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Un ponte che divide

Mitrovica, città situata nel nord del Kosovo, è stata paragonata da molti alla Berlino della Guerra Fredda o a Gerusalemme per la sua spaccatura interna. Concittadini ma appartenenti a due differenti etnie, gli abitanti di Mitrovica sono stati protagonisti di un escalation di sangue, in una guerra che li ha visti contrapposti dall’ultimo decennio del secolo scorso  e che non ha ancora avuto completamente fine.

I TERRIBILI ’90 DEI BALCANI

Per capire l’emblematicità del “caso Mitrovica” bisogna, però, fare un salto indietro cercando di comprendere la complessità della questione balcanica.

I Balcani occidentali, ovvero i territori che nella seconda metà del secolo scorso corrispondevano alla Jugoslavia, sono stati storicamente terra di passaggio e di conquista, sin dal tempo dell’Impero Romano, passando per la dominazione ottomana, fino ad arrivare agli austro-ungarici, contribuendo a creare un bagaglio culturale, etnico e religioso estremamente ricco e composito, tenuto insieme da Tito durante l’esperienza jugoslava.

La struttura multinazionale della Federazione non avrebbe, da sola, grande importanza per lo sviluppo della crisi degli anni Novanta, se la distribuzione etnica fosse coincisa con i confini territoriali delle repubbliche. I fatti, invece, ci dicono che solamente la Slovenia poteva dirsi etnicamente omogenea (90% di sloveni) e difatti fu la prima repubblica a dichiararsi unilateralmente indipendente nel 1991 dando vita a soli dieci giorni di guerra.

Per completare questo quadro estremamente eterogeneo vanno aggiunti altri due fattori: in primis le differenze religiose che, coincidendo in gran parte con il fattore etnico, hanno influito fortemente sulla disgregazione dalla federazione jugoslava acuendo le differenze. In secondo luogo l’aspetto economico, in cui le repubbliche settentrionali erano di gran lunga più ricche e sviluppate del resto del paese, ma dove anche all’interno della stessa Serbia vi erano enormi differenze, con la provincia autonoma del Kosovo che si distingueva per essere la più povera.

Questa enorme complessità ed eterogeneità è stata la migliore alleata di un nazionalismo crescente che ha trovato spazio nel vuoto lasciato dalla morte di Tito e del socialismo stesso.

Esso ha così svolto un ruolo da protagonista nelle guerre che si sono succedute durante tutti gli Anni Novanta e che miravano a ridefinire i confini su base etnico-religiosa.

Una volta che anche Croazia e Bosnia-Herzegovina ottennero la loro indipendenza, seppure a caro prezzo, alla Serbia non rimaneva altro che difendere l’ultimo baluardo il quale, però, aveva anch’esso mire indipendentiste: il Kosovo.

La dirigenza politica serba, con a capo Slobodan Milosevic, gli intellettuali, gli storici e la gerarchia della Chiesa Ortodossa hanno svolto un ruolo decisivo nella costruzione  nell’immaginario collettivo dell’identità etnica, della memoria storica e dei suoi miti e simboli fondanti, attraverso il quale il Kosovo veniva, e viene tuttora, rivendicato come la “Gerusalemme” serba, escludendo qualsiasi tipo di riconciliazione con la popolazione albanese.

La seconda metà degli Anni Novanta è stata così caratterizzata in Kosovo da una guerra carica di sangue, eccidi e barbarie tra due popolazioni che fino al giorno precedente convivevano l’una a fianco dell’altra.

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LA DIFFICILE CONVIVENZA TRA L’ETNIA SERBA E ALBANESE A MITROVICA

 Kosovska Mitrovica, in questo senso risulta essere un caso emblematico, poiché la guerra ha creato una fortissima dicotomia e distanza tra le due maggiori etnie: il fiume Ibar, che taglia in due la città, rappresenta la divisione naturale tra esse.

Osservando la città dall’alto si può notare come sia netta la differenza tra le due sponde dell’Ibar: nella zona sud, ovvero la parte abitata dagli albanesi, salta all’occhio il rosso mattone delle case non intonacate, figlio della volontà di ripartire, di ricominciare a vivere, ma anche delle poche risorse disponibili e delle difficoltà postbelliche. Per contro, nella zona nord, dove vivono i serbi, in quella che si può definire tranquillamente un’enclave, risalta la multicromaticità dei palazzi di epoca socialista frutto di una vita che, a loro modo di vedere, non c’è più.

In un contesto del genere, il ponte rappresenta un luogo sensibile e viene così caricato di un alto valore simbolico. Dalla fine della guerra esso è presidiato da forze militari, prima dell’ONU ed ora dell’EULEX, con l’obiettivo di evitare che eventuali contatti tra le due etnie inneschino scontri violenti.

I ponti solitamente sono elementi di congiunzione. Mettono in contatto un’isola con la terra ferma, una riva con l’altra. Facilitano il contatto tra le persone e lo scambio di merci. Agevolano l’interazione.

Uniscono, solitamente.

A Mitrovica invece, esso diventa il simbolo della divisione, dell’incomunicabilità, del conflitto. Di fatto un albanese non frequenta da anni la zona nord della città, così come un serbo non passeggia da tempo sulla riva sud del fiume. E questo perché rischiano la loro incolumità.

Contemporaneamente ogni azione di un appartenente all’altra etnia risulta essere un pretesto per alimentare il risentimento. Ad esempio, gli albanesi hanno criticato con fermezza la costruzione di una chiesa ortodossa su una collina nel lato nord della città poiché, essendo visibile anche dalla zona sud, è ritenuta come altamente provocatoria per essi. Per contro, essendo la divisione lungo il fiume Ibar del tutto arbitraria ed essendo caricati di valore simbolico questi luoghi, non sorprende che una chiesa ortodossa, rimasta a sud, sia presidiata dalle truppe della Kfor  poiché fu teatro di atti vandalici commessi dagli albanesi durante gli scontri del marzo 2004.

Allo stesso modo una moschea che si trovava nella zona nord ora non esiste più.

Inoltre una costruzione così arbitraria di un confine ha fatto sì che il cimitero serbo rimanesse nella zona albanese e quello albanese nella zona serba, limitando così ulteriormente la libertà di movimento delle persone che si trovano impossibilitati ad andare a trovare i loro cari defunti.

Infrastrutture, lavoro e un progetto politico di rilancio della città mancano sia da una parte che dall’altra, ma la sottile differenza che si delinea è di natura psicologica. Sentirsi vincitori morali del conflitto ha conferito agli albanesi una forza, a livello psicologico, che non è presente nei serbi.

Politicamente, inoltre, le differenze sono lampanti: gli albanesi sono molto più vicini a posizioni europeiste, e soprattutto filo americane, tanto che una delle vie principali della capitale Pristina è intitolata a Bill Clinton, ritenuto un vero e proprio salvatore, mentre i serbi credono ancora nel governo di Belgrado e godono dell’appoggio russo.

 

A due anni dall’autoproclamazione dell’indipendenza del Kosovo, avvenuta il 17 febbraio 2008, la situazione per gran parte della popolazione rimane drammatica. Attualmente questo piccolo stato nel cuore dei Balcani è lontano dal garantire una vita dignitosa ai propri cittadini, indipendentemente dalla loro etnia di appartenenza. Essi sono accomunati dalla povertà, da situazioni abitative di grandissimo degrado in cui l’acqua e l’elettricità non sono sempre garantite, da una mancanza completa di grandi investimenti e quindi di un reale rilancio economico. Le strutture sanitarie sono completamente inadeguate alle risposte che dovrebbero dare ai cittadini mentre l’unico ospedale della città, situato nella zona serba, non è frutto di investimenti da parte del Ministero della Sanità kosovaro poichè “rimasto dalla parte sbagliata della città”.

Il rilancio dell’industria mineraria Trepca, attualmente ridotta ad una discarica di rifiuti tossici a cielo aperto, non è mai stato avviato per mancanza di investitori, anche stranieri, che si facessero carico della bonifica.

A undici anni dalla fine della guerra appare ancora vivo il risentimento che spesso si trasforma in odio. Sembra esserci bisogno di molto tempo ancora per far sì che paura, ideali etnici e razziali vengano meno.

La NATO, l’UNMIK (United Nation Mission In Kosovo) e la comunità internazionale in generale non sono riuscite ad avviare un processo reale di integrazione, limitandosi a mantenere la città sotto controllo e, di conseguenza, divisa.

Mentre la questione kosovara è dimenticata dai media e declassata nell’agenda politica dei governi, i Kosovari, serbi o albanesi che siano, più che vivere continuano a sopravvivere.

Giulio Di Rosa [email protected]

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