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Gli USA nel 2020: intervista a Francesco Costa

Dopo quella del 2018, abbiamo avuto l’opportunità di una nuova intervista a Francesco Costa, Vicedirettore de Il Post, esperto di politica USA, autore della newsletter/podcast “Da Costa a Costa” e del recente libro “Questa è l’America”. Si è parlato delle elezioni 2020, delle chance di Trump e dei vari “volti” del Paese.

(alla fine dell’articolo trovate un piccolo glossario per alcune parole chiave)

Negli ultimi tempi si è molto parlato delle primarie democratiche. Riportiamo invece un attimo l’attenzione sull’altro lato del campo. Quali sono la strategia elettorale di Trump e le sue chance di rielezione, contando anche che Biden può contendergli l’elettorato bianco e suburbano?

La premessa necessaria è che tutto questo dobbiamo cercare di dedurlo dal comportamento dei candidati, visto che le strategie non vengono mai enunciante esplicitamente. Comunque, la strategia di Trump sembra in piena continuità con quella del 2016, e – se vogliamo – con le tendenze della politica americana da diversi anni. Ovvero, piuttosto che cercare di essere persuasivi con gli elettori indecisi, o che storicamente hanno votato per il candidato avversario, si punta a consolidare il sostegno della propria base. Trump ha un tasso di approvazione piuttosto basso, per quanto in miglioramento, e quando ha vinto nel 2016 aveva la popolarità più bassa nella storia dei candidati. Non per questo è privo di chance, anzi. In un Paese con un’affluenza tendenzialmente attorno al 50%, esiste un ampio bacino di persone ideologicamente conservatrici ma che non necessariamente vanno a votare. Trump quindi preferisce puntare su un’identità molto forte e riconoscibile per ottenere proprio quei voti, anziché cercare di attrarre più elettori. Questa sembra la sua strategia a questo giro, ma c’è una variabile in più: fino a un mese fa, Trump pensava di andare a queste elezioni mostrando un’economia che andava forte, il che avrebbe avuto un appeal anche con elettori non convintamente conservatori ma attenti alle condizioni dell’economia. Era proprio questo l’elemento che doveva dargli una mano con quell’elettorato bianco e suburbano. Invece, sappiamo che Trump affronterà le elezioni in mezzo a una dura recessione, che di certo non sarà colpa sua, ma sarà giudicato anche da come la sua Amministrazione vi farà fronte.

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Fig. 1 – Per la rielezione, Trump punterà sul mobilitare al massimo la sua base elettorale

Tendenzialmente i due partiti tradizionali prendono insieme circa il 98% dei voti, mentre nel 2016 questa percentuale è stata particolarmente bassa, il 94%. I Libertari* ad esempio avevano fatto il loro record. C’è quindi potenzialmente un 4% che “balla” in diversi Stati e che potrebbe essere significativo, considerando proprio che Trump ha vinto tre Stati chiave per pochi voti. Chi è più avvantaggiato tra i repubblicani e i democratici a contendersi questa quota?

Domanda interessante. Credo che il dato anomalo del 2016 sia dovuto proprio all’anomalia dei candidati e al momento politico: Trump aveva vinto le primarie andando contro al Partito Repubblicano e al suo establishment, lasciando quindi un pezzo del partito non contento della sua nomina; dall’altro lato, anche la Clinton era molto impopolare, e sollevava perplessità anche fra i suoi elettori. Tutto questo in un contesto in cui si arrivava da due mandati di un Presidente democratico: di solito quando c’è un Partito al potere da tanti anni i “candidati terzi” guadagnano forza. Secondo me in queste elezioni le cose torneranno a una dimensione più normale. Tendo a pensare che Trump farà il pieno nell’elettorato conservatore e difficilmente il Partito Libertario andrà così bene come nel 2016. Allo stesso modo, non penso che una candidatura di Biden possa essere così vulnerabile, come fu quella della Clinton, ai Verdi. Credo comunque che Trump possa essere il più penalizzato. Vedo infatti tra i democratici una disponibilità maggiore a votare per qualcuno le cui idee non collimano perfettamente con le proprie. Nel 2016 molti democratici non erano particolarmente entusiasti di votare Clinton, anche perché pensavano che avrebbe vinto comunque. Stavolta, dopo quattro anni di Trump, i democratici, o comunque l’elettorato di centrosinistra, sanno cosa rischiano e saranno più propensi a votare Biden. Naturalmente questo sarà importante negli Stati chiave, se dovessero finire come l’altra volta per questioni di pochissimi voti. Va detto che è difficile anche prevedere quali saranno gli Stati chiave, poiché molto dipenderà dalla formula con cui si terranno queste votazioni: se si voterà moltissimo per posta*, come possibile, non sappiamo cosa succederà in Stati che non hanno questa tradizione; magari in interi segmenti della popolazione voterà il 6-7% meno del solito e quello in Michigan e Florida può essere decisivo.

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Fig. 2 – Trump ha vinto alcuni Stati del Midwest per pochissimo e nel 2020 saranno nuovamente da tenere d’occhio

Nel tuo libro hai dipinto bene un Paese dai molti volti, che procedono a diverse velocità. In particolare, colpisce il confronto tra le difficoltà della Rust Belt*, con le tragiche storie di Flint e Detroit*, e la crescita di Texas e California. Secondo te cosa può fare il Governo federale per migliorare la situazione di queste aree in declino? Oppure ritieni che queste siano tendenze fisiologiche, su cui alla fin fine nessun Presidente può fare molto, al di là dei proclami?

Ci sono tendenze molto profonde difficili da invertire, fenomeni che hanno a che fare con stratificazioni così complesse della popolazione, cultura, demografia. Bisogna quindi innanzitutto vedere cosa ha funzionato negli Stati del Sud e dell’Ovest. Le cause sono tantissime, ma se devo dire quella che ha pesato di più è il fatto che lì c’è una popolazione più giovane, quindi più dinamica e con più imprenditorialità, e più diversa dal punto di vista etnico, quindi più simile alla popolazione del Paese in generale (che diventa ogni giorno meno bianco). Non è oggi plausibile immaginando le volontà dell’Amministrazione Trump, ma una cosa da fare potrebbe essere favorire un rinnovamento demografico in queste aree in declino: favorire la natalità, abbassando l’età media, ma anche l’immigrazione, sia da Paesi diversi che da posti diversi degli USA, in modo che arrivino persone più giovani e con più imprenditorialità. Invece, nei posti della Rust Belt, le iniziative a sostegno dell’economia degli ultimi anni tendono, con risultati alterni, a cercare di riprodurre i distretti industriali e le realtà economiche di una volta. Vengono ad esempio riconvertiti stabilimenti (come nel documentario “American Factory”, che racconta di una fabbrica che si riprende con l’arrivo capitali cinesi), il che è meglio di niente ma non è una soluzione così futuribile, come invece il Colorado che ha legalizzato la marijuana a scopo ricreativo aprendo a un’intera industria, o l’industria biotecnologica nel distretto di Austin, o la crescita del Nevada anche rispetto all’agricoltura. Ecco mi sembra ci sia più energia in quelle parti di America e bisognerebbe trovare un modo di trasportarla nel Midwest, ma mi rendo conto che non è facile.

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Fig. 3 – La Rust Belt, terra che ha sofferto grosse difficoltà economiche, elettoralmente decisiva

Come procede la trasformazione interna al Partito Repubblicano, la cosiddetta “trumpizzazione”? Siamo davvero a un punto di non ritorno, oppure i conservatori “classici” e dell’establishment potrebbero riemergere, magari in vista del 2024?

Credo che siamo abbastanza a un punto di non ritorno. Poi questo non vuol dire che le cose non cambieranno mai e non ci sarà a un certo punto un cambio di linea: quello c’è stato in tutti i partiti e accadrà anche tra i Repubblicani, ma non sappiamo in che forma e quando. Dandoci invece un orizzonte più prossimo, il 2024 per esempio, siccome l’ascesa di Trump non è stata tanto merito suo, quanto l’esito finale di una serie di trasformazioni in corso già da vent’anni, tendo a pensare che questi cambiamenti non si cancelleranno da un momento all’altro, nemmeno se Trump dovesse perdere. Tendo a pensare che, nel breve termine, Trump o non Trump, il GOP sia un partito radicale e con questo bisognerà fare i conti. Credo che cercheranno di continuare a essere competitivi non solo puntando sull’affluenza e mobilitando la base, ma anche attuando tutta quella serie di aggiustamenti del meccanismi politici che danno loro un vantaggio. Basti pensare al Senato, che non è rappresentativo della popolazione, su cui i Repubblicani conservano un forte vantaggio avendo grandi consensi nelle aree rurali. Oppure la Corte Suprema e il gerrymandering*. Sembrerebbe che tutto quello che oggi pare andare a loro svantaggio, guardando al modo in cui sta cambiando la popolazione nazionale, riescano a compensarlo grazie a un vantaggio strutturale che hanno per come è costruita la democrazia americana, nelle sue Istituzioni.

Un Caffè americano con Francesco Costa 1

Fig. 4 – Il Vicedirettore de Il Post, Francesco Costa

Il Caffè Geopolitico ringrazia Francesco Costa per la sua disponibilità e cortesia nell’averci rilasciato quest’intervista

Francesco Costa è Vicedirettore de Il Post e autore della fortunata newsletter/podcast “Da Costa a Costa”, sulla politica e società statunitense. Ha recentemente pubblicato il libro “Questa è l’America”. Laureato in Scienze Politiche, precedentemente ha collaborato con Internazionale e l’Unita, oltre ad aver scritto per Il Foglio, Donna Moderna, l’Ultimo Uomo, Grazia, Studio, Undici, Liberal e Giornalettismo.

Antonio Pilati

Partito Libertario: fondato nel 1971. I Libertari sono sostanzialmente a favore dello “Stato minimo”, ovvero progressisti sul piano sociale e molto liberisti in economia. Nel 2016, con Gary Johnson, hanno preso il 3,2%, tantissimo rispetto ai risultati passati. 

Voto per posta: a causa della diffusione del Coronavirus, che potrebbe spingere le Autorità, come già si sta vedendo nelle primarie democratiche, a far votare per posta.

Rust Belt: quell’insieme di territori, tra Midwest e Nordest, che hanno più sofferto delle trasformazioni economiche del Paese, che lì si sono spesso accompagnate alla deindustrializzazione e alla decrescita demografica. Proprio con la conquista di queste zone, storicamente vicine ai democratici, Trump ha costruito la sua vittoria. 

Flint: città del Michigan pesantemente colpita dalla deindustrializzazione. Dal 2014 ha vissuto la cosiddetta “water crisis”: dopo aver cambiato fonte di approvvigionamento, l’acqua che arrivava in città aveva quantità anomale di piombo, il che ha comportato danni enormi alla salute della popolazione. Detroit è la maggiore città del Michigan. Una volta estremamente prospera, anche essa ha fortemente subito il declino dell’industria automobilistica. Dagli anni Settanta, ha visto una pesante crescita della povertà e criminalità. Potete approfondire entrambe le storie sul nuovo libro di Francesco Costa.

Gerrymandering: pratica che consiste nel ridisegnare i collegi elettorali in modo da avvantaggiare il proprio Partito (cosa che porta anche a collegi territorialmente molto contorti). È stata una pratica storicamente comune a entrambi i Partiti, ma i Repubblicani l’hanno utilizzata particolarmente negli ultimi anni, circostanza che li ha avvantaggiati alle elezioni per la Camera.

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Perchè è importante

In Breve

  • La strategia di Trump e le sue chance di rielezione.
  • Il voto negli Stati in bilico.
  • I vari “volti” degli USA: le difficoltà del Midwest.
  • La trasformazione interna al Partito Repubblicano.

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Antonio Pilati
Antonio Pilati

Da Brescia, classe 1995, laureato in relazioni internazionali. Amo da sempre la storia e la geografia, orientandomi soprattutto sugli Stati Uniti. Sono inoltre appassionato di calcio, videogiochi strategici e viaggi, che adoro preparare con la massima precisione.

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