In 3 Sorsi – In El Salvador l’emergenza sanitaria ha dato l’opportunità al Presidente Bukele di sospendere libertà e diritti. La lotta alle gang ha trasformato lo Stato in una di esse e la democrazia sembra sempre più in pericolo.
1. LA RIGIDA STRATEGIA ANTI-CORONAVIRUS DI BUKELE
Nayib Bukele ha concluso, da poche settimane, il primo anno di mandato presidenziale. Il trentottenne salvadoregno è uno dei Presidenti più popolari dell’America Latina, grazie all’apprezzamento dell’87% dei propri connazionali. Uno status che gli ha consentito di agire in maniera straordinaria per far fronte a diverse emergenze, prima tra tutte l’epidemia di Covid-19. Il giovane leader populista della piccola rRepubblica centro-americana è stato, sin dalle prime settimane di marzo, tra i capi di Stato più radicali nell’assunzione di misure di quarantena obbligatoria. Una scelta dovuta anche alla fragilità del sistema sanitario salvadoregno, che avrebbe avuto poche possibilità di successo sul virus. La severa strategia di Bukele ha generato diversi effetti collaterali, primo fra tutti l’ulteriore impoverimento della popolazione. Il 70% delle famiglie salvadoregne vive, infatti, di lavori informali messi al bando dalle norme di confinamento. Lo scorso 2 giugno un decreto presidenziale ha ulteriormente esteso, fino alla metà del mese, l’obbligo di restare in casa, rendendo così El Salvador il secondo Paese al mondo per durata della quarantena, dietro al solo Paraguay.
Embed from Getty ImagesFig. 1 – Donne salvadoregne in protesta per la disoccupazione generata dalla pandemia, per la mancanza di viveri e di sussidi statali
2. L’USO DELLA PANDEMIA PER REPRIMERE LE GANG
Al di là degli aspetti economici e sanitari a preoccupare è il fatto che le politiche di Bukele hanno finito con il calpestare molti diritti costituzionali. Nelle scorse settimane si sono verificati migliaia di arresti nei confronti di quanti venivano sorpresi fuori dalle proprie abitazioni. Arresti arbitrari ai quali seguiva la detenzione all’interno di 87 appositi centri, sparsi nel Paese. Inoltre la Presidenza ha dato mandato, seppur informale, alla polizia e ai militari, dispiegati in strada, di utilizzare la “forza letale” contro i membri delle gang, che da decenni tormentano il Paese. El Salvador è tra gli Stati più violenti della regione, condizione che ha spinto molti esecutivi a intraprendere dure campagne di repressione nei confronti delle bande. Tali iniziative hanno però finito con il sortire l’effetto contrario, inasprendo e accrescendo le azioni criminali. In questa ottica il via libera di Bukele a detenzioni arbitrarie e omicidi “legalizzati” rischia di gettare il paese nel caos a causa delle inevitabili ritorsioni che le gang attueranno. Il tutto mentre l’emergenza sanitaria ancora sussiste e quella economica avanza.
Embed from Getty ImagesFig. 2 – Alcuni arresti da parte della polizia salvadoregna a causa delle proteste per la chiusura di diversi centri di assistenza sociale
3. BUKELE, UNA DEMOCRAZIA IN BILICO?
Come Obrador e Bolsonaro anche Nayib Bukele sembra agire con una “vocazione messianica” nella gestione di questo controverso momento storico. L’enorme consenso che accompagna il suo mandato appare ben lontano dall’essere intaccato, grazie pure alla “mano dura”, utilizzata nei confronti dei cartelli criminali, che, per quanto amorale, è apprezzata dalla maggior parte dei salvadoregni, stanchi di vivere nel terrore. Eppure così facendo lo Stato rischia di trasformarsi esso stesso in una gang. L’esecutivo salvadoregno dovrebbe rendere giustizia alle vittime e non vendicarle. Bukele ha il compito di difendere lo Stato di diritto e non di sfaldarne i capisaldi attraverso la sospensione delle libertà costituzionali e la violazione dei diritti umani. Gli stessi diritti per i quali, fino alla morte, si era battuto il santo salvadoregno Oscar Romero, di cui il giovane leader espone con orgoglio, e al tempo stesso ipocrisia, un ritratto nel Palacio Nacional. Un “golpe invisibile” sembra essere iniziato in El Salvador. Il Paese centro-americano rischia così di divenire il primo di una lunga lista di Stati in cui il coronavirus minaccia di mietere la più importante delle vittime: la democrazia.
Marco Martino