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500 temporali

Avete mai pensato al Brasile come qualcosa di diverso? Avete mai immaginato ad un mondo che non sia solo calcio e favelas? Questo romanzo ci introduce in un Paese lontano, ma attraverso una storia comune, fatta di emozioni. Questi il potere di “500 temporali”. Da non perdere.

“La favela del Silvestre si trova nel colle più alto del quartiere Santa Teresa, alla base del Corcovado, montagna su cui un Cristo di trenta metri apre le braccia sulla città di Sao Sebastiao do Rio de Janeiro”. E’ il 22 Aprile del 2000. Il Brasile è stato scoperto lo stesso giorno nel 1500, dall’ esploratore portoghese Pedro Alvares Cabral e cinquecento anni sono trascorsi dalla sua scoperta.  I vestiti delle persone suggeriscono l’atmosfera da festa nazionale, come le banderuole attaccate a dei fili; eppure la scena che la scrittrice apre dissipa ogni dubbio sulla sua natura, dettagliando la descrizione di ogni particolare, perché “prima di arrivare ai fatti bisogna fermarsi sui particolari, altrimenti l’emozione si disperde”, inciso che è una vera dichiarazione poetica; ed è un istante quello in cui capiamo che “i corpi sudati formano un lungo cordone variopinto, come una sfilata di carnevale”, sì; ma questo è un carnevale al rovescio, una sorta di clichè sardonico, “svuotato dell’allegria chiassosa”. Del resto la storia di Christiana de Caldas Brito sottolinea nelle primissime parole che siamo in una favela sul morro più alto del quartiere e a Rio “più in alto vivi peggio stai”.La narrazione che prende il via da questa scena sarà circolare e intreccerà più voci e più storie.

C’è Pedro e la sua voglia di soldi e potere, cui la “semplice pioggia non basta per placare la propria sete”,ma è sufficiente per lasciarlo scivolare verso un perocorso “lavorativo” scontato del morro. Jussara, che la pioggia la vede cadere dalla finestra della sua baracca dal pavimento di terra, “con il serpente vischioso dell’umidità lì annidiato”; la sua vita paraplegica a connotare fisicamente il suo status e la speranza nel “Miracolo” promesso da Oduvaldo Laurindo, stella della tv brasiliana, e dal suo show televisivo. Marlene e la volontà di discendere il morro con la forza della cultura; e al contempo l’inossidabile certezza di essere come quelle caravelle racchiuse in bottiglie di vetro, in quegli squallidi souvenir che pidocchiosi politici regalano in vista delle elezioni: simbolo di libertà e di scoperta, eppure “immobili e senza vento” nella pancia di vetro,a cui si ancorano perché consapevoli di un esterno in cui andrebbero irrimediabilmente in frantumi. Moira e le sue lettere alla pioggia, che portano un segreto permesso dalla ricchezza e che a quelle gocce chiedo nodi trasformare l’anima nel cuore di una tempesta. “Solo chi vive ai tropici sa che tu, pioggia, non sei differente dal nostro sentire”. Ecco perché non può che essere l’elemento dell’Acqua, come l’unico dono del cielo concesso alle favelas , a legare tra loro in un’unica narrazione tutte le storie e i segreti che ciascun personaggio primario o secondario racchiude. La pioggia, “l’unico vero governatore dell’ingovernabile Rio de Janeiro”, dove il commercio di droga conglomera i diversi livelli della società e diventa in alcuni casi l’unica possibilità di ascesa, confondendo alla razionalità la dimensione eroica delle persone, i virtuosismi che occultano la loro reale natura. Il romanzo è zeppo di segreti svelati nel suo corso, come appunto prometteva l’inciso dell’incipit, che troveranno nella sua ultima sessione il giusto raccordo con le promesse e premesse narrative e la “risoluzione” dei misteri e dei destini.

Christiana de Caldas Brito non ha bisogno di particolari presentazioni, essendo una delle scrittrici più mature nell’ambito della letteratura migrante in Italia. Vive e lavora a Roma come psicoterapeuta e questo è forse uno dei motivi che portano il lettore ad ascoltare le sue storie durante la lettura. I suoi racconti e questo suo primo romanzo dimostrano come la tradizione orale così rilevante nella cultura brasiliana si radichi nelle sue storie, spesso raccontate dalla figura femminile più anziana della famiglia, una nonna che ricorda o ipnotizza le giornate e i desideri dei propri nipoti. Come  Anja, la nonna di Marlene, che finge di avere le storie aggrovigliate tra i capelli; ma la nipote riesce a comprendere, una volta diventata adulta che “raccontava storie perché era triste. Piano piano mi fu chiaro questo strano legame tra il raccontare storie e il dolore di chi le racconta”. E’ la saudade che si prende la scena, che “amalgama e nutre il nostro tessuto interno, fatto di tempo”;che “unisce gli esseri umani tra di loro”; che può sfociare nella rabbia se a predominare è il senso della perdita dell’evento gioioso che l’ha generata, ma che si trasforma in creatività se diventa il pozzo da cui attingere. La cultura brasiliana è saudade e “da’ senso al buio”, a ogni pagina che impregna col suo esserci e all’esperienza migrante dell’autrice e della sua terra rievocata nell’ immaginario da lontano e con un’altra lingua. “L’italiano mi ha scelto”, dice Christiana al seminario “Nuovi Itagliani”, tenutosi nel Marzo- Aprile appena trascorso a Roma, tramite una collaborazione tra la Provincia e il dipartimento di Letteratura Comparata dell’Università La Sapienza, “perché è una lingua bellissima da ascoltare per la sua modulazione annasalata. Sarebbe un problema per me adesso scrivere in portoghese, anche se tornassi in Brasile”. E “l’inquinamento linguistico” caratterizza ogni suo scritto, tanto che si è arrivati a definire portuliano la lingua che ha utilizzato nel monologo “Ana e Jesus”: un italiano fortemente contaminato a livello lessicale e morfologico da un brasiliano che risuona  nella mente dell’autrice, riflesso della spontaneità del suo parlato.

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“La visione del mondo si apre quando c’è il silenzio”. La “bacchetta di vetro”con cui Christiana trasforma in parole la sua quiete e le butta in aria trasformandole in “farfalle” ci rende ogni singola sfaccettatura che del Brasile ci è arrivata per conoscenza mediatica, nonchè ogni elemento naturale anche se metaforizzato: il senso religioso latinoamericano, paragonabile solo a quello africano, e il senso religioso nazionale che assume in terra brasiliana il football, quasi come creatura dell’unione tra la cultura africana e cattolica che il Brasile hanno modellato. Anderson, il sorriso largo quanto i suoi denti che sembra raddoppiare la sua risata, la maglietta rossa e nera del Flamengo cucita addosso e la speranza riposta nelle storie raccontategli da Marlene su Gigante e su Pioggia, la forza che un giorno verrà a risvegliarlo, splendida metafora del Paese e della sua intrinseca forza di ribellione, sottolineata sin dalle prime battute dalla ricorrenza d’Aprile della morte dell’eroe Tiradentes (e del resto è l’inno nazionale stesso che ricorda questa figura “Gigante pela pròpria natureza, és forte, impavido colosso…”). La terra, i cui frutti come il legno pau brasil hanno scelto per lei il nome, spalmati sulla chioma della triste Dona Conceiçao, che rappresenta il fondamento di una famiglia disgregata dalle forze sociali e del fato. Un potere mediatico fatto dalla fusione del dolore di storie reali e di quelle telenovelas che hanno concesso anche all’Occidente di dedicare venti minuti della propria giornata a questo Altrove.

Sono le emozioni però la vera potenza di quest’opera. Emozioni che per la scrittrice sono “stelle osservate da non astronomi”, la prima forza propulsiva che crea il tramite tra noi e la scrittura. Ogni istantanea è dedicata a un personaggio, prima ancora che al suo agire, e forgia su di esse il suo punto di vista, alternando differenti tecniche narrative: dall’ onniscienza formalizzata dalla terza persona, al monologo interiore, alla forma diaristica ed epistolare. Emozioni che si saldano sull’ elevata caratura morale delle persone che vivono sopra le favelas, con cui è inevitabile solidarizzare.

Mondo che ci arriva scrosciandoci addosso per renderci la sua implacabilità e la maestria della de Caldas Brito con il suo nuovo vocabolario. Una scrittura leggiadra e seducente che ha permesso ad Armando Gnisci di definire “500 Temporali” come il primo romanzo brasiliano scritto in italiano

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