Dopo lo storico discorso di Obama al Cairo, Bibi Netanyahu, nel suo speech relativo ai rapporti con la controparte palestinese, ha provato a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, per accontentare tutti. Obiettivo fallito. Ecco perché
DUE STATI? SI’, MA… Much ado about nothing, direbbe Shakespeare. Tanto rumore per nulla. Il tanto atteso discorso di Benjamin “Bibi” Netanyahu all’Università religiosa Bar-Ilan di Tel Aviv non segue la scia di quello pronunciato da Barack Obama al Cairo, dove il Presidente Usa aveva annunciato che la formula “Due popoli, due stati” era l’unica da prendere realmente in considerazione. L’annuncio tanto auspicato del “sì a uno Stato palestinese” è infatti arrivato, ma accompagnato da una serie di distinguo tale da svuotare completamente di significato tale apertura. Uno Stato palestinese smilitarizzato, che riconosca Israele come Stato del popolo ebraico; nessuna concessione sul ritorno dei profughi né – soprattutto – su Gerusalemme, che dovrà rimanere capitale indivisibile dello Stato ebraico; nessuna dichiarazione relativo al congelamento degli insediamenti ebraici esistenti nei Territori Palestinesi, nonostante l’affermazione di non volerne costruire di nuovi. Sediamoci subito al tavolo a trattare, propone Netanyahu. A queste condizioni, però, al tavolo non sarà possibile nemmeno avvicinarsi.
LE REAZIONI: QUI TEL AVIV In Israele, il discorso di Netanyahu ha raccolto consensi (in particolare, va menzionato l’autorevole apprezzamento giunto pubblicamente dal presidente dello Stato Israeliano Shimon Peres), soprattutto tra i sostenitori, ma certo non ha entusiasmato. I sondaggi sono compatti nel mostrare come gli Israeliani si dicono certi che il premier abbia pronunciato un tale discorso a causa della crescente pressione americana, e che nei prossimi anni non vi saranno significativi cambiamenti, né tantomeno uno Stato Palestinese. Il discorso ha suscitato caute aperture da parte del partito di centro Kadima, mentre grandi critiche sono arrivate dagli estremi. Se appare scontata l’opposizione dei Partiti arabi, che fanno leva sulle contraddizioni del premier, significativa è la presa di posizione dei Partiti di estrema destra. Secondo il Partito Nazionale Religioso e il Jewish Home Party, infatti, l’apertura nei confronti di una soluzione a due Stati viola le promesse fatte da Netanyahu, e pone a rischio la stessa tenuta della coalizione. Il dramma del premier è dunque quello di essere tra due fuochi: se segue le intenzioni di Obama, perde il supporto di una parte numericamente fondamentale della coalizione; al contrario, se accontenta l’estrema destra, pone a serio rischio i rapporti con lo storico alleato americano. Il tentativo di stare là in mezzo nel guado però per ora non accontenta nessuno.
LE REAZIONI: QUI RAMALLAH Non ha citato il Corano come Obama. Ma non è certo per questo che i Palestinesi hanno accolto assai male il discorso del leader del Likud. Le condizioni dei Palestinesi per un accordo sono note da anni: fine dell’occupazione, smantellamento degli insediamenti, ritorno dei profughi, Gerusalemme capitale di uno Stato palestinese sovrano. I margini per trattative e compromessi su tali punti sono da sempre esigui, e questa rigidità ha contribuito in maniera ingente durante il processo di Oslo nel far naufragare le speranze di accordo. Stando così le cose, le “concessioni” di Netanyahu appaiono risibili. Come sostiene Mahmud Abbas (Abu Mazen), Presidente palestinese, le parole del premier israeliano rappresentano un “sabotaggio” del processo di pace. Interessante a proposito la posizione di Saeb Erekat, storico leader dei negoziatori palestinesi: “Il discorso di Netanyahu segna la fine unilaterale delle negoziazioni e delle possibilità di pace. Egli dovrà aspettare mille anni prima di vedere i Palestinesi sedersi al tavolo a tali condizioni”.
OBAMA E LE TENDINE – E ora? Il punto cruciale, in questo momento, è rappresentato dal congelamento degli insediamenti. La posizione del Governo di Tel Aviv è chiara: nessun nuovo insediamento, ma netto rifiuto (ribadito da Lieberman, Ministro degli Esteri israeliano, a Hillary Clinton) relativo al congelamento degli insediamenti, che devono proseguire la loro crescita naturale. Su questo punto non vi è intesa con Washington, che chiede di applicare le indicazioni della Road Map, piano di pace proposto dal Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia) durante la Seconda Intifada e che prevedeva lo stop immediato agli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi. Obama ha fatto sapere di apprezzare il passo avanti di Netanyahu, ma è chiaro che questa lieve apertura non basta. Al di là del fronte Iran (ottenere rassicurazioni dall’Iran sul nucleare per spingere Israele a concessioni sul fronte palestinese: questo il piano americano), Obama vuole di più. Anche perché,in tutta franchezza, per arrivare ad un compromesso le questioni sono molteplici. Prendendo per buono il paragone, per arrivare ad un compromesso, Israeliani e Palestinesi dovranno un giorno decidere di affrontare la loro “disputa condominiale”, decidendo chi si prenderà la cucina, chi il salotto, chi la camera da letto e così via. Tali stanze rappresentano nodi assai intricati. Nel paragone “domestico”, non trovare un accordo relativo alla crescita naturale o al congelamento degli insediamenti equivale più o meno a litigare su chi si dovrà prendere le tendine del bagno. Un dettaglio importante, per carità. Ma se è così per le tendine, figurarsi il resto.
Alberto Rossi [email protected]
Nella foto, veduta del più grande insediamento israeliano, Ma'ale Adumim, oltre il muro di separazione tra Israele e i Territori palestinesi