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Baro romano drom

Quarto appuntamento con “l'altro” visto con gli occhi della letteratura… Stavolta andiamo a scoprire un mondo “diverso” e poco conosciuto, anche se troppo spesso e frettolosamente “chiacchierato”… quello dei rom. Grazie all'opera di un artista eclettico e poliedrico, Alexian Santino Spinelli.

La concezione di una Nazione senza Stato è estranea alla forma mentis dell’Europa. L‘aspetto relazionale dell’identità risulta di ostica comprensione, nonostante si sia rivelato nel tempo il più duraturo e l’unico concepibile nel mondo che abbiamo nostro malgrado costruito. L’esasperazione dell’idea d’identità nazionale ha prodotto cumuli di negazioni della giustizia e della libertà nei rapporti storici e quotidiani tra i popoli, di cui tendiamo a ricordarne solo una piccola parte. C’è un popolo che l’Europa del libero pensiero e delle libertà individuali rifiuta con odio secolare: quello romanì. Un popolo che è rimasto costantemente incardinato nel pregiudizio, di cui storia e cultura ci sono del tutto ignote. E non abbiamo mai rivelato curiosità nel scoprirle. Zingari, nomadi, carovane, giostre e violini. Furti di beni e di bambini, da nascondere sotto quelle gonne larghe, colorate e soprattutto sporche. Passivi, mendichi, incapaci di vivere “normalmente”; portatori insani di disagio e vergogna. Eppure.

Eppure la loro storia, di difficile ricostruzione per le scarse testimonianze scritte e la loro difficile interpretazione, mostra una romanipè tenutasi costante e granitica nel corso dei secoli sotto i numerosissimi colpi inflittele dai bandi di Stati, Ducati, Imperatori e Chiese. Santino Spinelli la ricostruisce egregiamente, partendo dall’analisi linguistica e filologica dei termini per lasciar conoscere questa popolazione e la sua organizzazione sociale, la lingua, tutte le ramificazioni dei sottogruppi delle comunità romanés e dei loro innumerevoli dialetti. Soprattutto la scrittura deve render noto il loro lunghissimo cammino e l’autore compie il proprio sulle orme della Storia. Tra le righe, il “j’accuse” di Spinelli è fortissimo e lo svelamento al gagio (il non-rom, dall’indiano antico gajiha, letteralmente “civile, non militare”) di se stesso e delle sue colpe è tutto volto a distruggere l’immagine mentale dello “zingaro” e l’ignoranza che ce l’ha scolpita.

L’area vitale d’origine di rom, sinti, kale manouches e romanichals –si noti:l’autore non utilizza mai uno solo di questi etnomini dei grandi gruppi romanés, ma sempre rigorosamente insieme, nonostante essi siano in sostanza sinonimi tra loro, per sottolinearne ulteriormente il valore identitario- viene scovata dall’analisi linguistica nel Nord dell’India, in un territorio compreso tra l’attuale Pakistan, il Punjab, il Rajastan e la valle del fiume Sind. In origine si trattava di un gruppo eterogeneo denominato Dom (“uomo”)che occupava i territori dell’antico Impero Persiano e successivamente dell’Armenia, a causa della conquista islamica dei territori. Da qui una parte si sedentarizzerà, un’altra confluirà verso i territori dell’impero bizantino. Proprio la denominazione greca medievale di antighani (“non toccato, non offeso”, termine che porta subito alla mente la strutturazione sociale delle caste indiane) è all’origine dei termini atsiganos e antsinkanos, da cui scaturirà la futura generalizzazione razzista di “zingaro”.Quella di “gitano” deriva invece dal nome di “piccolo Egitto” che veniva attribuito alle regioni da essi abitate, zone prospere.

Coloro i quali sono nella posizione di definire e di denominare un popolo sono anche in grado di controllarlo e reprimerlo”:nelle regioni balcaniche iniziarono le prime schiavitù, sotto lo stato, i boiardi, la Chiesa (e in Romania verrà abolita solo nel 1856). Di peregrinazione in peregrinazione, essi approdarono nel XV secolo in Europa Occidentale, specie in Spagna e Italia meridionale, accattivandosi privilegi e concessioni presso le autorità spirituali e temporali tramite un capo con titoli nobiliari, nonché per l’abilità come musicisti -specie nelle corti- e professionisti nella lavorazione dei metalli. Quest’ultimo fu però un primo motivo di timore e ostilità da parte delle popolazioni “ospitanti”: le credenze popolari arcaiche attribuivano ai “signori del fuoco” l’affiliazione con la Terra e quindi forze sacre e demoniache. E’ un fattore che nello specifico del popolo romanì si legava alle arti magiche -la chiromanzia- e a un linguaggio incomprensibile e sconosciuto ai più. Da qui, e dalla svolta epocale della strutturazione in fieri degli stati sovranazionali, la situazione iniziò a precipitare: dal “Wer Zingeuner schuadight, frewelt nicht” (“Chi colpisce gli zingari non commette reato”), emesso dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo durante la dieta di Augusta nel 1498, alla “Dichiarazione del re contro gli zingari”, firmata da Luigi XIV nel 1682; passando per i 210 provvedimenti emanati dai vari “staterelli” “italiani” – di cui ben 79 a firma dello Stato Pontificio- e per il dispotismo illuminato di Maria Teresa d’Austria e di suo figlio Giuseppe II, che prevedeva un assimilazione ghettizzante ma trasformatrice per la romanipè. Fino ad arrivare allo zenit dell’orrore novecentesco:il genocidio che ne fece il nazifascismo, completamente ignorato dalle commemorazioni storiografiche ufficiali.

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Gli studi di eugenetica riuscirono persino a identificare il “gene del wandertriebe”, quello dell’istinto al nomadismo, attraverso “studi scientifici” condotti su 148 bambini. Nei campi di sterminio furono deportati migliaia di rom e sinti: nel solo campo di Auschwitz perirono in 23.000, stime approssimative parlano di circa 500.000 vittime. Non basta. Gli anni novanta del novecento li annoverano tra le vittime della pulizia etnica di Milosevic e Djuric. Nonostante gli organismi e le commissioni internazionali abbiano emanato numerosi documenti in difesa dei diritti di queste popolazioni, tutte elencate con precisione cronologica, e nonostante abbiano dei propri organismi non governativi all’interno dell’ONU (l’International Romanì Union) oggi essi vivono in una situazione di segregazione razziale legalizzata -una sorta di volontà di annientamento intrinseca porta alla collocazione dei “campi nomadi” in zone periferiche, magari sotto tralicci dell’alta tensione, per esempio- coadiuvata dalle associazioni che dovrebbero favorirne l’integrazione e che Spinelli sbugiarda nei loro intenti profondi come “becero assistenzialismo con tanto di controllore mascherato da solidarietà”.

L’autore parte dalla concretezza degli eventi, corredandoli con citazioni di un’ampia bibliografia, per cercare di far comprendere quelle che noi gage chiamiamo “caratteristiche culturali degli zingari” e che lui invece definisce “strategie di sopravvivenza”, ovvero la genesi della completa discrepanza che non permette una convivenza tranquilla: la solidarietà verso la famiglia di appartenenza, la conservazione in clandestinità della lingua e della cultura romanì, il rafforzamento dei legami endogamici, l’autoesclusione, la mendicità, la menzogna, la divinazione, gli spostamenti necessari per fuggire le persecuzioni. Ultimo, l’incompreso per eccellenza: il furto, che procaccia mezzi per la sopravvivenza e colpisce i gage nei loro beni materiali dall’importanza eccessiva: colpo economico, quindi, ma anche morale. Incomprensione non condannabile, ma certo comune a molti atti di resistenza.

L’interesse dell’opera cresce quando l’analisi si sposta all’interno di questo mondo così estraneo. L’autore scandaglia ogni singolo particolare dell’organizzazione sociale, svelando la struttura orizzontale della “famiglia”, il valore immenso che ciascuna di esse ha all’interno della comunità di appartenenza e un principio di reciprocità che non comporta gerarchizzazioni sociali, se si escludono il divario economico e la preminenza della sfera maschile su quella femminile. Rituali religiosi, matrimoni, funerali sono tutti osservati con l’occhio indispensabile dell’origine tradizionale. Colpisce soprattutto la visione manichea della vita e del mondo, dell’osservazione dei fenomeni naturali e sociali, ma anche di particolari quali gli animali, i cibi, l’igiene personale, secondo quell’ottica dualistica, dove predominano i concetti di “Onore” e “Vergogna”, di “Purezza” e “Impurità”; dove Cielo e Terra hanno un valore arcaico radicato nel tangibile.

Infine l’arte, “caratterizzata da due aspetti inscindibili e complementari perfettamente confacenti alla visuale della filosofia romanés: la malinconia, la ribellione e la dissonanza da un lato e l’allegria, la vivacità e il calore dall’altro”. Pittura (Ferdinand Koçi, rom illustratore e pittore albanese), letteratura (Bronislawa Wajs “Papusa”,roma polacca, figura importantissima nel panorama letterario romanò), teatro (moltissime compagnie, di cui si ricorda l’esperienza fondamentale del Teatro Romen di Mosca, fondato nel 1931) e soprattutto la musica (chi non conosce Django Rehinardt?!).

Siamo sicuramente di fronte a un libro da maneggiare con cura, da sorseggiare come una piccola enciclopedia piena di eventi, leggende,cifre, nomi e studi linguistici che potrebbero anche risultarci pleonastici. Non dobbiamo dimenticare che a parlare è “l’altro” e la situazione consona che viviamo nei suoi confronti è totalmente rovesciata. Ma per conoscere e soprattutto per capire bisogna ascoltare. Rispettare, non assimilare. Inserire, non annullare. Per impedire che proprio l’identità nazionale, continuando a mantenere una radice unica e a non incontrare altre radici con cui condividere il succo della terra, finisca per indebolirsi e assottigliarsi. L’ampliamento la fortifica e riafferma con più vigore. Lacho Drom!

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