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UE-USA: l’accordo commerciale transatlantico che stenta a prendere il largo

Analisi – L’accordo siglato lo scorso 27 luglio non ha messo fine alla lunga partita sui dazi tra Stati Uniti e Unione Europea, facendo emergere criticità e dubbi. Il 5 agosto scorso, poi, dopo quasi due settimane dal patto verbale, la tensione è aumentata ulteriormente con una nuova sorpresa per Bruxelles: Trump ha minacciato di alzare i dazi al 35% se l’UE non rispetterà gli impegni di investimento negli Stati Uniti.

LE PECULIARITÀ DELLA CONTROVERSA INTESA

L’accordo siglato in terra scozzese è un’intesa politica, non giuridicamente vincolante, che rappresenta una cornice per il cui contenuto sono necessari ulteriori negoziati. Ed è proprio dalla negoziazione dei cavilli, da cui dipende l’andamento delle economie, dei mercati, degli umori dei Governi, a essere nel mirino.
Quel che è sicuro è che questa intesa si inserisce appieno nella strategia americana che, in palese violazione delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e della clausola della “nazione più favorita” (MFN), predilige la sigla di accordi preferenziali bilaterali con i suoi principali partner commerciali. D’altronde è solo attraverso tali accordi che i diversi Paesi possono cercare di migliorare le condizioni tariffarie imposte da Trump. 
Rispetto ad altri accordi, quello raggiunto con l’UE presenta, tuttavia, alcuni elementi di novità. Anzitutto, è prevista una tariffa onnicomprensiva del 15% che non si applica in aggiunta o in maniera differenziata ai prodotti che copre né è soggetta a ulteriori modifiche. Dunque, se da un lato il dazio dovrebbe dare maggiore certezza alle aziende (almeno nelle intenzioni dei negoziatori), dall’altro lato (e a differenza di altre intese) quella con l’UE contiene altresì una clausola “zero per zero”, che prevede la liberalizzazione reciproca del commercio per una serie di beni strategici, tra cui aeromobili, semiconduttori, alcune materie prime critiche e farmaci generici. Resta dunque da chiarire quali prodotti rientrano effettivamente in questa categoria, considerando che la classificazione doganale standard delle Nazioni Unite include oltre 5.500 voci merceologiche.
Infine, l’accordo è accompagnato da due impegni collaterali, menzionati nei comunicati statunitensi ma taciuti da quelli europei: l’acquisto da parte dell’UE di 750 miliardi di dollari di beni energetici americani e l’investimento aggiuntivo di 650 miliardi di dollari (poi scontato a 600 miliardi) da parte di imprese europee negli USA. La Commissione Europea non ha forte voce in capitolo a riguardo, trattandosi di impegni che rientrano nelle decisioni delle aziende private europee. 
Tuttavia, la “promessa” dell’acquisto di energia sembra piuttosto illusoria, considerando che l’UE importa oggi un valore equivalente di 400 miliardi di dollari di energia all’anno e consegnare il 65% del proprio mix energetico agli USA non appare una mossa lungimirante. Al contrario, gli investimenti europei negli States, che ammontano a circa 150 miliardi di dollari l’anno, sono più realistici e potrebbero addirittura aumentare con tariffe al 15%, spingendo alcune multinazionali europee a delocalizzare la produzione oltre l’Atlantico.
Permangono, tuttavia, una serie di discrepanze nei comunicati diffusi dalle due parti. Sebbene l’UE sia riuscita a escludere dall’intesa le richieste americane di esenzione su privacy, GDPR e tassazione delle piattaforme digitali, le note ufficiali indicano disaccordi su standard sanitari e fitosanitari per i prodotti agricoli e sull’accesso alle reti digitali. Un’ulteriore divergenza riguarda l’acciaio: secondo Bruxelles sono in corso negoziati per quote esentate dalla pesante tariffa del 50%, ma il comunicato della Casa Bianca non ne fa alcuna menzione.

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Fig. 1 – La stretta di mano fra Donald Trump e Ursula von der Leyen

GLI INCERTI PROFILI APPLICATIVI DELL’INTESA

Sembrava che un accordo fosse in procinto di essere raggiunto e quasi ultimato, ma The Donald è tornato alla carica con nuove minacce. Il Presidente americano ha annunciato che gli Stati Uniti imporranno dazi del 35% (quindi con un aumento del 20% rispetto al 15% concordato in via preliminare) se l’Unione Europea non rispetterà l’impegno di investire in beni americani. Mossa che rimette in discussione, ancora una volta, l’affidabilità delle trattative con il tycoon.
Eppure, la Commissione Europea, in segno di buona volontà, ha annunciato la sospensione delle contromisure: i contro-dazi europei, previsti originariamente per il 7 agosto, sono stati infatti congelati per sei mesi.
Tra nuove minacce come strumento negoziale e le poco assertive reazioni europee, un testo ufficiale dell’accordo continua a mancare. È possibile che la Casa Bianca spinga per ottenere concessioni aggiuntive, forse proprio per il settore tecnologico tanto caro all’Amministrazione americana che, tradizionalmente, non ha mai visto di buon occhio la volontà di Bruxelles di regolamentare i colossi del web e di imporre la propria normativa in materia.
In questo clima di incertezza, molti dubbi restano sulle esenzioni settoriali. Per il momento, sembra poco probabile che prodotti come vino, superalcolici e birra beneficeranno di salvaguardia. Nel frattempo, Trump ha preannunciato nuovi dazi su semiconduttori e chip, per incentivare la loro produzione interna. A Bruxelles si auspica una riduzione delle tariffe sulle auto, dal 27,5% al 15%, e che venga eliminato il dazio del 50% su acciaio e alluminio. Sul fronte farmaceutico, Trump ha alzato ancora la posta, anche in virtù della forte dipendenza degli Stati Uniti dalle importazioni di farmaci e principi attivi da Europa, Cina e India. Non sono da escludere tariffe fino al 250% (il dazio più alto annunciato finora) entro un anno e mezzo, partendo da un’aliquota iniziale del 150%. 
Non è difficile immaginare che i continui cambi di rotta di Trump mettano in difficoltà i negoziatori europei (oltre che aziende e cittadini). Il timore principale è che anche una volta raggiunto un accordo scritto, il Presidente americano possa continuare a modificarne i termini, vanificando il principale obiettivo europeo del negoziato: eliminare l’incertezza per favorire gli investimenti. 
Nel frattempo, l’instabilità dei rapporti di Trump con i suoi “alleati” si manifesta anche in altri contesti. La scure dei dazi statunitensi ha colpito con particolare forza l’India: l’aumento dei dazi al 50% rappresenta una vera e propria ritorsione, causata dall’acquisto da parte di Nuova Delhi di ingenti quantità di petrolio russo. 
Insomma, si continua a suon di minacce, marce indietro e accelerazioni, a volte anche per “salvare” gli amici, come è accaduto in Brasile, dove dazi al 50% sono stati introdotti proprio per contrastare la pressione politica sull’ex Presidente Bolsonaro, fedele a Trump, accusato di golpe e ora agli arresti domiciliari.

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Fig. 2 – Nel frattempo, la Cina sembra essere l’unico partner commerciale verso cui Trump adotta cautela

IL FRONTE INTERNO EUROPEO

Il capo dell’esecutivo europeo, Ursula von der Leyen, nonostante si sia sempre mossa in linea con i mandati ricevuti dai Governi nazionali, è ora sotto attacco da parte di alcuni Stati membri e da associazioni imprenditoriali europee.
Il Cancelliere tedesco Friedrich Merz ha parlato di “danni ingenti” che i dazi produrranno sia per l’economia europea che per quella statunitense, pur riconoscendo che ottenere di più sarebbe stato difficile. Il premier francese François Bayrou parla di “un giorno triste”, perché “un’alleanza di popoli liberi, riuniti per affermare i propri valori e difendere i propri interessi, decide di sottomettersi”. D’altra parte, l’ungherese Viktor Orbán, amico della Casa Bianca, ha ironizzato che Trump “si è mangiato Ursula von der Leyen a colazione”, mentre il Primo Ministro spagnolo Pedro Sánchez si è detto pronto a supportare l’intesa “senza alcun entusiasmo”.
Anche i mercati hanno reagito con preoccupazione all’accordo: le Borse europee hanno chiuso in ribasso, trascinate dai titoli legati all’export, e l’euro si è indebolito sul dollaro. Tuttavia, nei giorni successivi i mercati finanziari (specialmente quelli statunitensi) sono tornati a guadagnare.
Le voci più entusiaste arrivano dalle Istituzioni europee, e in particolare dal commissario al Commercio Maros Šefčovič, che ha difeso l’intesa sostenendo che “una guerra commerciale può sembrare allettante per alcuni, ma comporta gravi conseguenze. Con i dazi almeno al 30%, il nostro commercio transatlantico si sarebbe arrestato, mettendo a grave rischio quasi 5 milioni di posti di lavoro, compresi quelli nelle PMI in Europa”.
Il vero problema non è (solo) il contenuto dell’accordo, quanto l’assenza di una posizione politica unitaria. Von der Leyen si è, infatti, presentata al tavolo negoziale senza il sostegno di una maggioranza qualificata che le permettesse di portare avanti una linea dura, ad esempio attivando l’Anti-Coercion Instrument, per controbilanciare le pressioni statunitensi. Molti Stati Membri – in particolare i Paesi baltici e nordici, sensibili alle questioni di sicurezza, e i grandi esportatori come Germania e Italia – hanno ritenuto che uno scontro con Washington non fosse conveniente, soprattutto in un momento di forti tensioni con la Russia.
Il punto chiave però è che per Trump questo non è solo un negoziato commerciale. L’obiettivo per gli Stati Uniti è liberarsi dalla veste di consumatore finale del mondo, ruolo che sta erodendo la base produttiva americana e non permette loro di competere tecnologicamente e industrialmente con la Cina. Ecco, quindi, che i dazi diventano una scienza strategica: gli USA non vogliono limitare le importazioni, ma incentivare la produzione interna. L’intento non è tanto incassare denaro dai Paesi europei e dalla Cina, quanto stimolare la crescita economica nazionale per rafforzare la propria posizione nella competizione globale, specialmente nei confronti del rivale cinese. 

CONCLUSIONI

Di fronte a questa visione, l’UE ha scelto la prudenza. La logica che ha guidato la Commissione europea è stata il timore di vedere la propria economia imprigionata nell’instabilità, nei sussulti finanziari, nell’imprevedibilità degli investimenti
Eppure, questo è solo uno dei round della partita tra Bruxelles e gli States: tutto si gioca ora sulla capacità di finalizzare una dichiarazione congiunta equa, che tenga conto del peso dell’UE
E allora, oltre a (o piuttosto che) concentrarsi su ciò che si sarebbe potuto fare meglio, occorre anche riflettere su cosa possiamo fare internamente, su come ricompattare le file interne dell’Europa per promuovere una vera, solida risposta comune

Filomena Ratto

Photo by freestocks-photos is licensed under CC BY-NC-SA

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Perchè è importante

  • Lo scorso 27 luglio, Stati Uniti e Unione Europea hanno concordato in via preliminare una tariffa onnicomprensiva del 15% e una liberalizzazione del commercio su beni strategici. Le criticità sono però dietro l’angolo, con le nuove minacce di dazi del 35% da parte di Trump.
  • I dazi riflettono la strategia americana volta a favorire la produzione interna, mentre l’UE appare divisa, incapace di presentare un fronte comune e di rispondere in maniera incisiva. La mancanza di un accordo scritto e la continua incertezza compromettono la stabilità e la sicurezza degli investimenti europei.

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Filomena Ratto
Filomena Ratto

Napoletana di origine, laureata in Giurisprudenza e ora di base a Bruxelles. Appassionata di diritto europeo e delle dinamiche della politica commerciale dell’UE. Amo leggere e sperimentare in cucina… magari con una buona tazza di caffè (geopolitico, ovviamente).

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