Analisi – ln Serbia l’epidemia di Covid-19 appare fuori controllo, ma il Presidente Vucic ignora sia critiche mediche che proteste di piazza, portando avanti i propri disegni di accentramento del potere. Intanto l’assenza di un’opposizione adeguata impedisce la trasformazione del malcontento popolare in un’autentica alternativa al quadro politico attuale.
UNITI CONTRO LA COVID (E L’UNITÀ DI CRISI)
Dal 21 giugno scorso, giorno in cui si sono tenute le elezioni politiche, l’epidemia legata alla Covid-19 è in Serbia completamente fuori controllo. Le Autorità, che fino al 22 giugno avevano mentito sul reale numero di contagiati, speravano che l’estate avrebbe rallentato la diffusione del virus, cosa che non è avvenuta. Il 7 luglio il Presidente Vučić aveva annunciato un nuovo lockdown, ma il popolo si era riversato in piazza e aveva dato luogo a sei giorni di proteste che il Governo guidato da Ana Brnabić non aveva esitato a reprimere senza pietà. Da allora è cominciata una nuova normalità: Vučić non parla quasi più della Covid, anche se gli ospedali non sono in grado di far fronte all’elevato numero di cittadini infetti e Belgrado è diventata una vera e propria bomba epidemiologica. L’Unità di Crisi, personificata dal dottor Predrag Kon, epidemiologo militare, appare in tv tutti i giorni alle 15 in punto, ma ha perso la fiducia del popolo, a tal punto che un gruppo di sanitari ha dato vita all’iniziativa “Ujedinjeni protiv Covida”, “Uniti contro la Covid”, sottoscritta da più di mille dottori: i firmatari chiedono che l’Unità di Crisi venga sciolta e che al posto degli attuali membri vengano nominate persone competenti e di alta caratura morale. Se la vera dittatura è quella in cui la parola non conta più nulla, la Serbia ha davvero detto addio anche alla parvenza di democrazia in cui fino a qualche mese si svolgeva la vita politica: il Governo, infatti, sembra non essere scosso dal fatto che a protestare siano proprio i medici che lottano contro il virus, appoggiati da eminenti mebri della società civile e dell’istruzione primaria e secondaria.
Fig. 1 – Manifestazione anti-governativa a Novi Sad | Foto: Christian Eccher
DANZE A PALAZZO
Il partito di Vučić, l’SNS (Partito Progressista Serbo) ha vinto le elezioni, boicottate dall’opposizione, con il 60% dei voti. Perché allora il Presidente ha tardato a convocare il nuovo Parlamento, in cui ha la maggioranza assoluta, e che si è riunito solo il 3 agosto? La risposta è semplice: aveva paura che il popolo approfittasse dell’occasione per scendere un’altra volta in piazza, dato che il luogo di ritrovo per eccellenza dei manifestanti, dall’epoca di Milošević in poi, è proprio lo spiazzo che si apre di fronte all’edificio del Parlamento. Vučić ha anche pensato, con la scusa della Covid, di indire la prima seduta del Parlamento nel quartiere di Novi Beograd, al di là del fiume Sava, al Sava Centar, una grande arena sportiva, in un’area collegata al resto del centro urbano da larghi boulevard che la polizia può chiudere facilmente in caso di assembramenti. Ma alla fine il Parlamento si è riunito regolarmente nel suo palazzo storico a Belgrado, accompagnato da una piccola manifestazione di protesta guidata dall’ex parlamentare Sasa Radulovic.
Nel frattempo sono cominciate anche le consultazioni per la formazione del nuovo Governo, che dovrebbe essere operativo agli inizi di settembre. In Parlamento sono entrati solo l’SNS di Vučić, i socialisti di Dačić e la formazione nazionalista Alleanza Patriottica di Aleksandar Šapić, un personaggio pressoché anonimo che non rappresenta – almeno per il momento – alcun pericolo per il futuro Governo. Vučić si è liberato del proprio padrino politico Vojislav Šešelj, ormai diventato scomodo soprattutto a livello di immagine internazionale. Šešelj è infatti un criminale di guerra, processato all’Aia, il cui partito radicale non ha raggiunto neanche il 3% dei voti. Šešelj e Vučić sono stati compagni di partito fino al 2008, quando Tomislav Nikolić, ex Presidente della Repubblica e capo della fazione moderata del Partito Radicale, ha fondato l’SNS. Una mossa intelligente, appoggiata dalle potenze occidentali, per cancellare il passato scomodo del Partito Radicale, che aveva apertamente sostenuto la pulizia etnica nelle zone di guerra della Bosnia e della Croazia. Šešelj e Vučić hanno avuto diverse scaramucce in passato, ma si può senza esagerazioni sostenere che lo stesso Šešelj abbia indirettamente appoggiato l’ex amico, al quale non si è mai davvero e fino in fondo opposto: il Presidente del Partito Radicale, infatti, ha sempre e solo svolto il ruolo mediatico di provocatore ed è stato il catalizzatore delle frustrazioni degli estremisti di destra. Con il suo linguaggio colorito e il turpiloquio ha incanalato nella propria persona la rabbia di coloro che ancora sognano la “grande Serbia” e la guerra contro gli albanesi del Kosovo. Da un lato Vučić si è liberato dell’amico e nemico storico, dall’altro dovrà gestire personalmente i malumori degli estremisti di destra, soprattutto adesso che è impegnato nelle trattative volte a trovare una soluzione per la questione del Kosovo.
Fig. 2 – Calcinacci e vetri rotti di fronte al Palazzo del Municipio di Novi Sad, preso d’assalto dai dimostranti a inizio luglio | Foto: Christian Eccher
La vera novità nel futuro Governo sarà lo spazio che verrà dato ai socialisti di Ivica Dačić, attuale Ministro degli Esteri e delfino di Slobodan Milošević. Un fatto di cronaca è passato quasi inosservato, ma è indicativo del terremoto che è in atto all’interno della compagine governativa serba: durante i disordini di piazza degli inizi di luglio, fra i manifestanti è stato notato il figlio di Petar Škundrić, un funzionario del Partito Socialista (SPS) che Dačić ha subito allontanato dal Governo e dal partito stesso. La notizia potrebbe sembrare insignificante, se non fosse che Škundrić non era un funzionario qualunque, ma la vera e propria eminenza grigia dell’SPS e del Governo. Russofilo, amico di Vladimir Putin, Škundrić è stato il regista dell’operazione che ha portato alla vendita dell’azienda di Stato NIS (Industria Nafta Serbia) alla compagnia russa Gazprom nel 2008. Ha coordinato anche altri progetti, fra i quali ricordiamo la costruzione del South Stream e la realizzazione degli investimenti russo-cinesi nell’ambito delle centrali elettriche Đerdap, Kolumbara i Obradovac. Il licenziamento di Škundrić è il sintomo di un cambiamento politico di prima categoria. In primo luogo Vučić vuole smarcarsi da Mosca per quel che riguarda l’approvvigionamento energetico: ciò gli permetterà con più facilità di riconoscere, almeno de facto, l’indipendenza del Kosovo. In secondo luogo a Vučić e alla compagine dell’SNS dà molto fastidio che vari parlamentari socialisti, negli ultimi anni, si siano dati al business. Ciò ha comportato la perdita da parte degli uomini di Vučić del controllo sui posti di lavoro (che garantiscono anche un ottimo serbatoio di voti) e sul capitale che entra ed esce dalla Serbia.
Embed from Getty ImagesFig. 3 – Ivica Dacic, leader del Partito Socialista e attuale Ministro degli Esteri
L’OPPOSIZIONE
Il fallimento delle proteste dimostra che in Serbia non c’è alcuna figura politica pronta a incanalare il malcontento in un vero e proprio progetto volto a opporsi allo strapotere di Vučić. D’altra parte in piazza c’era davvero di tutto: l’opposizione dei DS (partito diviso e sull’orlo della spaccatura, le due correnti principali hanno tenuto i propri congressi in città diverse), quella più ampia dell’Alleanza per la Serbia di Dragan Đilas che comprende diversi partiti, la società civile, gli antivax, gli ecologisti e soprattutto i sostenitori di Dveri, il partito di estrema destra guidato da Bosko Obradović, che è un convinto nazionalista, estremo difensore del Kosovo come parte integrante della nazione serba. I pochi mezzi di comunicazione non in mano al Governo, come la tv via cavo N1 (che fa capo alla CNN) e il quotidiano Danas, hanno dedicato diverso spazio a Obradović. Il politogo Szilárd János Tóth sostiene che le opposizioni democratiche hanno compreso che senza Dveri non riusciranno a costituire un fronte unito contro Vučić e hanno fatto entrare Obradović nel salotto buono della politica. Una scelta obbligata, forse, ma anche rischiosa, che ha un prezzo altissimo: se Obradović dovesse diventare capo dell’opposizione, e ce la può fare perché è un volto nuovo della politica ed è populista, si rischia di riconsegnare la Serbia alle logiche nazionaliste degli anni Novanta. L’opposizione critica, quella che vorrebbe buoni rapporti con i vicini e un’esame di coscienza sui crimini commessi dai serbi dopo il crollo della Yugoslavia, composta innanzitutto da giovani, rischia di essere schiacciata e di scomparire. Ai suoi membri non resterebbe altro che seguire i propri coetanei che sono emigrati verso l’Europa occidentale: negli ultimi 12 anni, ben 500mila persone – in gran parte laureati sotto i 30 anni – hanno lasciato per sempre il Paese.
Christian Eccher
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