno tra Presidente uscente ed entrante degli Stati Uniti. In assenza di una guida nella pienezza dei suoi poteri a Washington, gli Israeliani si sentivano legittimati ad attaccare. Il gatto non c’è, i topi ballano, tanto per capirsi. Tutto è poi saltato, sia per una comunque forte opposizione interna a tali piani, anche tra i più alti vertici militari (il Ramatkal, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Gabi Ashkenazi, dichiarò in proposito poco meno di un anno fa: “Se attacchiamo l’Iran, la pagheremo per i prossimi 100 anni”, frase significativa per un Paese che di anni ne ha solo 60), sia per la debolezza del Governo, con un premier dimissionario come Olmert che non poteva certo permettersi un conflitto con l’Iran. Se è vero che un Governo già segnato ha combattuto un conflitto a Gaza tra dicembre e gennaio, questo non è paragonabile per portata e conseguenze a uno scontro con il nemico iraniano.

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PARLA IL MOSSAD            Perché, un anno dopo, Israele ha ripreso a parlare di attacco all’Iran? La questione che allarma non è quella relativa alle proteste post-elettorali, che a parere del Mossad (l’intelligence israeliana) avranno vita breve, dato che il Leader supremo Khamenei appoggia Ahmadinejad. Il punto centrale è sempre lo sviluppo del nucleare. Il 16 giugno scorso, il capo del Mossad Meir Dagan ha riferito alla Commissione Affari Esteri della Knesset, il Parlamento israeliano, che l’Iran entro il 2014 avrà una bomba nucleare pronta per essere lanciata, definita “una grave minaccia all’esistenza dello Stato di Israele, che deve essere allontanata”. Da allora, la questione Iran è ritornata prepotentemente al centro della scena israeliana, e con essa l’idea dell’attacco come miglior difesa (anche perché il Governo attuale non è solido, ma neanche cronicamente debole come quello di Olmert). 

BIDEN, CHE GAFFE          Una frase effettivamente ambigua del Vicepresidente Usa Joe Biden ha inoltre scatenato un putiferio. “Israele è uno Stato sovrano, anche se gli Stati Uniti non fossero d’accordo non potrebbero impedire un attacco contro l’Iran”. Apriti cielo. Quello che è stato per tutti, israeliani in primis, un via libera a qualsiasi azione che il Governo Netanyahu (foto) avesse ritenuto opportuna, è stato prontamente smentito da Obama, (“Via libera? Assolutamente no”), con una posizione avvallata dal Capo degli Stati Maggiori riuniti statunitense, ammiraglio Mike Mullen (“Un attacco all’Iran è all’ordine del giorno, ma avrebbe conseguenze gravi e imprevedibili. La risposta di un paese attaccato mi preoccupa. Una strada da non imboccare, da evitare con tutti i mezzi possibili”) e dal Presidente francese Sarkozy (“Israele deve sapere che non è solo, e deve considerare la situazione con calma”). 

ASCOLTATE ASHKENAZI             Scenari futuri? L’attacco all’Iran pare veramente improbabile allo stato attuale delle cose. Il fronte interno israeliano è tutt’altro che compatto, diversamente dalle potenze occidentali, per una volta completamente concordi, che bocciano senza appello una simile eventualità. La nostra impressione è che chi ha visto giusto è Ashkenazi, Capo di Stato Maggiore israeliano. Se Israele attaccasse, la pagherebbe davvero per un’eternità, e davvero rischierebbe di mettere gravemente a repentaglio la sua  stessa esistenza.  La miglior difesa è l’attacco è un concetto che può funzionare (forse) al Real Madrid, non certo in un caso come questo, dove le conseguenze potrebbero essere talmente nefaste da non riuscire nemmeno ad immaginarle sino in fondo.  

Alberto Rossi [email protected]

Hamas lo vuole morto

Arrestati alcuni attivisti di Hamas che volevano uccidere il Presidente palestinese Abu Mazen. L’obiettivo è chiaro: far naufragare i colloqui di riconciliazione con Fatah, e provare a prendere anche il controllo della Cisgiordania. Ecco come

IL PIANO – Una decina di attivisti di Hamas, arrestati dalle forze di sicurezza palestinesi, hanno confessato di seguire da tempo i movimenti di Mahmud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen, per venire a conoscenza dei dettagli relativi alle sue forze di sicurezza personali, al chiaro scopo di assassinare il Presidente palestinese. Il Segretario dell’Autorità Palestinese, Taib Abd-Arahim, ha svelato i dettagli dell’operazione. L’arresto è avvenuto lunedì 29 Giugno. Gli uomini arrestati, tutti di un’età compresa tra i 25 e i 30 anni, avevano con sé armi, mappe e fotografie di molti degli uomini più importanti dell’Autorità Palestinese. Fonti delle forze di sicurezza palestinesi hanno dichiarato che nelle confessioni degli uomini arrestati sono emersi chiaramente i tentativi di attaccare le istituzioni palestinesi, eliminando diversi uomini di spicco dell’Autorità Palestinese. In particolare, è emerso come questi seguissero con attenzione gli spostamenti di Abu Mazen, per tentare di ucciderlo. 

COMMENTI – A seguito di quanto avvenuto, il portavoce di Fatah, Fahmi Zarir, ha dichiarato che “L’intento di Hamas è evidente: fare naufragare i colloqui di riconciliazione in corso al Cairo tra Hamas e Fatah,facendo tornare il caos in Cisgiordania, dopo che negli ultimi due anni abbiamo assistito ad un crescente livello di sicurezza sul territorio”. Un portavoce dell’ala militare di Hamas ha negato con forza (come era prevedibile) qualsiasi collegamento tra questi uomini e Hamas stesso. Di certo, però, se questi legami fossero reali, quanto accaduto sarebbe un segnale chiaro non solo della volontà di Hamas di far naufragare i colloqui del Cairo, ma anche della volontà di perpetrare un vero e proprio tentativo di colpo di stato ai danni dell’Autorità Palestinese.   

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ALTRO CHE RICONCILIAZIONE              Ulteriori indizi a sostegno di questa volontà provengono dalle parole del portavoce delle forze di sicurezza palestinesi, Adnan Ad-Damiry, che ha annunciato il sequestro da parte delle forze di sicurezza della Cisgiordania di ingenti quantità di armi ed esplosivi posseduti da Hamas nei distretti di Nablus, Qalqilya ed Hebron. Armi ed esplosivi, sostiene Ad-Damiry, destinati ad essere usati “in maniera abominevole” contro le forze dell’Autorità Palestinese.La strategia di Hamas in Cisgiordania è ormai chiara agli occhi delle forze di sicurezza palestinesi. Sono diversi ormai gli appartamenti acquistati e trasformati in centri operativi di collegamento tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Da qui partono i piani volti ad eliminare alcune cariche dell’Autorità Palestinese e a minacciare la sicurezza della regione.Le forze palestinesi hanno inoltre sequestrato in questi centri 8,5 milioni di dollari entrati illegalmente in Cisgiordania, per finanziare e sostenere la forza militare di Hamas in Cisgiordania.Dall’altra parte, Hamas denuncia la massiccia ed indiscriminata campagna di arresti dei suoi attivisti in Cisgiordania. Anche sabato si sono registrati quattro nuovi arresti, tra cui uno ai danni di una donna, a Qalqilya, Tulkarem e Nablus. Hamas accusa Fatah di torturare tali prigionieri in carcere, e chiede il rilascio almeno della donna arrestata, dichiarando agli ufficiali egiziani, ai leader dei partiti palestinesi e alle organizzazioni umanitarie che “occorre interrompere questa manipolazione del destino palestinese, mostrando la verità sulle persone arrestate e torturate”. Questa la risposta di Ad-Damiry: “Vengono arrestati solo gli uomini sospettati di contrabbando di armi o denaro. Continueremo il nostro lavoro fino a quando Hamas non smetterà di pianificare i suoi atti illegali, così come fa nella Striscia di Gaza, per mantenere la sicurezza nella regione. La verità è che se arrivasse uno Tsunami sulla Cisgiordania, Hamas direbbe che è colpa dell’Autorità Palestinese”.

 SCENARI NEFASTI – La storia di questi luoghi ci insegna che tutto può cambiare da un momento all’altro. Ma i fatti degli ultimi giorni ci dicono chiaramente che i tentativi di riconciliazione tra Hamas e Fatah sinora non stanno portando ad alcun frutto positivo. E senza questi frutti, difficilmente nel breve periodo gli scenari palestinesi saranno diversi da un caos generale ed indiscriminato. 

Alberto Rossi [email protected]

Scontenti tutti

Dopo lo storico discorso di Obama al Cairo, Bibi Netanyahu, nel suo speech  relativo ai rapporti con la controparte palestinese, ha provato a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, per accontentare tutti. Obiettivo fallito. Ecco perché

DUE STATI? SI’, MA…           Much ado about nothing, direbbe Shakespeare. Tanto rumore per nulla. Il tanto atteso discorso di Benjamin “Bibi” Netanyahu all’Università religiosa Bar-Ilan di Tel Aviv non segue la scia di quello pronunciato da Barack Obama al Cairo, dove il Presidente Usa aveva annunciato che la formula “Due popoli, due stati” era l’unica da prendere realmente in considerazione. L’annuncio tanto auspicato del “sì a uno Stato palestinese” è infatti arrivato, ma accompagnato da una serie di distinguo tale da svuotare completamente di significato tale apertura. Uno Stato palestinese smilitarizzato, che riconosca Israele come Stato del popolo ebraico; nessuna concessione sul ritorno dei profughi né – soprattutto – su Gerusalemme, che dovrà rimanere capitale indivisibile dello Stato ebraico; nessuna dichiarazione relativo al congelamento degli insediamenti ebraici esistenti nei Territori Palestinesi, nonostante l’affermazione di non volerne costruire di nuovi. Sediamoci subito al tavolo a trattare, propone Netanyahu. A queste condizioni, però, al tavolo non sarà possibile nemmeno avvicinarsi. 

LE REAZIONI: QUI TEL AVIV       In Israele, il discorso di Netanyahu ha raccolto consensi (in particolare, va menzionato l’autorevole apprezzamento giunto pubblicamente dal presidente dello Stato Israeliano Shimon Peres), soprattutto tra i sostenitori, ma certo non ha entusiasmato. I sondaggi sono compatti nel mostrare come gli Israeliani si dicono certi che il premier abbia pronunciato un tale discorso a causa della crescente pressione americana, e che nei prossimi anni non vi saranno significativi cambiamenti, né tantomeno uno Stato Palestinese. Il discorso ha suscitato caute aperture da parte del partito di centro Kadima, mentre grandi critiche sono arrivate dagli estremi. Se appare scontata l’opposizione dei Partiti arabi, che fanno leva sulle contraddizioni del premier, significativa è la presa di posizione dei Partiti di estrema destra. Secondo il Partito Nazionale Religioso e il Jewish Home Party, infatti, l’apertura nei confronti di una soluzione a due Stati viola le promesse fatte da Netanyahu, e pone a rischio la stessa tenuta della coalizione. Il dramma del premier è dunque quello di essere tra due fuochi: se segue le intenzioni di Obama, perde il supporto di una parte numericamente fondamentale della coalizione; al contrario, se accontenta l’estrema destra, pone a serio rischio i rapporti con lo storico alleato americano. Il tentativo di stare là in mezzo nel guado però per ora non accontenta nessuno.

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LE REAZIONI: QUI RAMALLAH  Non ha citato il Corano come Obama. Ma non è certo per questo che i Palestinesi hanno accolto assai male il discorso del leader del Likud. Le condizioni dei Palestinesi per un accordo sono note da anni: fine dell’occupazione, smantellamento degli insediamenti, ritorno dei profughi, Gerusalemme capitale di uno Stato palestinese sovrano. I margini per trattative e compromessi su tali punti sono da sempre esigui, e questa rigidità ha contribuito in maniera ingente durante il processo di Oslo nel far naufragare le speranze di accordo. Stando così le cose, le “concessioni” di Netanyahu appaiono risibili. Come sostiene Mahmud Abbas (Abu Mazen), Presidente palestinese, le parole del premier israeliano rappresentano un “sabotaggio” del processo di pace. Interessante a proposito la posizione di Saeb Erekat, storico leader dei negoziatori palestinesi: “Il discorso di Netanyahu segna la fine unilaterale delle negoziazioni e delle possibilità di pace. Egli dovrà aspettare mille anni prima di vedere i Palestinesi sedersi al tavolo a tali condizioni”.

OBAMA E LE TENDINE – E ora? Il punto cruciale, in questo momento, è rappresentato dal congelamento degli insediamenti. La posizione del Governo di Tel Aviv è chiara: nessun nuovo insediamento, ma netto rifiuto (ribadito da Lieberman, Ministro degli Esteri israeliano, a Hillary Clinton) relativo al congelamento degli insediamenti, che devono proseguire la loro crescita naturale. Su questo punto non vi è intesa con Washington, che chiede di applicare le indicazioni della Road Map, piano di pace proposto dal Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia) durante la Seconda Intifada e che prevedeva lo stop immediato agli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi. Obama ha fatto sapere di apprezzare il passo avanti di Netanyahu, ma è chiaro che questa lieve apertura non basta. Al di là del fronte Iran (ottenere rassicurazioni dall’Iran sul nucleare per spingere Israele a concessioni sul fronte palestinese: questo il piano americano), Obama vuole di più. Anche perché,in tutta franchezza, per arrivare ad un compromesso le questioni sono molteplici. Prendendo per buono il paragone, per arrivare ad un compromesso, Israeliani e Palestinesi dovranno un giorno decidere di affrontare la loro “disputa condominiale”, decidendo chi si prenderà la cucina, chi il salotto, chi la camera da letto e così via. Tali stanze rappresentano nodi assai intricati. Nel paragone “domestico”, non trovare un accordo relativo alla crescita naturale o al congelamento degli insediamenti equivale più o meno a litigare su chi si dovrà prendere le tendine del bagno. Un dettaglio importante, per carità. Ma se è così per le tendine, figurarsi il resto.

Alberto Rossi [email protected]

Nella foto, veduta del più grande insediamento israeliano, Ma'ale Adumim, oltre il muro di separazione tra Israele e i Territori palestinesi

Pallone e potere

Analisi Il calcio spesso non è solo sport, ma può anche essere uno strumento politico a disposizione delle autorità. La storia dell’Argentina è un esempio tangibile

Terror Football

Sabato le squadre di Egitto ed Algeria sono chiamate a contendersi un unico posto disponibile per i Mondiali di calcio del Sudafrica, previsti per la prossima estate. Una partita che nasconde attriti che vanno ben oltre il calcio e rischiano di creare tensioni diplomatiche

NON SOLO CALCIONon è una novità che il calcio diventi politica, come abbiamo già detto in precedenza a proposito dell’Argentina di Maratona (Cfr. Pallone e potere). Capita, in un mondo dove lo sport più popolare (e il più ricco) di tutti muove miliardi di euro; succede soprattutto in Paesi come quelli del continente africano e sudamericano, in cui spesso la gloria data da importanti risultati ottenuti sui campi calcistici, a fronte di situazioni politico-economiche critiche, può fungere da motivo di orgoglio e rivalsa nazionale. Se poi aggiungiamo a tutto ciò vecchie rivalità già esistenti tra nazioni vicine, il mix rischia di diventare pericoloso e micidiale, per quanto possa essere affascinante un incontro di calcio carico di motivazioni e il cui risultato è destinato a segnare, nel bene o nel male, la storia -calcistica, si intende- delle due squadre coinvolte.

L’EGITTO RISCHIA – E’ questo il caso dell’incontro valido per le qualificazioni ai prossimi Mondiali di calcio del Sudafrica 2010 (i primi della storia, tra l’altro, a tenersi nel continente nero) che vedrà opporsi Algeria ed Egitto sabato prossimo, il 14 novembre, allo stadio del Cairo. Vi sono tutte le caratteristiche affinchè la partita diventi un vero e proprio evento per ogni algerino ed egiziano. L’Egitto, vincitore negli ultimi due anni di seguito della Coppa d’Africa e vera rivelazione del calcio africano degli ultimi anni (insieme alla Costa d’Avorio ed al Ghana, dopo l’exploit di Camerun e Nigeria negli anni ’90), rischia seriamente di restare fuori dalla competizione sportiva probabilmente più importante del pianeta. Proprio a spese della squadra algerina. Nel Gruppo C delle qualificazioni africane, infatti, l’Algeria attualmente comanda la classifica con 13 punti, davanti all’Egitto con 10 punti. Nella partita di sabato prossimo al Cairo, l’Egitto dovrà vincere con tre gol di scarto per superare l’Algeria in classifica, altrimenti saranno proprio gli algerini a fare le valige per il Sudafrica, lasciando a casa ai blasonati vicini egiziani.

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ALGERIA vs. EGITTO: GLI SCONTRI – In questo clima, la tensione sta salendo giorno dopo giorno e si temono degli scontri e dei disordini a margine dell’incontro di calcio. Sulla rete, da Facebook a Twitter a Youtube, spopolano video e commenti di Algerini ed Egiziani che si accusano reciprocamente e si promettono battaglie all’ultimo sangue. La retorica usata va ben oltre le motivazioni calcistiche ed entra a gamba tesa su questioni politiche e sociali. Sono lontani i tempi in cui, tra la seconda metà degli anni ’50 e la prima degli anni ’60, l’allora Presidente egiziano Nasser, leader indiscusso del nazionalismo arabo e della rivalsa dei popoli del terzo mondo, sosteneva economicamente e militarmente (oltre che ideologicamente, tramite la sua retorica della liberazione dei popoli arabi) l’Algeria che stava per liberarsi dal giogo francese, in quella che divenne una delle guerre di liberazione più lunghe e sanguinose del secondo dopo-guerra e che portò, tra il 1954 edil 1962, all’indipendenza dell’Algeria dalla Francia. Anzi, proprio sulla base di quegli episodi storici, oggi gli egiziani rivendicano quel ruolo di “liberatori” dell’Algeria, ricordando nei vari siti internet come abbiano “sollevato gli Algerini dalla condizione di schiavitù rispetto alla Francia”. Le accuse vanno avanti e non finiscono qui e i toni sono sempre più accesi, man mano che ci si avvicina al giorno fatidico dell’incontro al Cairo. Le autorità politiche algerine ed egiziane hanno dovuto richiamare ufficialmente i tifosi delle proprie nazionalità alla calma, dopo che persino il capitano della squadra egiziana, Ahmed Hassan, ha promesso di far diventare lo stadio del Cairo uno “stadio dell’orrore”. Il portavoce del Ministro degli Affari Esteri egiziano, Hossam Zaki, è dovuto intervenire per riportare un clima più cordiale tra le due nazioni e ha fatto appello soprattutto ai media, affinché non contribuiscano ad esasperare troppo i toni di quella che, in fondo, dovrebbe essere soltanto una partita di calcio (per quanto importante e ricca di significato per entrambi i popoli). Ed ecco, dunque, che all’arrivo al Cairo del bus della nazionale algerina, un fitto lancio di pietre da parte di circa 200 tifosi egiziani ha colpito i giocatori dell’Algeria. Il fatto è stato reputato gravissimo dal Ministro degli Affari Esteri algerino, Mourad Medelci. A questo punto, non bastano più le parole del portavoce del Ministero degli Esteri egiziano, ma lo stesso Ahmed Abul Gheit, il Ministro in persona, dovrà intervenire per condannare l’episodio e garantire tutte le necessarie misure di sicurezza. Gli scontri rischiano di creare una vera e propria crisi diplomatica tra Algeri e Il Cairo, quattro giocatori algerini sarebbero stati feriti dall’assalto a colpi di pietra e la partita rischia addirittura di saltare. 

LA DERIVA DEL CALCIO – Questo è diventato il calcio oggi. In una congiuntura internazionale in cui i problemi sociali sembrano essere sempre più pressanti sulle popolazioni non solo africane o del Sud del mondo, ma anche occidentali, il calcio continua a catalizzare più attenzione di altri problemi reali. Proprio come accade anche nel nostro Belpaese, in cui non si scende in piazza per la disoccupazione, ma si scatenano guerriglie intorno agli stadi di calcio e si assiste passivamente a giovani ventenni che guadagnano milioni di euro l’anno, mentre la soglia di povertà sale sempre di più. In questa cornice alimentiamo il business del calcio, comprando abbonamenti pay-per-view e seguendo sui rotocalchi le avventure amorose dei gladiatori del XX secolo. La partita tra Algeria ed Egitto dimostra nuovamente che, non solo in Italia, il calcio è potere. Potere di distrarre le masse rispetto ai problemi sociali che attanagliano le popolazioni, potere di attirare più investimenti di quanto possa fare uno Stato, potere di rendere due popolazioni nemiche, come se fossero in guerra. Il caso dell’ex milanista George Weah, liberiano e star nazionale, Pallone d’oro nel 1995, che riesce a candidarsi per le elezioni presidenziali nel proprio Paese, come è accaduto nel 2005, ne è un’ennesima riprova. Ma nel momento in cui lui, star del calcio in un Paese africano, perde la competizione elettorale contro una donna, Ellen Johnson Sirleaf, che diventerà la prima donna eletta come Capo di Stato in Africa e la prima donna di colore al mondo a ricoprire quella posizione, qualche speranza dovrà pur esserci.        

Stefano Torelli

[email protected] 13 novembre 2009

Settimana dall’1 al 7 febbraio

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Ecco la terza e la quarta puntata:

– Anni '10: il decennio del Sudamerica

– Viaggio nel caos Afghanistan

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Settimana dall’8 al 14 febbraio

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Nella quinta e nella sesta puntata:

– L'Ucraina (e il suo gas) tra Europa e Russia

– Focus Iran: le proteste e il nucleare

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Settimana dal 15 al 21 febbraio

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Settima e ottava puntata:

– Potere rosa in Sudamerica

– 5 anni dopo: il Libano e la rivoluzione

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Settimana dal 22 al 28 febbraio

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Nella nona e decima puntata:

– Golpe e arresti: che succede in Turchia?

– Obama e la riforma sanitaria: missione impossibile?

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Settimana dall’1 al 7 marzo

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Ecco l'undicesima e la dodicesima puntata:

– Il Cile dopo il terremoto

– Congo – Niger – NIgeria: storie d'Africa

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