Ristretto – 10 febbraio 1947: il trattato di Parigi stablisce la cessione di Istria, Dalmazia e Quarnaro alla Jugoslavia, restringendo il confine orientale dell’Italia a parte della Venezia-Giulia e del golfo di Trieste. È la conclusione formale di un drammatico e brutale processo che mette fine in pochi anni alla secolare presenza italiana in quelle regioni, contrassegnato dai massacri delle foibe e dall’esodo di centinaia di migliaia di persone verso l’Italia.
La questione è complessa e affonda le sue radici già nel tardo Ottocento, quando l’Austria-Ungheria usa il nazionalismo slavo contro quello italiano per mantenere il controllo della costa orientale adriatica. Il governo di Vienna, ad esempio, procede all’espulsione forzata di migliaia di italiani e li sostituisce con coloni slavi e tedeschi, favorendoli anche a livello politico e sociale. Tali misure contribuiscono a incrinare l’asse Roma-Vienna nella Triplice Alleanza e danno vita a un forte movimento irredentista, che spinge l’Italia a entrare nella Grande Guerra nel 1915. Tre anni più tardi, l’Italia occupa militarmente tutta la Venezia-Giulia e la Dalmazia settentrionale, ma i trattati di Saint-Germain e di Rapallo riconoscono solo in parte le rivendicazioni di Roma su tali zone. Ciò da il via a un duro confronto con il neonato Regno di Jugoslavia, risolto solo parzialmente dal trattato di Roma del 1924 che stabilisce il confine ufficiale tra i due Paesi sul fiume Eneo. Intanto, il fascismo inizia una sistematica opera di italianizzazione forzata sia dell’Istria che della Dalmazia, imponendo nomi italiani a luoghi e persone, favorendo l’assunzione di personale italiano nelle istituzioni locali e vietando l’insegnamento delle lingue slave nelle scuole. Queste politiche finiscono per alimentare l’ostilità delle popolazioni slave verso l’Italia e danno vita a fenomeni di terrorismo repressi brutalmente dalle autorità fasciste. Nel 1941 l’invasione tedesca della Jugoslavia peggiora ulteriormente la situazione, con l’annessione italiana di buona parte della Slovenia e la nascita del brutale regime degli ustascia in Croazia. In risposta al crescente movimento di resistenza jugoslavo di Tito, le truppe italiane commettono infatti numerose atrocità, come la strage di Podhum nel luglio 1942, e procedono persino all’internamento di migliaia di civili nel campo di concentramento di Arbe. La reazione jugoslava non si fa attendere: già dopo l’8 settembre 1943 avvengono diverse esecuzioni sommarie di esponenti fascisti e figure di spicco delle locali comunità italiane, ma le rappresaglie assumono dimensioni ben più drammatiche nei primi mesi del 1945, quando la sconfitta italo-tedesca è ormai certa.
Allora le forze titine passano infatti alla sistematica eliminazione di centinaia di italiani in Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia, gettandone spesso i corpi in fosse comuni o nelle foibe (cavità naturali tipiche del Carso). Non si tratta però solo di vendetta: l’obiettivo degli uomini di Tito è l’annessione forzata di tali territori e l’eliminazione di ogni potenziale oppositore al nascente regime socialista. Non a caso gli italiani uccisi non sono solo fascisti, ma anche partigiani, insegnanti, sacerdoti e funzionari pubblici. A seguito di questa campagna di terrore, decine di migliaia di italiani giuliano dalmati sono costretti ad abbandonare le proprie case e a cercare rifugio in Italia, dove ricevono spesso un’accoglienza ostile. Dopo la firma del trattato di Parigi, l’esodo si fa ancora più marcato e porta alla scomparsa di comunità storiche come quelle di Pola e Zara, presenti da secoli su quella parte di costa adriatica. Nel 1971 un censimento jugoslavo rileverà appena 17mila italiani nell’area dell’Istria e del Quarnaro, numero microscopico rispetto a quello del periodo pre-1945.
Si calcola che l’esodo abbia coinvolto tra le 250 e le 350mila persone. Incerto è anche il numero delle vittime delle foibe, anche se la maggior parte degli storici sembra propendere per una cifra tra le 3000 e le 5000 unità. Alcuni fanno però notare come molte vittime della repressione titina non siano state “infoibate”, ma sepolte in fosse comuni o morte di stenti in campi di prigionia, cosa che mette in discussione l’accuratezza delle cifre stimate. Dopo un periodo di oblio, la ricerca storica italiana sulla vicenda è iniziata negli anni ’70 e ha acquistato rilevanza pubblica negli ultimi decenni, seppur tra molte polemiche e mistificazioni politiche. Dal 2004, il 10 febbraio è il “Giorno del Ricordo” per commemorare le vittime di quei tragici avvenimenti.
Simone Pelizza