In 3 sorsi– La Monarchia giordana si colloca ai primi posti su scala regionale a livello di intelligence e di sicurezza. Come dunque il Regno sta riuscendo a restare stabile nonostante tutte le minacce subite negli ultimi decenni?
1. LIVELLO DI INTELLIGENCE MILITARE
Il Regno Hashemita di Giordania, contrariamente a quanto si possa pensare, fin dagli anni Novanga ha dovuto combattere l’estremismo violento interno. Il movimento salafita jihadista è emerso infatti circa trent’anni fa e, nonostante le diverse sfumature con il quale è evoluto, è la madre pensante di quello che comunemente viene denominato terrorismo jihadista.
La genesi degli attacchi piĂą eclatanti nel Paese ha origine con il cosiddetto “9/11 Giordano“, ovvero il 9 Novembre 2005, quando tre hotel di lusso nel centro di Amman furono attaccati da tre attentatori suicidi, causando la morte di 60 persone e piĂą di 200 feriti. Le vittime erano in maggioranza cittadini giordani, come la mente dell’attacco: Abu Musab Al-Zarqawi. Prima di questo episodio i tentativi erano stati innumerevoli e grazie al giĂ elevato livello di addestramento militare il Paese era riuscito a difendersi brillantemente.
La reazione da parte del Re fu immediata e forte. In primis l’attivazione di un apparato legislativo ad hoc volto all’approvazione di una legge anti-terrorismo. Secondariamente la creazione di una corte dedicata a seguire i casi di estremismo e terrorismo (State Security Court). I provvedimenti hanno avuto modo di coinvolgere anche la societĂ civile, con training massicci con il personale di hotel, ristoranti, banche e anche con i turisti presenti. Vennero inoltre installati a tappeto metal detector e sistemi di sorveglianza elettronica. A questo sono seguiti una serie di rafforzamenti a livello di intelligence, con cooperazioni sempre piĂą forti con potenze regionali e internazionali. L’aiuto degli Stati Uniti a riguardo non può essere sottovalutato.
Le operazioni di counterterrorism in Giordania sono affidate alle Jordanian Special Operation Forces, al General Intelligence Directorate (GID), al Public Security Directorate (PSD) e alla Gendarmerie. Tutti i reparti lavorano insieme sinergicamente per securitizzare le minacce interne ed esterne.
2. PREVENZIONE SOCIALE DALL’ ESTREMISMO VIOLENTO E LE NUOVE GENERAZIONI
La strategia nazionale contro l’estremismo violento è stata realizzata nel 2014 ed è divisa in tre sezioni: prevenzione, sicurezza e recupero. Per prevenzione si intende agire nello spazio che c’è tra un estremista e un terrorista, tentando di prevenire l’escalation dall’ideologico al fattuale. La sicurezza è costituita dall’apparato militare e di intelligence, mentre il recupero riguarda foreign fighters di ritorno e detenuti.
Nonostante sia considerata baluardo di stabilitĂ , la piccola Monarchia dal 2011 ha contribuito con con un numero stimato tra i 2mila e i 4mila foreign fighters diretti in Siria e Iraq. Ovviamente a questo fenomeno è stata data una risposta militare, ma è indubbio che ci siano delle ragioni intrinseche nel tessuto sociale giordano che hanno portato a questo coinvolgimento massiccio. L’estremismo infatti attira spesso i giovani, con le motivazioni piĂą diverse. La radicalizzazione e la scelta di combattere per una milizia o per l’altra vede un percorso individuale e personale del soggetto, ma tendenzialmente si può dire che in molti casi risulta una delle face della medaglia della crisi economica che ormai imperversa nel Paese da piĂą di 10 anni. Le serie conseguenze sociali che essa comporta sono molteplici, tra le quali lo svilimento familiare a causa della disoccupazione (nel 2018 registrata al 18,7%) e l’incapacitĂ di provvedere al proprio futuro sposandosi e diventando indipendenti. Ad aggravare la frustrazione vi è anche il fatto che molti dei giordani disoccupati sono laureati. Iniziative di youth empowerment e tentativi di riformare il sistema scolastico per le nuove generazioni sono state tra le iniziative proposte da ONG e Governo, ma ad oggi pare che il lavoro sia vago e poco efficiente.
3. RECUPERO DI SOGGETTI RADICALIZZATI, FOREIGN FIGHTERS DI RITORNO E POLITICA NELLE CARCERI
Per quanto riguarda dunque la terza fase di Prevention and Counter Violent Extremism (P-CVE) si può dire con tranquillità che il recupero è a un livello disastroso.
Ciò è dovuto in primis alla visione improduttiva del detenuto come persona da punire e non da recuperare. Il che si concretizza in abusi e torture quotidiane sui carcerati da parte delle AutoritĂ , che non fanno altro che esacerbare l’idea di takfir che il soggetto giĂ ha rispetto al sistema. Il sistema di detenzione è considerato come una garanzia di successo per l’evoluzione da estremismo a vero e proprio terrorismo.
Tra i foreign fighters di ritorno invece si stima che 250 siano riusciti a ritornare nel Paese. A questi se ne aggiungono altri 900 che si crede siano ancora tra Siria e Iraq.
Mentre coloro che sono rientrati entro il 2012 non sono stati incarcerati, per coloro rientrati dal 2014 in poi l’iter prevede un minimo di 3-5 mesi per l’investigazione circa le attivitĂ passate dei soggetti. Anche per i returnees, tornati nelle loro abitazioni la situazione non è delle migliori. I soggetti vengono marginalizzati dalla loro stessa comunitĂ per paura di ritorsioni e per sfiducia, e a volte anche dagli stessi parenti, vivendo una pesante e improduttiva situazione di ostracismo che spesso ricade anche sulle intere famiglie.
In merito il Governo non sembra dare una risposta. La linea politica è tanto eliminare coloro che tentano di rientrare nel Paese, quanto ignorare il problema di coloro che sono già rientrati.
Giulia Macario
Immagine di copertina: Bandiera del Regno di Giordania, Flickr