La Birmania, terra assolata, ricca di fascino e tradizione, attraente soprattutto per la sua posizione strategica di accesso all’oceano Indiano e la sua ricchezza in risorse minerarie e naturali, da qualche tempo non solo si trova al centro di polemiche e tensioni nel gioco tra Oriente e Occidente per l’egemonia nel Sudest Asiatico, ma sta diventando anche teatro di confronto politico tra le due signore della zona: Cina e India. L’embargo dei paesi occidentali e l’iniziale disappunto Indiano nei confronti della giunta militare Birmana, avrebbero spianato la strada a Pechino per intensificare la sua influenza nella zona.
RAPPORTI CON LA CINA – Nel 1989 il generale Than Shwe affiancato dalla Giunta militare si impose come leader assoluto in Birmania ri-nominandola Myanmar. Fu proprio allora che la Cina, all’epoca sotto la guida di Deng Xiao Ping, iniziò a considerare la possibilità di una liaison di mutua assistenza con Yangoon anche in vista di un futuro ampliamento della propria egemonia sul versante meridionale dell’Asia. I benefici di questo sodalizio sono evidenti: per Pechino risorse a basso costo per lo sviluppo delle regioni meridionali dello Yunnan e del Sichuan e accesso diretto al Mar Indiano; ingenti forniture di armi, investimenti in infrastrutture e fiumi di finanziamenti per Yangon. Grazie ai prestiti cinesi – l’ultimo di 30 milioni di euro senza interesse lo scorso settembre – il governo ha potuto scandalosamente arricchirsi e costruire la capitale nuova di zecca Naypyidaw, mentre la grande maggioranza della popolazione rimane in zone rurali, ridotta alla fame e dissanguata dai conflitti etnici, che non si arrestano in molte aree del paese.
L’incontro di Pechino lo scorso autunno tra Than Shwe e le alte rappresentanze Cinesi testimonia l’importanza del vincolo tra i due paesi, legati ormai a doppio filo da un rapporto che più volte ha imbarazzato la Cina sul piano internazionale, costringendola a prendere delle posizioni poco definite sia nei confronti di una giunta colpevole di violazione dei diritti umani, che in occasione della liberazione di Ang San Suu Kyi lo scorso novembre.

L’INDIA – In questo scenario emerge l’India, seconda dama d’Asia, attenta alle mosse di Yangon sin da quando la Birmania si trovava sotto il dominio inglese e sotto gestione dell’esercito indiano. In Myanmar la comunità indiana è ormai ben radicata, in particolare nelle attività commerciali, e ha spesso agito da tramite nel dialogo tra i due paesi. Quando la Birmania fu investita dagli sconvolgimenti politici degli anni ’80, l’India non nascose le sue simpatie per il movimento democratico di Aung San Suu Kyi, alla quale fornì mezzi, finanziamenti e le conferì il premio Jawaharlal Nehru. Questo portò ad un notevole deterioramento nei rapporti con la giunta, anche a seguito dei conflitti etnici nelle regioni di confine. Nel 1993 New Delhi iniziò ad ammorbidire il suo atteggiamento nei confronti del governo militare di Than Shwe, favorendo il dialogo e la mutua assistenza. I conflitti etnici nelle regioni nord-occidentali si erano placati, l’India vedeva nel Myanmar la via d’accesso verso un’espansione commerciale nei mercati emergenti dell’est a seguito della liberalizzazione economica del 1992 e inoltre si preoccupava della crescente influenza cinese nel Golfo del Bengala. In particolare il governo indiano era spaventato dalla presenza di navi militari cinesi e avamposti meteorologici nel Mare delle Andamane. Nel 1998 la collaborazione tra New Delhi e Yangon prese definitivamente il via: crescita dei flussi commerciali, finanziamenti per infrastrutture, progetti di sviluppo nelle regioni nord-occidentali e cooperazione in campo militare.
L’interesse costante di queste due potenze in ascesa ha permesso al governo militare di Than Shwe di rimanere in piedi e di arricchirsi costantemente. Secondo i dati di World Bank e IMF la situazione è costantemente peggiorata rispetto agli altri paesi dell’area, quadro ancora più agghiacciante se si pensa che ai tempi del dominio inglese la Birmania era la punta di diamante del Sudest Asiatico per la sua ricchezza di risorse e per avanzamento culturale. Se da una parte le elezioni e la liberazione di Aung San Su Kyi possono essere viste come segnali positivi, dall’altra si capisce quanto oggi Than Shwe si senta forte e legittimato. Cina e India ne sono indirettamente responsabili, nonostante forse non ne siano del tutto consapevoli: governi di paesi dove la povertà e la violazione dei diritti umani sono abitudine e fino a pochi decenni fa erano regola, non possono porre gli stessi come freno al proprio interesse e subordinarvi la propria ricchezza.
Valeria Giacomin