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“Freedom come”: gli USA e l’eredità persistente della schiavitù

Ristretto6 dicembre 1865: viene ratificato il 13esimo emendamento della Costituzione USA che abolisce definitivamente la schiavitù nel Paese. È la fine di un brutale sistema economico e sociale durato oltre 200 anni, ma la cui eredità continua a pesare come un macigno sull’odierna democrazia americana.

La schiavitù in Nord America comincia nel 1619, quando 20 schiavi africani vengono presi con la forza da una nave portoghese e portati a lavorare nella colonia britannica di Jamestown, in Virginia. Negli anni successivi la Gran Bretagna inizia poi a trasportare massicciamente schiavi dall’Africa occidentale per sostenere lo sviluppo delle sue altre colonie sulla costa atlantica. Gli schiavi vengono infatti giudicati come fisicamente più forti ed economicamente meno costosi rispetto ai servi di origine europea impiegati sino ad allora nei lavori coloniali. Nel XVIII secolo la tratta assume dimensioni gigantesche con circa 6-7 milioni di persone deportate con la forza attraverso l’Atlantico per lavorare nelle piantagioni di tabacco, riso e indaco delle colonie meridionali di Maryland, Virginia, South Carolina e Georgia. Le condizioni di vita degli schiavi sono terribili: il lavoro nei campi è continuo e massacrante, le donne vengono spesso stuprate da padroni o sorveglianti e le famiglie vengono divise con la forza per essere vendute sul mercato ad altri proprietari terrieri. La guerra di indipendenza americana del 1775-83 non cambia la situazione: nonostante gli ideali di libertà della rivolta contro Londra e la partecipazione di alcuni neri liberi alle campagne delle armate rivoluzionarie, la Costituzione dei nuovi Stati Uniti finisce per legittimare implicitamente l’istituzione e per garantirne la sopravvivenza al di sotto della Pennsylvania. In particolare, gli schiavi africani sono considerati come “tre quinti” di una persona bianca e il loro possesso finisce persino per assicurare una fortunata carriera politica ai proprietari. Non a caso molti dei primi Presidenti statunitensi sono grandi proprietari di schiavi, come George Washington e Thomas Jefferson.

Nella prima metà del XIX secolo il cotone soppianta il tabacco come principale coltura della piantagioni e ciò porta ad un’ulteriore espansione del sistema schiavistico nel delta del Mississippi. Allo stesso tempo, però, comincia a svilupparsi un forte movimento anti-schiavistico negli Stati settentrionali che chiede l’abolizione della “peculiare istituzione” per ragioni sia morali che economiche. L’espansione della schiavitù verso ovest provoca anche crescenti attriti politici tra le diverse parti del Paese, con il Nord e il Midwest sempre più insofferenti dell’egemonia del Sud schiavistico e ben decisi a rivendicare i territori di nuova colonizzazione per il “lavoro libero” dei tanti migranti provenienti dall’Europa. Tali attriti diventano sempre più pesanti e sfociano in aperta guerra civile nel 1861, quando gli Stati del Sud secedono dall’Unione in risposta all’elezione presidenziale di Abraham Lincoln, visto come il candidato “ufficiale” del movimento abolizionista. In realtà, Lincoln è sì contrario alla schiavitù ma solo nei territori di nuova colonizzazione, promettendo di rispettarne l’esistenza negli Stati meridionali. Nel corso della guerra, però, il Presidente cambierà idea, colpito anche dal sacrificio di migliaia di soldati neri accorsi in difesa dell’Unione, ed emanerà un primo proclama di emancipazione indirizzato alle aree controllate dai secessionisti nel gennaio 1863. Due anni più tardi, dopo un’estenuante battaglia congressuale, l’abolizione della schiavitù verrà infine sancita dall’inclusione del 13esimo emendamento nel testo costituzionale.

Ma la fine della schiavitù pone il problema dell’integrazione degli ex schiavi nel corpo politico americano e quello dello smantellamento della cultura razzista che ha consentito il loro  brutale sfruttamento per oltre duecento anni. Tali problemi restano ancora oggi irrisolti e continuano ad essere al centro del dibattito politico statunitense.

Simone Pelizza    

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Simone Pelizzahttp://independent.academia.edu/simonepelizza

Piemontese doc, mi sono laureato in Storia all’Università Cattolica di Milano e ho poi proseguito gli studi in Gran Bretagna. Dal 2014 faccio parte de Il Caffè Geopolitico dove mi occupo principalmente di Asia e Russia, aree al centro dei miei interessi da diversi anni.
Nel tempo libero leggo, bevo caffè (ovviamente) e faccio lunghe passeggiate. Sogno di andare in Giappone e spero di realizzare presto tale proposito. Nel frattempo ho avuto modo di conoscere e apprezzare la Cina, che ho visitato negli anni scorsi per lavoro.

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