Terza ed ultima parte dell’analisi sul contesto iraniano: dopo aver trattato i rischi connessi al programma nucleare di Teheran e dopo aver illustrato la varietà dei rapporti tra i Paesi del Medio Oriente e la complessità della questione legata alla proliferazione degli armamenti, oggi prendiamo in considerazione l’efficacia delle contromisure e delle sanzioni. Imbrigliare Teheran è la chiave di tutto?
NESSUN ATTACCO – Scalando i gradi della possibile risposta all’Iran, lanciato verso lo sviluppo delle tecnologie nucleari, si deve fare i conti con l’ipotesi di un attacco convenzionale per bloccare tale sviluppo. Sui possibili scenari strategici e politici di questa possibilità si sono versati e si versano fiumi di inchiostro. Questa minaccia da parte americana appare una pistola scarica, gli USA non possono letteralmente permettersi una nuova grande campagna militare, né dal punto di vista di economico, né da quello dell’impegno militare. E d’altra parte è noto che l’infrastruttura nucleare persiana è articolata, diffusa sul territorio, mimetizzata e sepolta a grandi profondità fortificate, quando non integrata nel tessuto metropolitano di grandi città: un semplice attacco aereo anche prolungato, non fermerebbe il programma atomico. Potrebbe però rallentarlo per un po’, e il tempo guadagnato potrebbe rivelarsi decisivo (ricordare il bombardamento israeliano del sito iracheno di Osirak, nel 1981: neanche quello di per sé risolutivo, eppure di fatto fondamentale). Però, bombardare decine di siti nucleari comporta incognite enormi, in termini di diffusione nell’atmosfera del materiale radioattivo, e di permanente inaccessibilità a un territorio dove la densità di risorse energetiche (idrocarburi) è la più elevata al mondo.
SANZIONI, EMBARGO COMMERCIALE E FINANZIARIO – Formalmente l’embargo si sta stringendo, con Cina e Russia che aderiscono, e l’UE che inasprisce unilateralmente le misure, eppure il suo esito è incerto, la tenuta appare labile. Il quadro è in realtà abbastanza complesso, e opaco. Apparentemente Teheran ha trovato fuori dall’Occidente molti e potenti amici interessati ad essere presenti, come acquirenti e come investitori, nel suo vasto mercato energetico. Inoltre, le sanzioni dell’ONU, non contemplano misure per quel settore (queste sono state adottate unilateralmente da USA e UE), ma solo contro banche e imprese presumibilmente coinvolte nel programma nucleare iraniano, le forniture di armi e le imprese legate ai pasdaran: nulla infatti si può imputare alle società petrolifere di India, Cina, Russia (e Turchia) che continuano a operare nel paese. E già si è aperto un sapido battibecco diplomatico tra Washington (“non approfittate delle sanzioni UE per guadagnare posizioni in Iran”) e Pechino (“stiamo ottemperando rigorosamente al dettato ONU”). Così da un lato Teheran si affretta a garantire ai contendenti russi o cinesi condizioni contrattuali migliori di quelle già stabilite per Repsol o Shell che abbandonano il campo, dall’altro Mosca e Pechino mostrano interesse, o magari firmano proprio in questi giorni importanti accordi di cooperazione energetica. Un altro importante attore della partita iraniana si rivela essere la Turchia, già emersa come potenziale mediatore globale sulla questione, assieme al Brasile. Il sorprendente boom economico turco non è certo un sottoprodotto dell’embargo contro l’Iran, e del resto attrae capitali importanti anche dalle monarchie del Golfo, ma sicuramente una sua quota importante fa capo al fiorire di export e accordi con Teheran.

IL SUPPLENTE ORIENTALE – A uno sguardo più attento però queste prospettive mostrano limiti importanti: appare molto improbabile che la “supplenza orientale” possa colmare il vuoto lasciato dalle compagnie occidentali. Il gap tecnologico delle compagnie nazionali rispetto alle multinazionali storiche permane, ma soprattutto l’India si è già sfilata dal progetto per il grande gasdotto dall’Iran al Pakistan, sicuramente per la altissima tensione con Islamabad seguita agli attentati di Bombay, ma forse anche per ragioni più profonde e strutturali. Pare che New Delhi sia orientata a soddisfare le proprie esigenze puntando in gran parte sulle risorse interne, destinate a un notevole sviluppo nei prossimi anni grazie alla scoperta e messa in opera di nuovi giacimenti, all’intensificazione delle estrazioni dai siti esistenti, e allo sviluppo di risorse non convenzionali (shale gas). Prospettive del genere del resto si aprono anche per la Cina, e comunque le compagnie di Cina e India stanno investendo massicciamente sul gas non convenzionale nordamericano, e trovano molto allettanti i mercati africani e iracheno. In breve, Pechino e New Delhi sembrano intenzionate a mantenere le posizioni in un mercato molto importante, ma molto problematico, come quello iraniano, ma nulla di più. Infine, il trattato di cooperazione energetica tra Mosca e Teheran, firmato questa estate, è roboante nei termini, ma delinea una vasta collaborazione di lungo periodo, ed è ancora da vedere quali e quando saranno le sue implementazioni.
PROBLEMI PIU’ AMPI – A Teheran le preoccupazioni però non riguardano solo le sanzioni e dei malumori americani, che comunque hanno pure un loro peso. L’industria petrolifera iraniana, con cui comunque le società estere dovrebbero cooperare, appare sempre più come l’Armata Rossa alla vigilia della guerra mondiale, drammaticamente indebolita non solo e non tanto dall’embargo (cioè dal mancato accesso a finaziamenti e tecnologie occidentali), quanto dalle purghe operate dai fedelissimi di Ahmadi-Nejad alla guida delle imprese, che hanno perso gran parte del capitale di expertise accumulato negli anni a favore di nuovi quadri inetti ma fedeli alla linea. Nel medio periodo le conseguenze per l’Iran possono essere devastanti: l’industria petrolifera e gasifera sconta una trentennale scarsità di capitali e di investimenti, che ha precluso lo sviluppo dei giacimenti. La produzione va avanti da pozzi ormai antichi che corrono verso l’esaurimento, anche per la scadente tecnologia utilizzata. Nel breve periodo la situazione appare già critica: per la cronica carenza di capacità di raffinazione e le sconsiderate politiche di sussidio al consumo energetico Teheran dipende dall’import per il 40% dei suoi consumi, in particolare dalle “flebo” di Cina e Russia. Dovesse rinunciarvi, la situazione si farebbe veramente instabile. L’impressione è che cinesi e russi (questi ultimi in realtà hanno già parzialmente staccato la spina dei rifornimenti, con Lukoil, per ripensarci in agosto) abbiano il dito sull’interruttore dell’Iran, e del suo programma nucleare, ma la trattativa con Washington sia ancora in corso. Esiste poi, come detto, un aspetto energetico della questione, perché le riserve iraniane sono comunque enormi e difficilmente aggirabili, per la “fabbrica del mondo”, sopratutto se Pechino non intende assolutamente cadere nella dipendenza russa. Su un piano più squisitamente geopolitico Teheran deve apparire un boccone troppo grosso per lasciarlo agli americani, già dislocati tra Iraq e Afghanistan, e dunque in condizioni particolarmente favorevoli per approfittare del collasso persiano.
Andrea Caternolo