Miscela Strategica – L’editoriale di questo mese si occupa nuovamente di Italia e geostrategia. In particolare, i rivolgimenti politici di questi giorni parlano più volte della necessità di cambiare marcia a tutti i livelli. Vediamo se e come cambierà il mondo della Difesa.
IL BILANCIO – Questo mese, sulle nostre pagine, abbiamo affrontato un ampio spettro di tematiche di interesse geostrategico quali cyber security, deterrenza nucleare, terrorismo internazionale, tecnologie avanzate, sicurezza ambientale. I nomi di alcuni Paesi come Cina e Stati Uniti ricorrono trasversalmente ad ogni area geografica ed argomento, segno evidente della loro dimensione globale. Altri, invece, come l’Italia, sono citati molto poco. Perché? E soprattutto, esistono dei temi di geostrategia al nostro Paese cari? Difficile dare una risposta univoca, ma proviamo a fare il punto. Il nostro Paese non sembra avere, al momento, obiettivi strategici programmatici. In parole semplici, le Forze Armate italiane non hanno alcun documento programmatico o visione di riferimento che illustri chiaramente le missioni istituzionali assegnate, venuta meno la minaccia diretta al territorio nazionale. In assenza di direttive strategiche adeguate diventa poi difficile decidere quali missioni internazionali siano realmente di nostro interesse, quali sistemi d’arma siano adeguati e quali superflui oppure per quali minacce i nostri militari si debbano tenere addestrati e pronti. Sintetizzando, manca la visione di insieme.
Il caso Marò, l’acquisto di F-35 o il ritiro della missione in Afghanistan rappresentano “hot spots” che sembrano essersi presentati come contingenza piuttosto che come parte di un quadro più ampio. La responsabilità di ciò è squisitamente politica. Diversamente da Stati Uniti, Gran Bretagna o Francia, le politiche legate a difesa e strategia non sono molto popolari nel nostro Paese. Anzi, rappresentano spesso una patata bollente che i nostri esecutivi hanno preferito evitare o passare al Governo successivo. Parlare seriamente di sicurezza dello spazio aereo, difesa delle rotte marittime commerciali di nostro interesse, intelligence in Paesi limitrofi instabili – per fare alcuni esempi – è difficile e politicamente poco gratificante. Chi avesse deciso di farlo avrebbe prestato il fianco a facili puntate degli avversari politici che, facendo leva sulla scarsa informazione, avrebbero tacciato il Governo di turno di militarismo o peggio, con pochissimi distinguo tra destra, sinistra o altro; ci si scambia le stilettate, insomma. Ma non è tutto. Lo strumento-difesa e il suo utilizzo sono legati a doppio filo con la politica estera. Quando la politica estera di un Paese è ben delineata nel lungo periodo, la modulazione della funzione Difesa diventa semplice, perché gli interessi del Paese sono desumibili dal proprio operato nei confronti degli attori esterni. Anche in politica estera, però, l’Italia accusa lacune che ne hanno azzoppato la pianificazione strategica e di cui abbiamo parlato, auspicando un cambio di atteggiamento e avanzando alcune proposte, in seno al Giro del Mondo in 30 Caffè.
UN APPROCCIO COSTRUTTIVO – Evidenziare i punti deboli italiani, considerando il momento di profonda crisi di identità e valori, oltre che economica, è relativamente semplice anche nel settore Difesa. E’ quasi tautologico che un Paese che ha rischiato il default più volte abbia seri problemi a tutti i livelli. E’ difficile invece, esaurite le critiche, proporre alternative valide che sostituiscano le cattive abitudini maturate in decenni di trascuratezza. Questo vale per molti settori, ma per quello della Difesa assume un valore particolare, vista la conoscenza specifica che la strategia militare e l’annesso comparto industriale richiedono. E’ quindi un segnale positivo che gli ultimi esecutivi abbiano privilegiato Ministri della Difesa che avessero una percezione reale di tale compagine (Gianpaolo Di Paola, Roberta Pinotti). Condizione necessaria, ma non sufficiente. Possiamo identificare tre aree critiche nelle quali intervenire:
1) Strategia: maturare una visione strategica significa in primo luogo capire quale sia il nostro posto nel Mondo, quando potrebbe essere richiesto il nostro intervento e in che modalità. E’ molto improbabile che l’Italia venga chiamata da sola ad affrontare un conflitto o un intervento all’estero. Le motivazioni sono politico-economiche ma anche capacitive, non saremmo in grado di sostenere una campagna militare autonoma né economicamente né militarmente. E’ invece chiaro che, in virtù dell’appartenenza alla NATO o all’Unione Europea, i nostri sforzi saranno sempre congiunti a quelli di altri Paesi. Per non farsi trovare impreparati bisogna quindi dare maggiore impulso allo studio sistematico dei possibili teatri di impiego italiani, pur all’interno del sistema di alleanze e tenendo conto di quelle capacità che è bene mantenere autonomamente (ad es.: difesa rotte marittime, difesa aerea). Lo si potrebbe fare a livelli multipli e tra loro sinergici: istituzioni militari, mondo accademico, settore privato specializzato.In seguito, tarare lo strumento Difesa perché sia adeguato a fornire un contributo di qualità e, conseguentemente, avere maggior potere decisionale in seno alle alleanze, anziché trovarsi nella condizione di doversi adeguare alle linee strategiche da altri delineate (ad es.: Odissey Dawn sulla Libia, Enduring Freedom in Afghanistan, Allied Force sul Kosovo, Restore Hope in Somalia). Questo implica, inoltre, privilegiare l’interoperabilità di uomini e sistemi d’arma con le forze alleate, al fine di ottimizzare le spese e dividere con altri i costi di addestramento, gestione, logistica e manutenzione, nonché ottenere economie di scala (e indirettamente credito politico – nda).
2) Gestione: ormai da tempo, critiche dure investono il comparto Difesa, accusato di drenare risorse eccessive dal bilancio statale per “acquistare armi” o “fare la guerra”. In realtà la quota percentuale del PIL (circa 1%) che l’Italia destina alla funzione Difesa è la metà di quanto la NATO chiederebbe e leggermente al di sotto della media europea. Di questa percentuale, come molti ignorano, il 67% finisce alla voce “personale”, ovvero serve per pagare gli stipendi delle persone che servono sotto le armi. La parte restante si divide tra esercizio (vettovagliamento, carburante, manutenzione, ecc.), 23%, ed investimento, 10% (ricerca, acquisizione sistemi d’arma). Due le misure urgenti: ristrutturazione degli organici e revisione dei programmi di acquisizione. Per spiegare in breve, il personale costa così tanto perché il rapporto numerico tra graduati e militari di truppa è eccessivamente elevato (troppi ufficiali) e quindi, considerando i relativi trattamenti economici, molto oneroso. Ne deriva inoltre inefficienza operativa (duplicazione di comandi ed enti e relativa logistica di supporto) e sottoutilizzo degli ufficiali di rango più elevato. La riforma Di Paola in materia va perseguita ed anzi i tempi dovrebbero essere contratti. Per quanto riguarda i programmi, da una parte occorre riprendere quanto detto sopra su requisiti ed interoperabilità, dall’altra è necessario valutare quali di essi si adeguino effettivamente agli obiettivi strategici del Paese (una volta definiti!) e quali invece da cassare perché velleità pro domo sua di una singola Forza Armata. Provvedimenti come questi hanno lo scopo di lasciare immutato il bilancio della Difesa, pur migliorando la performance complessiva delle Forze Armate e, di conseguenza, l’importanza geostrategica italiana.
3) Industria: l’industria italiana della difesa, così come quella europea, soffre di campanilismo quanto di nanismo, con poche eccezioni. Il comparto industriale della Difesa è tra i pochi in Italia ad alta tecnologia ed innovazione e i suoi prodotti vengono sovente apprezzati e valutati con interesse. Tuttavia le conquiste in tal senso vengono talvolta vanificate dalla difficoltà a vendere i propri prodotti all’estero e/o in numeri sufficienti a creare profitto, poiché ci si trova spesso in concorrenza con gli altri poli europei. Una guerra tra poveri però, dal momento che, in molti casi, a spuntarla sono i colossi statunitensi o russi, in grado di offrire un rapporto qualità/prezzo migliore e tempi di consegna ridotti, oltreché essere ben spalleggiati politicamente. Le industrie europee sono relativamente piccole e poco atte a sfruttare economie di scala. Le duplicazioni sono all’ordine del giorno: ciascun Paese favorisce con (troppe) commesse nazionali la propria industria. Abbiamo così decine di modelli di veicoli, aeromobili, unità navali. E tutti prodotti in piccoli numeri. I requisiti nazionali andrebbero rivisti per favorire la nascita di un’offerta europea e non solo nazionale. Le tristi storie dei consorzi, che comportano spese di gestione e realizzazione titaniche, andrebbero sostituite con fusioni vere tra le aziende, che avrebbero così dimensioni e requisiti per competere adeguatamente. Infine, nel complesso è utile aver presente il primo punto sulla strategia, affinché il finanziamento dei programmi militari maggiori sia parte di una visione più grande che tenga conto anche dell’utilità politica di operare una scelta di campo, soprattutto nei sottosettori nei quali la competitività è il valore principale da difendere (e non da svendere – nda).
CONCLUSIONE – Gli spunti che abbiamo fornito non sono certamente esaustivi delle urgenze che l’Italia ha accumulato in materia di geostrategia, ma delineano un quadro generale nel quale è possibile avanzare proposte e soluzioni. A monte di tutto ciò si colloca una domanda fondamentale: perché l’Italia ha bisogno di una dimensione geostrategica? Affrontare questo argomento con onestà intellettuale e renderlo comprensibile al maggior numero possibile di persone è la premessa fondamentale per poter parlare di geostrategia italiana con serietà ed aprire un dibattito costruttivo sui punti che abbiamo evidenziato. Dibattito che deve prendere corpo sia all’interno che all’esterno del quadro istituzionale di riferimento. È questo un tema che ci appassiona, di cui torneremo ad occuparci molto presto.
Marco Giulio Barone