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Statue, storia e violenze: una discussione sui fatti di Charlottesville (ma non solo)

Circa un mese fa, a Charlottesville – durante gli scontri tra manifestanti di estrema destra da una parte e antifascisti dall’altra – una ragazza è stata travolta e uccisa da una macchina guidata da un “nazionalista bianco”. La manifestazione dell’estrema destra era stata convocata in risposta alla volontà delle autorità locali di rimuovere la statua di Robert E. Lee, generale delle forze confederate durante la Guerra di Secessione americana. L’episodio ha generato un vespaio di polemiche – anche per via della risposta ambigua del presidente Trump – e il livello dello scontro verbale è rimasto elevato. Anche noi ne abbiamo discusso – più pacatamente – all’interno della redazione, provando a ragionare sui fatti in sé, sul valore della storia e delle figure che l’hanno fatta e su come affrontare situazioni di questo tipo. Ecco riportata la nostra conversazione

Simone Zuccarelli – Vorrei sottoporvi questo. Qualche giorno fa Simone (Pelizza) diceva che, forse, in alcuni casi ci si fa prendere un po’ troppo dalla partigianeria e non si considera l’insieme nel suo complesso. Questo è un tweet che ho appena letto e viene da una giornalista del NYT.

Due brevi riflessioni:

1. Questo è passato sui media? In Italia io ho sentito una sola narrativa ma anche i principali media americani hanno riportato “l’altra faccia della medaglia” in modo limitato e/o timoroso.

2. Leggendo la discussione sotto il tweet della giornalista si possono osservare duri attacchi alla stessa per aver scritto quanto ha visto. Per rimediare, si è sentita in dovere di fare ammenda, sostenendo che avrebbe dovuto scrivere “violent” e non “hate-filled”. Ora, capisco le ragioni di chi dice che, forse, chi manifesta contro i rigurgiti neonazisti non può essere equiparato ai nazisti stessi, ma attaccare altre persone con mazze e oggetti contundenti non mi sembra tanto distante dall’essere “hate-filled”. Ciò che più mi disturba, però, è questo immediato accanimento su una giornalista che, tra l’altro, non lavora certo per Breitbart news…

Ora, Trump è… poco convenzionale, e lo sappiamo; ha gestito male le fasi seguenti alle violenze, e ok. Soprattutto, come ricordato anche dai principali esponenti Repubblicani, ha sbagliato a non condannare, immediatamente e con durezza, manifestazioni ideologiche retrograde e non in linea con gli ideali americani. Ma siamo sicuri al 100% che sia stato raccontato tutto in modo obiettivo? Onestamente, io non ne sono così convinto. Ad esempio, è vero che Trump ha in parte sbagliato, come detto sopra, ma è anche vero che non è completamente errato condannare anche gli altri gruppi che conducono battaglie politico-ideologiche con la violenza e che sono stati coinvolti in atti di violenza a Charlottesville. Sembra pensarla così anche la maggioranza degli elettori della Virginia, che ritiene siano da condannare ambedue gli schieramenti per le violenze (41%, contro il 40% che addossa le responsabilità ai neo-nazisti e il 6% che le addossa agli anti-fascisti).

Simone Pelizza – Non c’è dubbio che i cosiddetti anti-fa siano violenti e illiberali. A Charlottesville hanno anche loro contribuito alle violenze nel centro cittadino. Ma la parata notturna dei nazisti per le strade della University of Virginia è stata apertamente provocatoria e i partecipanti a essa sono stati tutt’altro che pacifici. I “nazionalisti bianchi” e i neo-confederati che hanno poi sfilato per il centro di Charlottesville erano pesantemente armati e hanno lanciato continui insulti e minacce ai loro oppositori, cercando ripetutamente lo scontro fisico. Trump non doveva fare l’equilibrista e condannare senza se e senza ma un simile dispiegamento di odio razziale. Poi poteva anche prendersela con le violenze anti-fa, e giustamente. Ma prima ci doveva essere un messaggio forte e chiaro all’indirizzo di nazisti ed estremisti di destra. Cosa che invece non c’è stata. E così facendo Trump ha dimostrato che l’ex leader del Ku Klux Klan David Duke e i suoi accoliti non hanno tutti i torti nel vedere in lui un alleato per la loro causa razzista. In sostanza, il Presidente ha rifilato un duro colpo simbolico all’idea attuale di democrazia americana, che è pluralista e multirazziale. Un gesto grave che ha provocato l’aperto dissenso dei capi delle Forze Armate e che ha contribuito ad affondare i comitati di collegamento dell’attuale amministrazione con il mondo economico.

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Fig. 1 – Proteste contro razzismo e discriminazione a Chicago (27 agosto)

Lorenzo Nannetti – Anche in Italia c’è una forte retorica “contro”. Gli estremismi di sinistra non sono nuovi e ho tra i miei contatti alcuni che sono di un fanatismo (e un’incoerenza) pari a quelli dell’altra parte.

Ed è parte del problema. Le due retoriche contrarie dominano perché sono entrambe forti, mentre le voci serie non riescono a farsi sentire. Vedi migrazioni: il dibattito è stato tra chiudere tutto e aprire tutto – per cui ad esempio il discorso dei corridoi legali d’immigrazione è passato in secondo piano e ogni parte aveva il fanatismo opposto come “scusa”.

Per cui si perde spesso la misura e alcune cose sono prese a “simbolo” quando non lo sono. Per esempio io non farei grandi tragedie per i monumenti confederati, almeno per molti di essi. Per quanto mi riguarda possono anche rimanere. La guerra del resto non venne fatta davvero per la schiavitù e ci furono “eccessi di zelo” da entrambe le parti (Andersonville dei confederati era poco diverso da un lager, ma anche Camp Douglas non fu uno scherzo e Atlanta non fece una bella fine).

Simone P. – A mio avviso alcune statue possono restare, ma non tutte e quelle che restano devono essere storicamente contestualizzate. Buona parte di questi monumenti sono stati infatti eretti per sostenere il regime segregazionista degli Stati del Sud nella prima metà del ‘900 e presentano una visione storica della guerra civile che è sostanzialmente distorta. Inoltre le comunità non bianche del Sud hanno diritto tanto quelle bianche di esprimere la loro opinione sull’argomento e di chiedere una visione pubblica della storia della regione che non sia semplicemente una glorificazione postuma dello schiavismo pre-1865 o del segregazionismo post-1865. Non va poi dimenticato che i protagonisti di tali monumenti sono stati spesso meno “eroici” di quanto si crede: durante la campagna di Gettysburg, ad esempio, l’Armata della Virginia Settentrionale comandata da Lee rapì sistematicamente diverse centinaia di afroamericani residenti in Pennsylvania, soprattutto donne e bambini, usandoli poi come lavoro forzato per le proprie operazioni belliche. Sempre Lee rifiutò a lungo di scambiare prigionieri con Grant perchè quest’ultimo voleva che fossero inclusi negli scambi anche i soldati afroamericani dell’Unione. Quante delle targhe o statue commemorative dedicate al generale sudista riportano questi fatti? Quanti monumenti ci sono a memoria delle persone rapite dal suo esercito in Pennsylvania? Risposta: zero. In compenso abbiamo decine e decine di monumenti che glorificano il personaggio Lee in maniera spesso grottesca, facendolo passare per una sorta di “santo” laico senza macchia e senza paura. Tutto in difesa di un vecchio ordine sociale basato sull’idea della superiorità della razza bianca. Inutile dire che i tempi sono cambiati e che una visione simile del passato è sempre più inaccettabile per un Sud americano che sta cambiando profondamente, sia a livello sociale che demografico. Prima o poi la questione doveva emergere e i fatti di Charlottesville stanno accelerando il dibattito sul futuro delle statue, anche se in modo poco salutare. Ma è comunque una problematica da affrontare seriamente. L’unico a non averlo capito sembra essere Donald Trump.

Lorenzo N. – Giusto, ottime obiezioni. Avevo letto anche io qualcosa sulla mitizzazione eccessiva di Lee. Sulla questione di Charlottesville, sono 100% d’accordo. Come approfondimento, intanto, suggerisco questo articolo dell’Economist.

Simone P. – Su Lee la ricerca storica è avanzata parecchio negli ultimi decenni e ha demolito molti vecchi miti. Si vedano ad esempio lavori ben documentati come “The Marble Man” di Thomas L. Connelly e “Reading the Man” di Elizabeth Brown Pryor, che hanno raccontato con onestà pregi e difetti del personaggio. La storiografia contemporanea ha poi indagato con attenzione la romanticizzazione post-bellica della Confederazione e il mito della ‘Lost Cause’, mostrando come il Sud sconfitto abbia costruito un’immagine edulcorata del proprio passato per sfuggire al trauma della fine del sistema schiavista e per agevolare la propria riconciliazione con il Nord vincitore. Questa immagine è poi stata diffusa dalla letteratura e dal cinema, creando una visione “eroica” della guerra civile americana smaccatamente filo-sudista. Una visione che è entrata in crisi solo di recente, dando vita agli attuali dibattiti sul futuro dei monumenti confederati.

Va comunque detto che gli Stati Uniti non sono l’unico Paese a dover fare i conti con un passato scomodo o con una memoria pubblica discutibile del proprio passato. In Gran Bretagna, per esempio, c’è stato recentemente il tentativo di rimuovere la statua di Cecil Rhodes da Oxford. Non ha avuto però successo. E in Italia è stato rimosso da poco il busto del generale Cialdini dalla Camera di Commercio di Napoli dopo una vivace campagna da parte di neo-borbonici e Movimento 5 Stelle.

Simone Z. – Molto interessanti i consigli di lettura.

Tornando a Charlottesville, concordo in pieno. Ci voleva un messaggio differente. Va anche detto, però, che in seguito Trump – in colpevole ritardo – ha condannato duramente gli estremisti di destra e lo ha sostenuto anche nell’intervista nella quale, comunque, ha ribadito le critiche ai manifestanti di estrema sinistra.

Per quanto riguarda la statua di Rhodes, mi chiedo, fino a quanto non avrà successo, Simo? Siamo una società che non è in grado di fare pace con la sua storia. Perché ovvio, io posso capire – ed essere d’accordo – che un polacco, ad esempio, voglia togliere monumenti imposti, in sostanza, da un occupante straniero che ha vessato e privato il popolo della libertà per quarantacinque anni, ma quando si fa la stessa operazione sul proprio passato qualcosa non va. Certo, esistono eccezioni molto controverse che giustamente vengono affrontate in modo differente – una statua di Hitler sarebbe, per ovvie ragioni, inaccettabile. Ma Rhodes, nel bene o nel male, ha fatto grande l’Impero Britannico e ha tenuto un comportamento in linea ai canoni del suo tempo. Va contestualizzato, certo, ma non cancellato. Questo accanimento di alcuni – quasi feticistico – contro la propria storia non lo condivido. Parlavamo tempo fa in merito all’incapacità italiana di fare pace con la propria storia, ma evidentemente all’estero non stanno tanto meglio.

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Fig. 2 – Statua di Robert E. Lee a Charlottesville

Simone P. – No, non stanno molto meglio. A Oxford l’iniziativa è comunque venuta da studenti africani, non britannici. E per loro Rhodes non è molto dissimile da Hitler.

Simone Z. – Sì, immagino, ma non è salutare che vengano cancellati simboli storici solo per appagare una minoranza della popolazione. Non solo per il valore degli stessi, ma anche per la reazione che si genera nell’opinione pubblica. Si rischia di alimentare solo il circolo vizioso dell’intolleranza e dell’odio. Inoltre, quanto tempo passerà prima che arrivino i britannici – se già non lo fanno – a chiedere lo stesso? Onestamente di questo passo non so. Noto nelle società occidentali – ma non è un fenomeno nuovo – un’autocritica spesso eccessiva o caricaturiale delle nostre responsabilità verso il mondo intero. Gli eccessi, pro o contro, non sono mai obiettivi e raramente portano a buoni esiti.

Simone P. – In Gran Bretagna il dibattito storiografico e culturale sull’Impero è molto forte. In parte è anche all’origine della Brexit, come notato da diversi osservatori. La discussione è dovuta non solo alla fine repentina dell’esperienza imperiale, a suo modo un trauma mai superato, ma anche al cambiamento demografico e sociale del Paese. L’immigrazione ha infatti cambiato volto alla società britannica e i nuovi abitanti non vedono necessariamente l’Impero nello stesso modo dei loro concittadini bianchi. Come in America, le polemiche sono poi alimentate da problemi attuali come discriminazione, violenza della polizia ecc. Va però notata una cosa importante: le principali commemorazioni pubbliche del passato in Gran Bretagna non riguardano l’Impero, ma l’esperienza del Paese durante la Seconda Guerra Mondiale. Basti pensare ai tanti film e documentari su Churchill o ai nuovi monumenti dedicati ai piloti della battaglia d’Inghilterra. È questa memoria che viene promossa maggiormente dalle autorità e che viene usata (a volte in modo poco efficace o discutibile) per creare un’identità comune tra le tante comunità etniche della nazione. L’Impero viene lasciato da parte perché giudicato (e a ragione) come troppo divisivo e controverso.

Simone Z. – Certamente, ma una storia di successo è difficile da rimuovere senza ulteriori traumi. Inoltre, non credo che la rimozione di una parte del proprio passato sia salutare nel lungo periodo. È difficile costruire un’identità da zero una volta che hai perso la tua. Qui torniamo anche al discorso Brexit.

A ogni modo, tornando negli Stati Uniti, ho visto i dati sulla percezione delle statue Confederate e i risultati sono perfettamente in linea con quanto da te scritto sopra. C’è una differenza enorme di vedute tra etnie e colorazioni politiche. Però alcuni dati sono interessanti da riportare poiché restituiscono una realtà parzialmente differente rispetto a quella apparsa su alcune testate:

  • Per il 54% degli americani (contro il 26%) le statue rappresentano un simbolo di orgoglio del sud piuttosto che un simbolo di razzismo;
  • Solo il 30% approva la rimozione della statua di Lee da Charlottesville mentre il 48% disapprova. Le differenze tra partiti ed etnie, però, sono notevoli. I democratici che approvano sono il 42% e mentre quelli che disapprovano il 27%. I repubblicani disapprovano in larga maggioranza (78% – 11%). I bianchi, nel complesso, approvano al 25% e disapprovano al 57%; i neri, al contrario, approvano al 49% e disapprovano all’11%;
  • Dato molto interessante è quello relativo alla destinazione che dovrebbero avere le statue dei confederati. Il 62% degli intervistati sostiene che dovrebbero rimanere al loro posto come simbolo storico, mentre solo il 27% sostiene che debbano essere rimosse perché offensive. Tra i democratici prevale leggermente l’idea della rimozione (47% – 44%) mentre tra i repubblicani decisamente il mantenimento (86% – 6%). Aspetto interessante, però, è che la popolazione di colore ritiene che debbano essere preservate come simbolo al 44% mentre il 40% ritiene che vadano rimosse;
  • Infine, un altro elemento va sottolineato. L’equazione simboli confederati = razzismo/suprematismo bianco rischia di essere affrettata ed errata. Infatti, nonostante le posizioni dei repubblicani in merito a tali simboli, solo il 2% dei repubblicani vede con totale favore i neonazisti mentre chi li vede con totale sfavore è il 78% degli intervistati. Dunque, probabilmente per la maggior parte di loro i monumenti confederati sono un simbolo di orgoglio del sud o di una certa lotta/retorica contro il big government più che simboli volti alla sottomissione di una minoranza.

Di questi dati bisognerebbe tenere conto.

Lorenzo N. – In effetti, indipendentemente da come tali documenti siano stati pensati o meno, comunque oggi (da tempo in realtà) sono diventati simboli – e il valore odierno supera qualunque altro significato potessero avere nella società di allora.

Simone P. – Suggerisco, nel frattempo, questo ottimo articolo che spiega bene la genesi dei monumenti confederati e le loro caratteristiche politiche, legali e culturali. Scritto da un professore di storia alla University of North Carolina che dirige anche un progetto per la creazione di un database dei siti storici e commemorativi del suo Stato. È quindi uno che sa bene ciò di cui parla.

I dati del sondaggio riportato da USA Today sono interessanti e confermano quanto detto in precedenza: mentre la maggior parte dei bianchi (specialmente di orientamento conservatore) li considera come simboli innocui di “Southern pride”, la maggior parte degli afroamericani li vede invece come simboli di razzismo. E questa spaccatura è più forte nel Sud.

Da notare anche le differenti percezioni della bandiera confederata e dei monumenti. La popolarità della prima è calata notevolmente rispetto agli anni ‘90. Ormai anche molti bianchi la vedono come un simbolo razzista. Effetto forse della strage di Charleston di due anni fa (o delle continue parate di nazisti e suprematisti accompagnate da tale effigie).

Simone Z. – La mia preoccupazione, però, è che si apra un vaso di Pandora impossibile da richiudere. Non solo sono aumentati decisamente gli atti di vandalismo contro monumenti confederati, ma i bersagli sono diventati anche altri. Pochi giorni fa è stata vandalizzata una statua di Cristoforo Colombo. A Los Angeles è stato sostituito il Columbus Day con una festa dedicata agli indigeni. A nulla sono valse le proteste degli italo-americani che sarebbero stati favorevoli a un giorno in ricordo degli indigeni ma non a scapito del Columbus Day. A New York si discute se sia il caso di rimuovere la statua dell’esploratore genovese. Nel Regno Unito, poi, una giornalista del Guardian ha proposto la rimozione della statua dell’Ammiraglio Nelson perché “suprematista bianco”. Ora, mi sembra si stia un po’ esagerando. Anche perché, francamente, quanti cittadini inglesi concepiscono la statua di Nelson in quel modo? Quanti di noi la vedono in quel modo? Io vedo il monumento e ripenso a Trafalgar e Abukir. Gli inglesi, probabilmente, lo ricordano per la sua vita al servizio della loro Patria e, magari, per le sue ultime parole: “God and my country”. Francamente, vedo questa battaglia, spinta a livelli simili, semplicemente un altro modo di fare politica anche dove la politica, oramai, non era presente da anni.

Simone P. – L’articolo del Guardian è probabilmente una provocazione acchiappa-click ed è stato ampiamente contestato dal mondo politico e culturale britannico. Diversi storici hanno anche notato la disonestà intellettuale del presentare il monumento di Nelson come un simbolo “suprematista”. La statua in Trafalgar Square non corre dunque alcun pericolo. In ogni caso, come notato in precedenza, anche la Gran Bretagna deve affrontare un dibattito storico-politico non dissimile da quello in corso negli Stati Uniti. Sia il ricordo della schiavitù che quello dell’Impero risultano infatti problematici per una società multirazziale e multietnica, spesso drammaticamente frammentata lungo linee politiche e culturali. Come affrontare il tema senza cadere nella demagogia iconoclasta del “politicamente corretto” o nella stanca perpetuazione delle narrazioni edulcorate dei monumenti ufficiali? La risposta risiede probabilmente in un dibattito onesto su tali monumenti e nella ricerca di soluzioni condivise verso quelli più controversi. Queste soluzioni non prevedono soltanto la rimozione della statue “impopolari”, ma anche la loro contestualizzazione storica o l’aggiunta di nuove opere che promuovano una memoria storica più complessa e variegata. Sfortunatamente fatti tragici come quelli di Charlottesville esasperano gli animi e rendono difficile una discussione civile della questione. Ma è assolutamente necessario avere questo tipo di conversazione, altrimenti a prendere il sopravvento saranno violenza e vandalismo. Con risultati disastrosi per tutti.

Lorenzo Nannetti, Simone Pelizza, Simone Zuccarelli

 

[box type=”shadow” align=”aligncenter” class=”” width=””]Un chicco in più

Nel frattempo il consiglio cittadino di Charlottesville ha deciso all’unanimità la rimozione di un’altra statua di un generale confederato, Stonewall Jackson.

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Foto di copertina di Phil Roeder Licenza: Attribution License

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