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Occhio alla Spy story

Teheran annuncia la cattura di Abdulmalik Rigi, capo dell’organizzazione Jundullah, una delle minacce più evidenti alla stabilità del Paese e allo stesso regime iraniano. Sullo sfondo rimane la tensione con Israele e gli Stati Uniti

 

LA CATTURA DI RIGI – L’Iran ha annunciato oggi l’arresto del leader di Jundullah, il movimento di stampo terroristico sunnita e di base nel Sistan-Baluchistan, Abdulmalik Rigi. Jundullah, un’organizzazione che agisce in territorio iraniano tramite attentati contro obiettivi governativi e civili sciiti, è ritenuta responsabile dei gravi attentati che hanno colpito il Sud-Est del Paese nel maggio dell’anno scorso, alla vigilia delle elezioni presidenziali poi vinte (nelle polemiche) da Ahmadi-Nejad e, poi, nell’ottobre scorso, quando furono uccisi addirittura uomini di spicco dell’organizzazione dei Pasdaran, le milizie fedeli al Presidente e retaggio della Rivoluzione khomeinista del 1979. Il governo iraniano ha sempre accusato i servizi segreti occidentali, in particolar modo statunitensi a britannici, ma anche pakistani, di addestrare e fornire supporto logistico e finanziario a Jundullah, con l’obiettivo di provocare delle rivolte che avessero portato alla caduta del regime e a un colpo di Stato. In effetti, sembra abbastanza difficile che un movimento (per quanto radicato sul territorio Baluchi e sunnita, quindi fortemente caratterizzato da sentimenti anti-governativi, anti-persiani e anti-sciiti) piccolo e probabilmente con non molti membri, possa portare a termine attentati spettacolari come quelli compiuti in maggio e ottobre scorsi. Allo stesso modo, alcune fonti riportano con un certo grado di attendibilità la notizia secondo cui la precedente amministrazione statunitense guidata da George W. Bush abbia finanziato e aiutato in vari modi l’organizzazione terroristica.

 

NUOVO ROUND NELLA SFIDA CON USA E ISRAELE – Il Ministro dell’Intelligence iraniana Heidar Moslehi, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Fars, avrebbe dichiarato che il capo di Jundullah arrestato ieri avrebbe passato le ultime 24 ore prima della cattura in una non specificata base militare statunitense, oltre ad essere stato rifugiato anche in alcuni Paesi europei (anche questi, non specificati). Secondo le accuse di Moslehi, Rigi avrebbe ricevuto proprio dagli Stati Uniti un passaporto afghano e un lasciapassare per il territorio del Pakistan. Del resto, ad aggravare le accuse contro Islamabad, la stessa fonte ha dichiarato che Rigi spesso risiedeva in Pakistan, lasciando intendere che vi fosse in tutto ciò la complicità del governo pakistano, nemico regionale dell’Iran. L’arresto del leader di Jundullah sembra dunque essere più che altro una nuova puntata dello scontro a distanza tra Teheran e il mondo occidentale, in particolare Stati Uniti e Gran Bretagna (con l’alleato Pakistan). Nel dichiarare che Rigi avrebbe passato del tempo in una base militare statunitense e sarebbe stato anche in Europa, Teheran ha voluto indirettamente (ma neanche troppo) accusare questi Paesi di tramare contro il proprio governo e la propria sovranità territoriale. Proprio nei giorni scorsi, mentre si discuteva di possibili nuove sanzioni economiche contro l’Iran, Ahmadi-Nejad aveva alzato i toni e annunciato di procedere all’arricchimento dell’uranio al 20% nelle proprie centrali nucleari. Allo stesso modo, vi sono state dure critiche anche nei confronti del governo italiano e del Primo Ministro Berlusconi, in risposta alla sua controversa visita di Stato in Israele e dei Pasdaran avevano addirittura assediato l’ambasciata italiana a Teheran.

 

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UNA MOSSA PER IL PAESE – La cattura di Rigi offre un’ottima possibilità al regime iraniano di sferrare un colpo, soprattutto a livello di propaganda interna, contro le forze straniere, accusate di interferire negli affari interni dell’Iran, volendone causare una crisi. Ahmadi-Nejad e il proprio governo non si sono lasciati sfuggire questa occasione a l’hanno sfruttata, attaccando Washington, Londra e in parte Islamabad di cospirare contro Teheran. Il Sud-Est del Paese potrebbe essere risucchiato nel clima di euforia per l’arresto di Rigi e il colpo inferto a Jundullah, da anni fonte di instabilità soprattutto per questa zona dell’Iran, mentre nel resto del Paese potrebbe risalire l’orgoglio nazionale per quella che è venduta come uno smacco all’Occidente. In questo clima, sarà un po’ più facile per il Presidente iraniano portare avanti la propria retorica populista e nazionalista e, conseguentemente, continuare a perseguire l’obiettivo del nucleare, avendo dalla sua parte l’opinione pubblica, spinta a rivoltarsi contro le forze esterne al Paese, piuttosto che concentrarsi sulle divergenze interne.

Elezioni e futuro

In Iraq le elezioni hanno visto una buona partecipazione popolare, ma purtroppo anche i consueti attentati. Ecco i possibili esiti del voto, in un Paese ancora instabile e problematico

I NUMERI – Diciotto province e 19 milioni di potenziali elettori chiamati a scegliere fra ben 6.100 candidati. Trentotto morti ed oltre 110 feriti. Attacchi concentrati a Baghdad e 50 colpi di mortaio sparati sulla capitale: ben tre all’interno della teoricamente intoccabile Green Zone. Questi, finora, i numeri delle elezioni in Iraq. Ancora una volta le consultazioni irachene si trasformano per alcuni nell’ennesimo bagno di sangue in un paese che fatica non poco a trovare una propria stabilità interna. Nonostante gli attacchi però l’affluenza alle urne è stata comunque abbastanza alta. Sebbene non vi siano risultati ufficiali pare che la partecipazione degli iracheni sia giunta a quota 62%, dati inferiori al 2005 (76%), ma comunque molto importanti se consideriamo che in alcune zone sunnite si è toccato quota 90%, nonostante l’emittente araba al-Jazeera abbia comunque parlato comunque di affluenza modesta. Attraverso le consultazioni elettorali l’attuale premier Nuri al-Maliki cerca una riconferma per sé e per la propria coalizione a maggioranza sciita. Di contro il principale sfidante Iyad Allawi, a capo di forze sunnite, prova ad insidiare non senza speranze la leadership di al-Maliki. Tuttavia sembra improbabile che uno dei due riesca da solo a portare a casa tutti i 163 seggi che servirebbero in parlamento per formare un governo senza il supporto di altre coalizioni. Più probabile l’ipotesi di un’alleanza di più ampio raggio, anche se al momento non sembrano sussistere i termini per un accordo bipartisan. E questo principalmente per due motivi: preesistenti tensioni personali tra i due leader ed una campagna preelettorale alquanto tesa e segnata da divisioni e veleni. 

QUALE ESITO? – I primi risultati parziali saranno disponibili l’11 marzo, mentre per quelli definitivi, se non ci saranno intoppi, si dovrà attendere il 18. Secondo indiscrezioni della stampa sembra comunque che al-Maliki sia in testa con la sua Alleanza per lo Stato di Diritto nelle città di Najaf, Bassora e Kerbala. Altre fonti giornalistiche indicano invece il Blocco iracheno di Allawi come vittorioso nelle quattro aree a maggioranza sunnita (Anbar, Salahedinne, Ninive, Diyala), mentre sarebbe giunto secondo nelle regioni sciite. In base ai primi dati pare che saranno i 68 seggi della capitale a determinare la coalizione vincente poiché le regioni sunnite e sciite non sembrano aver fornito risultati a sorpresa. Anche l’area curda segue fedele il partito dell’Alleanza Curda che a Kirkuk pare essere saldamente in testa alle preferenze dei locali. Le difficoltà comunque arriveranno dopo che le luci internazionali si saranno spente e dopo che la stampa mondiale avrà cessato di elogiare il ritorno alla democrazia del paese iracheno. Le sfide che attendono Baghdad sono infatti molteplici. Prima della formazione del nuovo esecutivo si dovrà ravvisare se brogli e ricorsi non infiammeranno il clima post-elettorale. In tal direzione si è già mosso il presidente iracheno Jalal Talabani il quale ha chiesto che tutte le fazioni rispettino l’esito finale del voto. Per garantire l’effettiva regolarità delle votazioni l’UE ha schierato, sotto l’egida dell’Onu, 120 osservatori dislocati tra le città di Bagdad, Bassora e nella regione del Kurdistan iracheno.

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I PROBLEMI – Qualora il risultato soddisfi tutte le forze politiche, si passerà poi all’effettiva formazione del governo. E qui sorge un ulteriore problema. Secondo fonti diplomatiche statunitensi ci potrebbero volere alcuni mesi perché questo accada (nel 2005 s’impiegarono quasi 5 mesi) ed il vuoto di potere che verrebbe a crearsi dal 16 marzo (data della scadenza dell’attuale mandato governativo) appare come un pericoloso buco nero. La costituzione irachena non prevede infatti alcuna forma di governo provvisorio ed il rischio di scontri tanto a sfondo religioso quanto di natura tribale è una realtà che non può essere ignorata. Ci si chiede poi come sarà gestito il ritiro delle truppe americane dal paese considerando che fra meno di 6 mesi Washington richiamerà tutti i soldati di stanza in Iraq. Nonostante i 200mila soldati iracheni in assetto da guerra, i divieti di circolazione per i mezzi privati, le frontiere chiuse e gli  aeroporti blindati, l’Iraq è stato comunque scosso da violenti attentati che hanno insanguinato la vigilia elettorale. Come si potrà allora garantire la quotidiana sicurezza dei cittadini iracheni ed una stabilità statale se nonostante l’assetto da guerra di questi ultimi giorni il sistema di sicurezza è stato trapassato più volte, in più luoghi ed in più occasioni? Certamente l’allungamento della missione USA nella regione altro non farebbe che scatenare rivolte e proteste, ma del resto anche un loro disimpegno potrebbe aprire a scenari non certo rassicuranti. Lo spettro della guerra civile non è scacciato, e potrebbe materializzarsi in qualsiasi momento. Al di fuori di ogni considerazione politica resta però un dato di fatto. La popolazione locale ha dimostrato una voglia di normalità che ha superato la paura ed il timore degli attentati. Mentre al-Maliki votava al sicuro all’interno della Green Zone, i cittadini comuni hanno sfidato i divieti e minacce dei gruppi terroristici affollando in alcuni casi fino a tarda notte i seggi elettorali. Nonostante le elezioni siano state precedute da attentati e nonostante il futuro del paese appaia quanto mai incerto, questi ultimi giorni hanno dimostrato come il popolo iracheno voglia realmente voltare pagina. Almeno loro.  

Indecision strategy

Per la Casa Bianca la scelta della linea da seguire in Afghanistan è un vero e proprio dilemma. Washington attenderà il risultato del ballottaggio tra Karzai e Abdullah, mentre si moltiplicano le sfide da vincere contro i traffici criminali

IL “FRONTE BIDEN” – A seguito delle richieste del Generale McChrystal, 40.000 uomini in più da destinare al fronte afghano, si sarebbe aperto a Washington un secondo fronte guidato dal vicepresidente Joe Biden e sostenuto da molti Congressmen Democratici, ansiosi di porre fine all’intervento statunitense in Afghanistan e di vedersi riconfermato il posto alle prossime elezioni nel 2010. Sia il vice di Barack Obama che molti parlamentari sostengono che riconfermare ed aumentare l’impegno statunitense in Afghanistan sarebbe uno sforzo eccezionalmente costoso e sanguinoso, oltre che inutilmente lungo. Senza contare che la vera minaccia per l’Occidente, secondo Biden, non sarebbe il paese intero, quanto più Al Qaeda, gruppo terrorista sparso in maniera disomogenea sul territorio e che ha inoltre subito gravi perdite durante gli attacchi aerei degli ultimi mesi. Proprio questo particolare potrebbe rivelarsi fondamentale e sembra poter essere il punto di forza della strategia presentata da Biden nelle scorse settimane. Continuare a tenere sotto pressione i gruppi di terroristi pianificando attacchi aerei mirati e ritirando al contempo le truppe di terra dispiegate sul campo: questa la possibile nuova strategia per l’Afghanistan ed il Pakistan, perché non bisogna dimenticare che alcune delle regioni di confine tra i due paesi sono de facto nelle mani dei terroristi o dei guerriglieri talebani.

INEFFICIENZE E TRAFFICI CRIMINALI – E’ molto probabile che la Casa Bianca decida di non prendere decisioni così importanti fin dopo il ballottaggio del 7 novembre tra il presidente uscente Karzai, accusato di aver perpetrato brogli elettorali in tutto il paese per garantirsi la rielezione, e il Ministro degli Esteri Abdullah Abdullah, suo più temuto concorrente. Il governo afghano si è fin qui mostrato corrotto ed inefficiente, altra considerazione che a Washington negli ambienti governativi viene presentata spesso come parziale giustificazione per il ritiro delle truppe impegnate. In realtà però l’Afghanistan non è solo un problema di tipo strategico o militare. La pubblicazione dell’ultimo rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per le Droghe e il Crimine  (UNODC) riporta all’attenzione dell’intera comunità internazionale un problema che troppo spesso passa in secondo piano, schiacciato tra notizie di incremento delle truppe o nuove strategie per pacificare una regione lacerata da scontri e attentati. Il traffico di droga e la coltivazione dell’oppio sono tra i mali che affliggono l’Afghanistan da sempre, ma che sembrano essere diventati fenomeni in continua espansione nonostante le campagne lanciate dalle più svariate agenzie internazionali. Da quanto di apprende dal rapporto UNODC i signori della droga avrebbero infatti visto salire i loro guadagni dopo l’invasione delle Forze Armate statunitensi e delle missioni NATO. I talebani, infatti, guadagnano attualmente con la tassazione ed il traffico di droga una cifra che si avvicina ai 125 milioni di dollari all’anno. Un incremento notevole degli introiti se si pensa che dieci anni fa i capi talebani guadagnavano infatti tra i 75 e i 100 milioni di dollari imponendo illecitamente imposte sul commercio di droga. 

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RICADUTE GEOPOLITICHE – Sebbene siano stati approntati i più svariati programmi per la lotta alla produzione di oppio e al traffico di eroina non sembrano esserci stati miglioramenti di sorta in passato e la situazione rischia anzi di divenire sempre più ingovernabile. I soldi legati al traffico di droga servono infatti a finanziare una miriade di gruppi combattenti, una sorta di esercito la cui struttura è sempre più complessa e le cui truppe sempre più sparse nella regione. Secondo lo studio UNODC i fondi raccolti con il narcotraffico servono a finanziare le forze ribelli del Baluchistan, regione del Pakistan, il Partito Islamico del Turkmenistan e il movimento indipendentista islamico dell’Uzbekistan. Il rafforzamento di cellule islamiche o movimenti estremisti nei paesi della zona potrebbero creare ulteriore instabilità, senza contare che gli stessi talebani riescono a finanziare le loro attività terroristiche in tutto il paese grazie agli introiti legati alla tassazione delle attività illegali. L’Afghanistan rischia quindi di trasformarsi in un fallimento strategico-militare che potrebbe avere pesanti ripercussioni lontano dai confini regionali. I progetti di tipo militare da parte degli Stati Uniti e della NATO serviranno a poco se non si riuscirà a bloccare un fenomeno che ha risvolti politici, economici e culturali di gran lunga più importanti. La Casa Bianca dovrà quindi decidere quale sarà il futuro impegno statunitense, nel paese in primo luogo e successivamente nella regione, senza dimenticare che la pianificazione strategica dovrà essere supportata da programmi a lunga scadenza, di tipo economico e socio-culturali. 

Le solite questioni

Niente di fatto a Ginevra, dove USA e Iran si sono incontrati per affrontare la questione del nucleare. Le reciproche posizioni sono rimaste invariate e la strada della diplomazia sembra in via di esaurimento. Teheran sarà disposta a collaborare con l’Agenzia dell’Energia Atomica?

 

NEGOZIATI – Si sono chiusi da poche ore i negoziati di Ginevra tra il gruppo dei “5+1” e l’Iran sulla questione nucleare. Per la prima volta dopo anni i negoziatori statunitensi e quelli iraniani si sono incontrati in forma ufficiale per discutere di uno dei temi più controversi a livello internazionale. Nelle stesse ore, a Washington, il Ministro degli Esteri iraniano, in visita ufficiale, avrebbe consegnato alle autorità statunitensi alcune proposte volte a favorire la riapertura dei negoziati e delle discussioni ufficiali, riguardanti la possibilità di proseguire i programmi di arricchimento dell’uranio. La sensazione che resta dopo la pubblicazione delle dichiarazioni ufficiali è che poco sia cambiato rispetto ai mesi scorsi. Le posizioni sono rimaste praticamente invariate e la politica dei piccoli passi non sembra aver prodotto risultati apprezzabili. Da quanto si è appreso nelle ultime ore, gli ispettori internazionali avranno accesso al sito nucleare di Qom: resta da verificare se eventuali ispezioni serviranno a convincere il gruppo dei “5+1”, ma soprattutto Gerusalemme, delle reali intenzioni di Teheran. La leadership iraniana si è spesso mostrata reticente nell’informare l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) delle nuove installazioni o dei progressi nello sviluppo del nucleare, eventuali ritardi nelle ispezioni potrebbero rivelarsi un ostacolo sulla via di nuovi negoziati.

 

POSIZIONI FERME – La ripresa dei negoziati alla fine di ottobre sarà infatti preceduta da un incontro preparatorio e Javier Solana, Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione Europea, si è mostrato attendista, confermando che il clima dei prossimi negoziati dipenderà da quanto l’Iran farà nel prossimo mese. Il Parlamento di Teheran ha approvato a larga maggioranza una dichiarazione in cui si chiede alla comunità internazionale di non ripetere gli errori del passato: sarebbe quindi pronto ad adottare nuove decisioni nel caso in cui non si riuscisse ad uscire dall’attuale situazione di impasse. La situazione appare quindi ingessata da richieste perentorie e dalla poca volontà di cercare posizioni utili per far procedere negoziati che sembrano destinati a concludersi senza portare novità di qualche interesse.

 

OPZIONE MILITARE? – La strada delle sanzioni economiche, già ampiamente battuta negli ultimi mesi, non ha portato i risultati sperati e anzi sembra aver alimentato tensioni ed attriti crescenti. Il possibile allineamento delle maggiori potenze mondiali rispetto alla questione iraniana, come già accaduto nel corso delle votazioni per l’approvazione della risoluzione sul disarmo nucleare, potrebbe portare infine al tanto discusso intervento militare contro il paese degli ayatollah. Washington, che è stata finora per Gerusalemme un ostacolo insormontabile sulla via della soluzione militare, potrebbe decidere di assecondare tacitamente i piani israeliani contro l’Iran. La situazione appare quindi essere vicina ad un bivio pericoloso e Teheran dovrà decidere come affrontare una minaccia che sembra farsi sempre più reale. Davanti ad una scelta che non prevede come opzione il ritorno alla diplomazia la leadership iraniana potrebbe quindi fare un passo indietro e tentare di allentare la tensione collaborando attivamente con l’AIEA. Resta da verificare come la comunità internazionale accoglierà eventuali richieste riguardo allo sviluppo di un eventuale programma nucleare per scopi civili. Anche se al momento paiono farsi sempre più improbabili eventuali aperture in tal senso, non sarebbe da escludersi la possibilità che i negoziatori internazionali decidano di assumere posizioni più flessibili, in grado di ricreare nella regione una situazione di equilibrio, seppur precario, in cui riescano a convivere gli interessi iraniani e le paure israeliane. 

Terzo Fronte?

Quando si parla di prossimo intervento militare in Yemen si pensa sempre alle difficoltà incontrate in Iraq e Afghanistan. In realtà è da escludere un impegno su larga scala delle Forze Armate statunitensi

 

DOPO L’AFGHANISTAN, LO YEMEN? – E’ necessario comprendere che un intervento militare in Yemen non implica necessariamente un’invasione, opzione che anzi appare poco credibile visti gli attuali problemi logistici e la necessità di mantenere il massimo sforzo bellico in Afghanistan. Tuttavia quello che possiamo presumere – e che sembra confortato dalla promessa di maggiori investimenti per la sicurezza rivolti al governo di Sana’a – è un’azione di supporto e coordinazione. In questi ultimi anni lo Yemen si sta trovando in una situazione di “failed state” (letteralmente “stato fallito”), ovvero stato in disgregazione. Il paese sta già affrontando una guerra civile con la minoranza zaidita di fede sciita, supportata dall’Iran, e molte zone rurali sono sotto il controllo di bande tribali locali. Il governo del paese, di stampo dittatoriale, si trova così pressato su più lati e non riesce a mantenere il controllo su tutte il territorio. Il risultato è l’esistenza di comodi rifugi per gruppi estremisti quali Al-Qaeda o comunque i movimenti che ad essa si ispirano.

 

I MEZZI SCARSEGGIANO – E’ contro questi ultimi che lo sforzo USA si concentra, soprattutto vista l’inadeguatezza delle truppe regolari locali. Lo Yemen è un territorio che alterna zone desertiche e pressoché pianeggianti ad altipiani anche oltre i 2000 metri. Il profilo orografico non è particolarmente complesso, pertanto non bisogna pensare alle catene montuose afghane e la forma stretta e lunga del paese permette di arrivare facilmente ovunque. Tuttavia bisogna avere i mezzi per farlo. L’esercito dello Yemen è malamente armato ed equipaggiato sia per quanto riguarda le armi leggere sia per  i veicoli corazzati, tra i quali spiccano i vecchi tank T54-55 e i trasporti BTR di vecchia generazione, vulnerabili a molte armi anticarro degli ultimi anni, anche non sofisticate. Gli elicotteri da trasporto e d’attacco, una delle armi più efficaci in operazioni di counter-insurgency, sono pochi (meno di una ventina) e obsoleti, rendendo difficile un loro impiego continuativo. La stessa aviazione, che pure è fornita di alcuni cacciabombardieri efficienti, è pesantemente impegnata nella guerra ai ribelli zaiditi e ha subito alcune perdite dovute al fuoco antiaereo e alla cattiva manutenzione. A questo si aggiunga il fatto che i circa 65.000 effettivi delle forze armate non sono sufficienti per affrontare tutte le minacce e condurre operazioni di pulizia sistematica del territorio, soprattutto visto lo scarso livello di addestramento attuale. Le operazioni militari possono ottenere alcuni successi parziali contro gruppi minori, tuttavia per sradicare l’influenza di Al Qaeda o dei suoi affiliati richiede risorse maggiori.

 

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QUALE STRATEGIA? – Ecco dunque possibile ipotizzare su quali elementi dovrebbe basarsi la strategia USA nella regione. Essa sarà molto probabilmente basata sul rafforzamento dei dispositivi locali, in particolare per quanto riguarda il lavoro d’intelligence per l’individuazione dei bersagli (denaro, contatti, controllo delle telecomunicazioni). Si può supporre che Washington cerchi di evitare un coinvolgimento diretto ad alto profilo, sia perché diffidente riguardo al governo di Sana’a – mai considerato un partner affidabile a causa della sua vicinanza alla Russia e ai contrasti con gli alleati USA della regione – sia per non urtare la sensibilità di Mosca, sempre diffidente riguardo ad eventuali espansionismi americani in paesi tradizionalmente nella sua orbita. La notizia dell’invio della portaerei Eisenhower fa presumere un impiego dei droni, il cui utilizzo è sicuramente più discreto di quello di missili cruise e cacciabombardieri. Non sembra  infatti necessaria una pesante azione di bombardamento, quanto più la capacità di colpire in maniera mirata bersagli nascosti o in rapido movimento. Rimane comunque fondamentale l’efficienza delle forze locali sul lungo termine. Salvo situazioni dì emergenza che richiedano un intervento diretto USA, saranno infatti le forze yemenite a condurre la maggior parte delle operazioni. Il loro addestramento e il rifornimento di equipaggiamenti adeguati ai compiti richiesti sarà quindi importante per costruire una strategia vincente sul lungo corso.

Tutte le puntate

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Ecco il contenuto di quanto andato in onda sinora su BMRadio, che potete riascoltare in ogni momento dal nostro sito

PUNTATA 1 (26 gennaio): OBAMA UN ANNO DOPO, BILANCI E PROSPETTIVE. Dalla politica interna (crisi economica, riforma sanitaria) a quella estera (Aghanistan, Iraq), passando per l'ultima, fondamentale questione Cina-Google.

PUNTATA 2 (28 gennaio): IL CASO YEMEN E LA NUOVA AL QAEDA. Dopo il fallito attentato natalizio, focus sullo Yemen e sulla nuova struttura e configurazione terroristica di Al Qaeda.

PUNTATA 3 (2 febbraio): GLI ANNI ’10, IL DECENNIO DEL SUDAMERICA? Focus su un continente che mira a crescere sempre di più. Occhi puntati su Venezuela e Brasile, e sui complicati rapporti con gli Usa.

PUNTATA 4 (4 febbraio): VIAGGIO NEL CAOS AFGHANISTAN. Cerchiamo di fare un po' di luce su uno degli scenari più complessi: come si è arrivati a questo punto, la situazione attuale e le prospettive future.

PUNTATA 5 (9 febbraio): L’UCRAINA (E IL SUO GAS) TRA RUSSIA E EUROPA. Approfondimento post-elezioni (con la vittoria dei filorussi e la fine della rivoluzione arancione) su un Paese lontano e a volte poco considerato ma per tante questioni decisamente importante.

PUNTATA 6 (11 febbraio): L’IRAN, L’ONDA VERDE E IL NUCLEARE. Focus con due esperti su quanto accade in Iran a livello interno, con le proteste degli oppositori, e in ambito internazionale, tentando di chiarire gli ultimi sviluppi della questione nucleare.

PUNTATA 7 (16 febbraio): POTERE ROSA IN SUDAMERICA. Argentina, Cile, Venezuela, e Brasile: donne protagoniste nella politica sudamericana. Solo un caso?

PUNTATA 8 (18 febbraio): IL LIBANO CINQUE ANNI DOPO: LA RIVOLUZIONE (SBIADITA) DEI CEDRI. A cinque anni dall'omicidio del premier Hariri, una situazione in mutamento, ma sempre molto complicata, alla ricerca di un periodo di stabilità difficile da trovare.

PUNTATA 9 (23 febbraio): OBAMA E LA RIFORMA SANITARIA: MISSION IMPOSSIBLE? approfondimento su uno dei temi cruciali della politica interna americana: uno scoglio insuperabile per il Presidente americano?

PUNTATA 10 (25 febbraio): GOLPE E ARRESTI IN TURCHIA: CHE SUCCEDE? Focus sul Paese turco, in cui il clima tra partito e militari e sempre più teso.

PUNTATA 11 (2 marzo): IL CILE DOPO IL TERREMOTO. La tragedia cilena a pochi giorni dall'insediamento del nuovo Governo: le possibili conseguenze politiche ed economiche

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PUNTATA 12 (4 marzo): CONGO, NIGER, NIGERIA: STORIE D'AFRICA. I fili rossi che legano alcune storie del continente africano, tra instabilità politica, povertà cronica, ricchezza di risorse e ricerca della democrazia.

PUNTATA 13 (9 marzo): SPY STORY IN SALSA MEDIORIENTALE. L'assassinio di assassinio di al-Mahbouh a Dubai, un intreccio che coinvoge Hamas, Mossad, Arabia…fino a Pechino.

PUNTATA 14 (11 marzo): G2: VERSO L'AMERICINA…O NO? Focus sul rapporto Cina-Stati Uniti, sempre più stretto e decisivo, ma, dopo gli ultimi eventi (caso Google, armi Usa a Taiwan, incontro Obama-Dalai Lama), tutt'altro che scontato.

PUNTATA 15 (16 marzo): TURCHIA, ISRAELE, SIRIA: CRISI USA IN MEDIO ORIENTE? Tre storie diverse, un filo rosso in comune: Obama sempre più in difficoltà nella regione.

PUNTATA 16 (18 marzo): USA-ISRAELE (E IRAN): COSA FARA' OBAMA? Dentro la crisi tra Washington e Israele. Le possibili contromosse americane, con un occhio sempre fisso su Teheran e il nucleare iraniano.

PUNTATA 17: (25 marzo): YES, WE DID – OBAMA E LA RIFORMA SANITARIA. Focus sul contenuto della riforma, le novità, le implicazioni, le conseguenze sullo scenario politico americano, anche in vista delle elezioni di midterm di novembre. Con Mattia Diletti , autore del libro “Come cambia l'America” (www.america2012.it).

PUNTATA 18 (30 marzo): NUOVE ENERGIE IN SUDAMERICA. Una regione con ampi margini di crescita, e il ruolo decisivo delle risorse energetiche. Energia e politica si intrecciano inesorabilmente: i casi di Argentina, Bolivia, Brasile e Venezuela. Lo sfruttamento delle risorse può portare a migliori condizioni di vita della popolazione? Con Ignacio Fernando Lara, esperto del tema, dottorato in Istituzioni e Politiche in Cattolica.

PUNTATA 19 (1 aprile): LE ELEZIONI IN IRAQ: ECCO I RISULTATI. E ADESSO? Allawi supera il premier al-Maliki, ma per formare un governo ci vorranno mesi, col rischio di far sprofondare il Paese sempre più nel caos. Cerchiamo di capire cosa sta succedendo e le prospettive future.

PUNTATA 20 (8 aprile): IL COLPO DI STATO IN KIRGHIZISTAN. Dramma, morti e caos in uno Stato povero e in tensione da anni, considerato però assai rilevante da Usa, Europa, Cina, e soprattutto Russia. Una storia che si ripete?

PUNTATA 21 (13 aprile): FOCUS NUCLEARE. USA, RUSSIA E DINTORNI. Dal trattato di riduzione delle testate nucleari tra Washington e Mosca (accordo storico nella forma…ma la sostanza?) alla Conferenza di Washington di questi giorni, passando per il tema della proliferazione nucleare (Iran e Corea del Nord su tutti).

PUNTATA 22 (15 aprile) ISRAELE-TURCHIA: FERRI CORTI. E ORA? Due tra i Paesi più importante del Medio Oriente, da sempre in un rapporto particolare, che ora sta subendo diverse incrinature. Può questa crisi aumentare il livello di destabilizzazione del Medio Oriente?

Settimana dal 26 al 31 gennaio

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Ecco le prime due puntate:

"Obama un anno dopo, bilanci e prospettive"

"Il caso Yemen e la nuova Al-Qaeda"

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Settimana dall’1 al 7 febbraio

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Ecco la terza e la quarta puntata:

– Anni '10: il decennio del Sudamerica

– Viaggio nel caos Afghanistan

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Settimana dall’8 al 14 febbraio

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Nella quinta e nella sesta puntata:

– L'Ucraina (e il suo gas) tra Europa e Russia

– Focus Iran: le proteste e il nucleare

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Settimana dal 15 al 21 febbraio

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Settima e ottava puntata:

– Potere rosa in Sudamerica

– 5 anni dopo: il Libano e la rivoluzione

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Settimana dal 22 al 28 febbraio

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Nella nona e decima puntata:

– Golpe e arresti: che succede in Turchia?

– Obama e la riforma sanitaria: missione impossibile?

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Settimana dall’1 al 7 marzo

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Ascoltate il podcast della trasmissione "Il Caffè Geopolitico"!

Ecco l'undicesima e la dodicesima puntata:

– Il Cile dopo il terremoto

– Congo – Niger – NIgeria: storie d'Africa

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